di Cosimo Ugo Paolo Miccoli
«Mettiamoci sdraiati » disse lo zio.
« Sdraiati? » lo interruppi, guardando scettico l’aggeggio ai nostri piedi. « Ma sei matto? »
« Basta cambiare il manubrio! Guarda! » ribatté salendo sul monopattino. « Andremo più veloci! »
Lo zio aveva solo due anni più di me, ma era pur sempre lo zio. L’ultimo figlio di nonna Filomena, quello che nessuno più s’aspettava. Nemmeno il nonno, che a cinquant’anni camminava col bastone, quando non era seduto ai tavolini del circolo a giocare a carte.
Lo zio in effetti aveva dei capelli rossi, che in famiglia non si erano mai visti, era più alto di me di dieci centimetri e aveva una gran voglia di fare a botte con tutti.
« Il bisnonno, dalla parte di mio padre… » aveva sempre puntualizzato la nonna a chi le contestava quella mancanza di somiglianza. Ma come avesse conosciuto quel lontano antenato restò sempre un mistero.
« Se vi mettete sdraiati, alla curva finite nel cinematografo » intervenne Seppe Lioce che, il sedere sempre incollato al seggiolino della sua bicicletta, era comparso come un fantasma accanto a noi.
« Tu sta zitto » ribatté subito lo zio. « Non eri tu quello che sapeva tenere il manubrio con le braccia incrociate? »
Seppe non rispose, perché le sue minchiate erano ben note e il suo atteggiamento da grillo parlante aveva avuto come risultato che dall’età di sei anni venisse sempre identificato con nome e cognome, quasi a voler essere sicuri che, quando veniva nominato in un discorso, l’interlocutore capisse subito e pensasse: “Ah certo! Quello lì.”
« Proviamo! » dissi. « Ma non sulla discesa. »
« E dove allora? » domandò annoiato lo zio, che si era seduto come un sovrano in cima alla scala di una delle case della piaz-
zetta.
« Guarda chi arriva! » disse d’un tratto Seppe Lioce.
Alle tre di quel pomeriggio di Maggio anche le case sembravano stordite dalla luce del sole e i manifesti della corsa motociclistica attaccati un po’ ovunque, creavano un’atmosfera sospesa, così che l’arrivo di qualcuno aveva i caratteri di un’entrata in scena.
« Fra quattro, Mario! Quattro giorni! » disse arrivando di corsa Lino. « Pantaleo ha detto tra quattro giorni! »
Uno strano formicolio si impadronì delle mie mani, come quando si iniziava a giocare una partita di pallone, ma molto più forte, e il mio collo diventò di colpo rigido, non tanto da impedirmi di girare la testa e cercare gli occhi dello zio.
« Quando li hai visti? » chiese alzandosi, dopo aver sputato qualcosa che aveva in bocca.
« Cinque minuti fa, dietro la chiesa » rispose arrossato Lino. « “O Sabato, oppure vi ritirate!” hanno detto. »
« E che facevano? » intervenne Seppe Lioce, che era addirittura sceso dalla bicicletta.
Lino, che non era proprio uno dei nostri, si piegò sul tronco per riprendere fiato e i suoi dieci secondi di silenzio diedero la giusta importanza a quello che stava per dire e al suo ruolo di ambasciatore.
« Pantaleo ha cambiato le ruote, ora sono più grandi e poi… »
« E poi? » intervenne subito Seppe, il cui naso si allungò dalla curiosità.
« E poi aveva degli occhiali da motociclista » disse Lino mimando con le mani quanto raccontava, « come quelli di Venturi l’anno scorso. »
« Come quelli di Venturi? » gli fece eco Seppe. « Madonna del Carmine! »
Ligorio Pantaleone, il mio avversario, era figlio del segretario comunale, un socialista basso e peloso, che in paese cambiava senso di marcia alle strade per puro pretesto e la cui famiglia aveva le mani su tutto: il frantoio, il trasporto dei morti e l’appalto del servizio di igiene pubblica: la carrizza, una sorta di autobotte con un autista e due omini, cui mia madre e le altre donne affidavano ogni giorno un vaso di metallo. Il contenuto era ciò che di più umano esista e anche di più puzzolente.
