di Fulvio Frezza
«Mà, mi servono cinquecento lire. »
« Nicò, e secondo te chi me le deve dare a me cinquecento lire? »
« Mà, pure trecento vanno bene. »
« Cento lire, quelle ti posso dare, devo comprare il pane. »
« Cento lire sono poche. »
« E che devi fare con cinquecento lire. »
« Dobbiamo comprare il pallone che l’altro è finito nel carcere. »
« Nicò, e quante volte te lo devo dire che non devi giocare lì a pallone, solo per arrivare vi stancate, e poi non passa mai nessuno, quello è uno scuffilato non è un carcere. So’ vent’anni che sta lì e non l’hanno mai aperto. »
« E secondo te dove dobbiamo giocare a pallone, sul Corso? »
« Ecco, quello è un posto buono, almeno c’è qualcuno che vi vede. »
« Mà, tu non capisci niente di pallone, dammi le cento lire che vado a vedere cosa hanno accocchiato gli altri. »
Cinquecento lire per un Supersantos fiammante, ancora uno. Da quando giocavano al carcere ne avevano persi almeno una decina, inghiottiti dal muro alto dieci metri. Colpa dei piedi storti di Giacomone, che giocava ala destra e si ostinava a crossare di esterno. Le palle di ferro ci volevano, altro che Supersantos. E comunque la partita si doveva fare. Per forza. Avevano sfidato quelli delle Cave, mica potevano fare quella figura. Una squadra senza pallone… che cazzo di squadra è?
Nicola arrivò davanti al carcere che quelli delle Cave ancora non c’erano. A distanza cominciò a contare. Otto e otto, ma almeno ne servivano un paio di riserva. Uno per recuperare i palloni che finivano fuori, e quello era Tonino, matematico. Il più scarso di tutti, lungo e fesso. E poi ne serviva un altro, per colpa delle scarpe. Perché le avevano tutti così vecchie e rattoppate da non riuscire a farle durare per un’ora intera. Due tempi da trenta minuti, che otto e otto di più non si può. Col recupero, però, quello si faceva sempre.
« E il pallone? » gridò verso gli altri quando fu a portata di voce.
« Hai portato la moneta? »
« Cento lire tengo, e voi? »
« Solo Giovanni ne ha avute cinquanta dalla madre. »
« Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo! »
E cominciò a correre facendo l’aeroplano per tutto lo sterrato che fronteggiava l’ingresso del Carcere.
« Sì, fai il cretino, e adesso chi glielo dice a quelli della Cave? Bella figura di merda! »
« Abbiamo affrancato, Giovà, gol e mazzate! » e tutti si misero a ridere.
Perché quelli delle Cave menavano come i matti. L’ultima volta avevano perso 5 a 1, ma soprattutto lui e Giovanni erano rimasti una settimana a letto spezzati di gambe per tutti i calci che avevano preso.
« Oh, io voglio giocare, stavolta mi sento che vinciamo noi, me lo sono pure sognato che segno. »
« Che vuoi segnare se non teniamo manco il pallone! »
Senza nemmeno rispondere Nicola si avvicinò all’ingresso del Carcere. Che saranno mai dieci metri, si diceva tra sé e sé, lo scavalco questo cazzo di muro. Solo che ogni metro che faceva in avanti il muro gli sembrava sempre più alto.
« Nicò… ma dove cazzo vai? »
E gli sembrava di averle gridate anche lui quelle parole. Già, dove cazzo vado?
Arrivato davanti al grande cancello di ferro vide le cerniere. Per renderlo invalicabile dall’interno, infatti, le avevano applicate tutte sulla facciata, tanto nessuno scavalca un cancello per entrare in carcere. Erano messe a circa un metro l’una dall’altra, per reggere il peso di quelle enormi lastre di ferro. Le cose si mettevano meglio di quanto pensasse, e così cominciò a salire, un metro alla volta: una mano sulla cerniera superiore e un piede su quella inferiore. E così via, un metro dopo l’altro. Quando fu in cima si girò per salutare a modo suo gli amici, facendo il gesto dell’ombrello. Solo che nell’attimo in cui lo fece, staccando entrambe le mani e guardando in basso per poco non cadeva. Cazzo se era in alto! Perfino il paese gli sembrava piccolo da lassù. Vide anche che quelli delle Cave si stavano avvicinando, però. E così chiuse gli occhi e cominciò a scendere all’interno del Carcere, reggendosi con le dita infilate nel sottile spazio fra il cancello e il muro. Il sole picchiava in quella calda mattinata di giugno, ma Antonio sudava per la paura e la tensione accumulata. Quando fu a un paio di metri dal suolo era talmente stanco che allentò la presa e spiccò un salto, finendo rovinosamente col culo per terra. Il tonfo fece alzare un gran polverone e da fuori gli amici si spaventarono.
« Nicò… ti sei spaccato di testa? »
« Mamm’t s’è spaccata, Tonì’, mica solo la testa… »
Lo disse sforzandosi di mascherare il dolore che dall’osso sacro gli saliva fino al cervello. Intanto però la polvere si stava dissolvendo. Si stropicciò gli occhi un paio di volte. E poi ancora una. Nel bagliore del cortile, mentre la polvere si dissolveva, gli sembrava di vedere tante macchie arancione. Forse aveva battuto davvero la testa e ora vedeva le stelle. Poi si illuminò e cominciò a contare, ma arrivato a trenta capì che era inutile. Saranno stati almeno cento Supersantos, alcuni sgonfi, altri che ancora parevano in perfetta efficienza. Ne raccolse uno fra le mani, lo fece rimbalzare un paio di volte, poi lo lanciò in aria, caricò il destro e poco prima che toccasse terra lo calciò con forza verso l’alto. La partita era salva. Si trattava solo di ritornare dall’altra parte.
« Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo! »
Ora erano tutti gli amici che gli facevano il verso e correvano felici sotto la pioggia di Supersantos. Perché Nicola, a scanso di equivoci, aveva preso a calciare tutti quelli ancora alla giusta pressione. Più o meno, certo. Come per una forma di selezione naturale quelli che non passavano il muro di cinta li scartava.
« Mudù, Nicò e che ce li dobbiamo vendere i palloni? »
« Tu non ti preoccupare, mettili da parte che almeno per un anno stiamo a posto e così non devo scavalcare di nuovo »
Pallone dopo pallone si era addentrato nel cortile, fino a trovarsi a ridosso della prima palazzina. I vetri erano tutti rotti e l’interno delle stanza, quelle che si vedevano da fuori, erano stati letteralmente saccheggiati. Dagli uffici erano stati portati via i mobili, e solo qua e là si intravedevano alcune cassettiere arrugginite e un paio di sedie rovesciate. In fondo a quello che doveva essere l’ufficio accoglienza c’era un’altra finestra, che dava evidentemente su un secondo cortile. Nicola, come guidato da un’intuizione, attraversò la stanza correndo, si affacciò alla finestra e si trovò davanti il Paradiso. Un campo di calcio regolamentare in erbetta sintetica, con tanto di porte, reti e panchine per gli allenatori. C’erano pure le bandierine del calcio d’angolo e i dischetti del rigore.
Corse fuori urlando.
« Ragà, venite che giochiamo dentro, c’è il campo, un campo vero, un campo vero! »
Intanto erano arrivati quelli delle Cave, che si guardarono negli occhi e nonostante la loro aria da duri non si mossero di un millimetro.
« L’amico vostro è scemo! Mo’ come torna indietro? »
Già, perché Nicola non aveva proprio calcolato che le cerniere erano montate dall’esterno, proprio per impedire la fuga dei detenuti. E ora anche la sua.
Di risalire usando il sistema usato per calarsi all’interno non se ne parlava proprio. Le dita non reggevano il peso, fra l’altro se le era scorticate tutte.
« Se non viene Nicola non possiamo giocare … »
Esclamò Tonino, che di perdere con quelli delle Cave non aveva proprio voglia. Gli sembrò una buona scusa per non giocarla affatto quella partita. Ma Savino, il centravanti della squadra delle Cave mise subito le cose in chiaro: « Sì, ma noi quel muro non lo scavalchiamo, questo è sicuro, e per farlo uscire dal carcere dovete chiamare i pompieri. »
Nicola però voleva che si giocasse a tutti i costi e così ordinò ai suoi: « Cominciate, io trovo il modo di uscire di qua e vi raggiungo. »
Già, detta così sembrava facile, ma ci sarebbe voluta almeno una scala, e se mai ci fosse stata i ladri si sarebbero rubata pure quella. Avevano portato via tutto, giusto il campetto era rimasto, che quello come se lo portavano?