Pantaleo aveva le migliori scarpe, i migliori giornalini e ogni giorno a scuola suscitava l’invidia di tutti quando a merenda tirava fuori dalla cartella un grosso panino con dentro due fette di melanzane sott’olio.
« Non ha nessuna moto! È uno zingaro! » mi aveva umiliato mentre raccontavo ai compagni che mio padre, emigrato in Francia, mi aveva spedito una foto in cui guidava una Gilera 500 Rondine, come quelle della Milano-Taranto.
« E tu che ne sai? Pantacarrizza » avevo subito ribattuto.
Gli insulti erano proseguiti fino alla campanella, come i calci, che Pantaleo, di banco proprio dietro di me, aveva continuato a sferrarmi per tutta la lezione.
La contesa all’uscita da scuola si era trasferita nell’adiacente campo sportivo. Dopo avergli sferrato un pugno, ricevuto un calcio e rilanciato con una testata, i nostri compagni ci avevano separato, ma più veloce era stata una manata di quel disgraziato che già in lacrime mi aveva preso per la maglietta, producendo uno strappo che mi arrivava dal colletto all’ombelico.
« Maledetto! » avevo gridato prima di scoppiare in lacrime dopo aver constatato il danno. “Adesso chi lo dice a mia madre? “ era stata la prima cosa che avevo pensato.
« Sei uno zingaro! Sei uno zingaro! » aveva continuato Pantaleo, che invece piangeva per averle prese.
Quello zero a zero aveva avuto tre immediate conseguenze: dieci sberle appena superata la soglia di casa, una richiesta di risarcimento di 20 Lire, che il segretario comunale aveva rifuso a mia madre quasi si fosse trattato di elemosina e una sfida con il monopattino che Pantacarrizza mi aveva lanciato dopo un mese in cui il rancore era stato alimentato dal reciproco silenzio, interrotto qua e là da qualche pernacchia non appena uno dei due si girava.
« Questa non ci voleva! » continuò Seppe Lioce alla notizia che il mio avversario disponeva di quell’arma segreta.
Quale vantaggio sarebbe derivato dagli occhiali da motociclista non lo sapevamo. L’anno prima però al passaggio della Milano Taranto eravamo rimasti a bocca aperta nel vedere i centauri che, vestiti di nero dalla testa, ai piedi erano sfrecciati sulla strada per Francavilla, scuotendo i pioppi al margine della strada. Venturi aveva vinto quell’edizione stracciando gli avversari e coprendo i quasi mille chilometri della gara alla stratosferica media di 108 km/h.
« Ma a cosa a dovrebbero servire? » obiettò lo zio che mi tirò una manata sulla schiena vedendomi intimorito.
« Mannaggia! » si rammaricò Seppe. « Se c’era qui tuo padre con la Gilera! Avresti potuto farteli dare anche tu! »
Mi strinsi nelle spalle e accennai un sorriso. Chi avrebbe avuto il coraggio di dire che la storia della Gilera di mio padre me l’ero inventata? Una mattina di quattro anni prima mi ero svegliato e non avevo più visto la valigia che per più di un mese dietro la porta di casa ne aveva preannunciato la partenza. Come se la passasse in Francia, a Dunkerque, non lo sapevo. Riuscivo a malapena a pronunciare il nome di quel posto in cui con cinque paesani era andato a lavorare in un cantiere navale. Da allora era tornato al paese solo per la Pasqua del ’52: in autobus. E quasi mi sembrava di non riconoscerlo più quell’uomo i cui capelli iniziavano a diventare grigi. Aveva abbracciato forte me e i miei fratelli prima di ripartire, quasi non dovessimo più rivederci. « Quando la mamma ti chiama la sera, non farla stare in pensiero! » mi aveva raccomandato
Ma mia madre di pensieri ne aveva tanti. Se di notte mi svegliavo perché non riuscivo a dormire la trovavo in cucina che piangeva, mentre lavava le due paia di calzini che a turno dovevano bastare per tre figli. « Il prossimo anno, vieni anche tu con i bambini » le aveva detto mio padre, ma di anni ne erano passati tre e non saprei dire se in quelle lacrime ci fosse stata più fame, rassegnazione o tradimento di quell’amore che a sedici anni l’aveva sedotta a fuggire di casa.
« E va bene, andiamo alla discesa! » dissi sicuro.
« Forza! » disse lo zio iniziando a spingere il monopattino. « E piantala con quella bici! » aggiunse rivolto a Seppe. « Proveremo in tre! »
« Lì sopra non ci salgo! » replicò subito il poveretto già messosi al sicuro sul sellino della sua Bottecchia.
I nostri capelli completamente rasati, come sempre si tagliavano da aprile a settembre, mettevano in bella mostra una serie infinita di cicatrici. Erano ciò che restava delle sassaiole dell’anno prima con qualche banda avversaria, il cui ricordo svaniva tanto velocemente quanto ricrescevano le chiome. Ma Seppe aveva sulla fronte un segno ben più evidente. Una volta alla curva d’ingresso in paese un tipo di Ceglie non l’aveva visto e il povero Lioce era finito all’ospedale di Taranto, dove gli avevano suturato la testa con dieci punti.
« Non se ne parla » aveva continuato scuotendo la testa.
« Ci sali e basta! O ti sei già dimenticato il giuramento? » insistette lo zio.
Seppe Lioce stava già per dare la prima pedalata, ma il richiamo a quella promessa solenne lo fermò. “Tutti per uno” s’era detto l’anno prima, ma anziché incrociare delle spade ci s’era stretti le mani dopo averci sputato.
« Allora? Pronti? » disse lo zio. « Uno, due… »
« Ferma, ferma! Un attimo! » gridò Seppe, che alla mia sinistra aveva il compito di spingere da quel lato il monopattino. « E se in tre non ci regge? »
« Ci regge! Ci regge! » dissi. « Abbiamo già provato da fermi! Dai, Seppe! »
Lo zio contrariato ricominciò: « Allora? Uno, due e… »
« Ferma, ferma! » gridò di nuovo Seppe.
« Si può sapere ancora cos’hai? » si tirò su lo zio, sbattendo i piedi per terra. « Devi spingere! Hai capito? »
« Fatemi fare pipì » disse il malcapitato, che teneva gli occhi bassi guardandosi le mani.
« Giuro che se giri l’angolo e scappi… » aggiunse subito mio zio. « Lo sai che ti ripiglio, anche se tu hai la bici. »
Ma Lioce fu di parola. D’altronde per vincere la paura le nostre mamme ci avevano insegnato a far subito due cose: bere un bicchier d’acqua ed evacuare, come correttamente si sarebbe dovuto dire, ci aveva spiegato la maestra. E Seppe non aveva tutti i torti. La discesa non era una strada in pendenza qualunque. Cominciava piano piano vicino alla macelleria di Ciccio Fracassi e il segnale stradale di curva pericolosa non rendeva giustizia a ciò che, svoltato a sinistra, ti si parava dinanzi. Duecento metri da brivido, in cui dopo aver quasi sfiorato l’ingresso del cinematografo, si veniva immessi direttamente sullo stradone per Francavilla, con gli occhi che, prima confinati nel dedalo delle stradine, si perdevano d’un tratto nell’orizzonte dell’altopiano di Grottaglie, in fondo al quale nei giorni in cui il cielo era terso si intravedeva una macchia azzurra: il mare.
Eliminato il carico superfluo, Seppe si ripresentò con un’unica richiesta: dopo il due nella conta voleva il due e mezzo.
« Spingi eh! » lo esortò lo zio mentre si rimboccava le maniche della sua camicia piena di rattoppi. « Allora! Uno, due… due e mezzo… tre! »
Sdraiato sulla tavola, mi sforzai di tenere dritto il manubrio
e sentii chiaramente le suole dei miei compagni strisciare sull’asfalto.
« Dai! Più forte! Più forte! » gridava lo zio.