Intanto dall’esterno giungeva il rumore del Supersantos calciato ora con un tocco leggero, ovattato, ora con violenza verso la porta, e insieme le urla e le imprecazioni degli improvvisati calciatori. Tutto come una partita vera, perché avevano portato pure l’arbitro, con tanto di fischietto regolamentare. Pascalone in realtà aveva al massimo fatto qualche volta il guardalinee in partitelle di terza categoria, ma si era guadagnato abbastanza rispetto da risparmiarsi le canoniche botte in caso di rigori o fuorigioco controversi. Al massimo lo mandavano affangulo ma a quello dopo un po’ si era fatto l’abitudine, e così tutti lo chiamavano per tenere a bada, con la sua pancia esagerata, le risse che in campo comunque si scatenavano ogni dieci minuti, specialmente quando c’erano quei vastasi delle Cave.
Nicola continuava a girare nelle stanze devastate del Carcere fantasma senza trovare niente che potesse servire a uscirne. E certo, pensava, in un carcere non ti mettono mica a disposizione qualcosa per evadere. Di chiavi nemmeno a parlarne. In quel momento la voce di Savino bucò l’aria e se è per questo anche i muri che li separavano.
« Goooooool »
Doveva uscire da lì, senza di lui avrebbero sicuramente perso. Forse pure con lui, ma per Nicola questo era un aspetto secondario. Si mise a correre per tornare verso il portone di ferro. Attraversò il campo che scintillava sotto la luce di mezzogiorno e non seppe resistere alla tentazione di calciare un paio di Supersantos verso i pali di una delle due porte lontane, urlando sottovoce nel momento in cui la rete si gonfiava. Poi di nuovo di corsa, fino al portone. Da lì le voci di amici e avversari arrivavano forti, come amplificate dal metallo che faceva da cassa armonica. I fischi di Pascalone poi gli trapanavano i timpani. Il sole bruciava tutto e la lamiera era infuocata, questo rendeva ancora più difficile la presa. Appoggiò le spalle al pilastro e provò a contrastare i piedi nel sottile spazio che lo divideva dalla parte mobile dell’anta. Così facendo riuscì rapidamente a guadagnare qualche metro. Il sudore gli incorniciava il viso, che teneva basso per lo sforzo e per non farsi abbagliare dalla luce. Ancora un paio di metri e si fermò a respirare. Le scarpe si stavano sformando e sembravano sul punto di cedere. Mamma mi uccide, pensò, e gli venne da ridere. Alzò le mani per cercare una nuova presa. Bastava un ultimo sforzo. La scarpa destra all’improvviso, spinta dalla torsione innaturale, si sfilò dal piede. Savino, il centravanti delle Cave, segnò il secondo gol. Pascalone fischiò. Nicola cominciò a cadere. Toccò terra con un rumore sordo, ignorato da tutti, presi com’erano a festeggiare il raddoppio o a imprecare contro il mondo.
Tutta la vita davanti. Se stai per morire ti passa tutta la vita davanti, questo gli avevano sempre detto, o forse lo aveva letto su qualche libro di scuola. Ma se sei un ragazzino di dodici anni non hai vissuto abbastanza e allora ti capita il contrario. Nicola pensò più semplicemente a sua madre, che non avrebbe rivisto, e che era sempre stata tutta la sua vita, tutto il suo mondo. E poi pensò a una canzone che lei gli cantava per farlo dormire quando era più piccolo. Una canzone che diceva pressappoco quelle parole che ricordava e cominciò a ripetere fra sé, che la forza di gridare, quella non ce l’aveva già più:
When I was just a little boy
I asked my mother
What will I be …
Quando ero un bambino … quando ero bambino… sarò bello… sarò ricco… e lei mi rispose… e lei mi rispose… che sarà sarà… che sarà… sarà…
E quella musica, fatta di parole e amore, si interrompeva sospesa proprio nell’attimo in cui lui per primo attendeva la risposta a tutte le sue domande, come a cercare quel sonno che le avrebbe rimandate ancora una volta.
Che sarà… sarà… whatever will be…will be …
Tutto quello che poteva essere, ora non lo avrebbe saputo più.
Sorrise, ma chissà se quello fu un sorriso o una smorfia. Tonino segnò accorciando le distanze. La voce dolce e giovane che nel silenzio di una piccola stanza intonava quelle parole si confuse con la felicità degli amici e con il suo dolore. E poi gli parve di vedere una luce immensa, ma forse era soltanto il sole che dall’alto gli trafiggeva gli occhi.
« Nicola, muoviti che dobbiamo pareggiare » gridò qualcuno.
Ma era già troppo tardi.
Que sera, sera
Whatever will be, will be
The future’s not ours to see
Que sera, sera
What will be, will be