D’un colpo dopo una ventina di metri balzarono sulla tavola, aggrappandosi con tutto il coraggio che avevano ai miei vestiti e l’asse di legno largo sessanta centimetri e lungo un metro su cui poggiavamo le nostre pance emise un sinistro scricchiolio.
« Ora si rompe! Ora si rompe! » iniziò a gridare Lioce.
« Zitto! Zitto! » replicò lo zio mentre i cuscinetti prendevano velocità.
In quella posizione, che mai nessuno aveva osato provare, vedevo la strada scorrere così vicina al mio naso che ne ricordo ancora l’odore: un misto di gomma, benzina e cacca di cavallo. Ma ciò che più mi preoccupava erano i vestiti. I due copiloti si erano talmente stretti a me che ebbi la certezza di rimanere senza pantaloncini, se Seppe fosse caduto lungo la curva. Già mi vedevo seminudo all’incrocio per Francavilla lì dove la discesa terminava.
E d’un tratto la curva arrivò.
« Aiutooo! Aiutoooo!!! » iniziai a gridare, sentendo la strada che con prepotenza voleva strapparmi il manubrio.
« Madonna del Carmine! Madonna del Carmine! » mi faceva eco Seppe, fedele alle sue imprecazioni da chierichetto.
« Mantienilo dritto! Dritto! Forza! » diceva invece lo zio, che sovrappose le sue mani alle mie, dandomi lo spunto necessario a tenere ferma la barra.
Dribblate due buche e vinta la forza centrifuga che ci portò a strisciare sul viso di una donna truccata come un pagliaccio e con in mano una margherita, che campeggiava nella locandina del cinema, il sole ci accecò di colpo superata l’armeria e le ultime case. L’incrocio cominciò ad avvicinarsi così velocemente che quasi non distinsi la sagoma di Agostino Caliandro, uno dei tre vigili comunali.
« Mamma mia! » dissi cercando con i tacchi delle scarpe di rallentare quel bolide, mentre il fischietto della guardia ci intimava di fermarci.
Quasi si trattasse di un’auto Caliandro sollevò la paletta, ma come noi non sapeva che né le nostre suole né il freno rudimentale che avevamo agganciato al manubrio sarebbero bastati.
“Orso” dunque avvocata nostra… rivolgi a noi quegli occhi tuoi…
La cantilena zoologico-liturgica delle tre donne di colpo si fermò.
Erano mia nonna, mia zia e mia madre che, nel vedermi superare la soglia di casa accompagnato da Agostino, cominciò ad attorcigliare la corona del rosario tra le mani e a scuotere la testa.
Non bastarono le mie ginocchia sbucciate e il grosso bernoccolo che avevo sulla fronte a intenerirla.
« Per fortuna che c’ero io, altrimenti questi delinquenti chissà dove andavano a rompersi le corna » disse Caliandro che per assicurarci alla giustizia teneva me e mio zio per le orecchie.
« Ma ch’è stato? Santa Madonna! Donato! » si unì al coro mia nonna, non appena vide suo figlio, ponendo definitivamente termine al rosario con quella imprecazione.
« Avanti! Ditelo voi che stavate facendo! » disse Caliandro.
Lo zio come me teneva gli occhi bassi. Sapeva che sfidare la nonna in quel momento sarebbe stato un azzardo. La nonna non picchiava poi tanto forte, non dava punizioni. Semplicemente parlava. E la versione che avrebbe reso al nonno, vero braccio armato dell’educazione familiare sarebbe dipesa dalla sottomissione e dal dispiacere che il figlio avrebbe comunicato in quei due minuti.
« Allora? » insistette Caliandro. « Diteglielo voi che facevate! »
Incrociai per un secondo gli occhi spalancati di mia madre.
« Mi sono venuti addosso col monopattino! Grazie a Dio non si sono fatti nulla e non s’è fatta niente nemmeno la moto del comune! Ma la prossima volta… »
Agostino ci restituì la libertà dando un ultimo strattone alle nostre povere orecchie. Il sangue almeno per qualche secondo riprese a circolarvi, perché subito quelle pie donne si sostituirono allo sbirro nella presa.
« Ahia! Ahia! Basta! » gridò lo zio. « Eh lasciami! »
« Andiamo! E povero te se parli! Adesso facciamo i conti » lo zittì la nonna.
Sulla soglia di casa zio Donato per un attimo si girò e scosse la testa, quanto bastò a prendersi una sberla da nonna Filomena.
« Cammina! Fetente! » disse la donna che quasi stava per usare il rosario come una frusta.
Eppure ci eravamo capiti. Non ci importava nulla delle botte, delle punizioni, di Seppe che era scappato dopo la caduta, ma del monopattino sì.
E Caliandro era stato chiaro: « Ve lo scordate. È sequestrato. »
« Se lo prendo l’ammazzo » continuava a ripetere. « Vigliacco! Invece di salvare il monopattino se l’è data a gambe. »
Mancava un giorno alla sfida e zio Donato non sapeva far altro che inveire contro Seppe Lioce, resosi irrintracciabile da due giorni. Neanche il sasso che avevamo tirato sulla persiana di casa sua era stato capace di stanarlo, ma il povero Lioce era fatto così. Probabilmente era a letto con la febbre. « È capace di farsi venire qualunque cosa pur di non prenderle » diceva orgoglioso lo zio che mi mostrò una decina di lividi, frutto dell’incontro di boxe con il nonno la sera prima.
Da una delle strade comparvero Pantaleone e i suoi. Come un branco di iene ci vennero incontro sghignazzando e calciando i sassolini che incontravano sul percorso.
« Fammi passare! » iniziò Pantaleo, vedendo lo zio rimasto al centro della piazzetta.
« Hai tutto lo spazio, non ricominciare! » dissi rimanendo seduto sul mio personale gradino. « O hai paura d’inciampare su qualche formica? »
« Sta’ zitto! Con te ne parliamo domani! » rispose subito quello spaccone allungando un braccio per spostare zio Donato. « Mi raccomando! Alle tre di pomeriggio, all’inizio della discesa! Hai capito? »
« Non c’è bisogno che lo ripeti! Ci sarò! » risposi.
“Ci sarò!” pensai subito dopo. “Come ti salta in mente di accettare la sfida con tanta arroganza?” continuavo a domandarmi.
Tutta colpa di quei dannati monopattini. La febbre per quegli aggeggi c’era venuta due anni prima, quando il cugino di Lino, figlio di paesani immigrati in Germania, era tornato per l’estate con dei cuscinetti a sfera montati sotto una tavola. Ma questo non sarebbe bastato. Ad accendere la fantasia di noi ragazzini era stata lei: la Milano-Taranto.
Il boato di quei motori che avevano fatto tremare le case del paese ci aveva come risvegliato. Avevamo conosciuto qualcosa di cui ignoravamo l’esistenza: la velocità.
Ma non quella di un’auto o di una corriera che ti porta al paese vicino. No, era una velocità diversa, che travolgeva tutto, che veniva da Milano, da Bologna, da posti in cui ognuno di noi sarebbe voluto fuggire, lontano dalla fame, da una madre che te le dà, da un padre che non c’è. Da allora correre su quell’arnese imitando i piloti era diventata la nostra ossessione. Qualcuno per rendere la sensazione più verosimile ci aveva applicato una vecchia targa di auto, qualcun altro vi aveva addirittura montato una specie di sedile, così che quando guidava, poteva darsi le stesse arie di chi conduceva una motocicletta.
« Guarda che bella tavola, viene dallo scafo di una nave » mi aveva detto Vittorio il falegname, quando mi aveva regalato quel pezzo di legno, marcio agli angoli, che sarebbe diventato il mio bolide.
E avevo lavorato tutti i pomeriggi del mese di Luglio dell’anno prima per avere in cambio dal distributore di benzina tre vecchi cuscinetti a sfera da montarci sotto.
« Andiamo a riprendercelo! » dissi a zio Donato.
« Non ce lo restituirà mai » mi rispose sollevando la punta del mento verso la fine della strada dove si trovava l’officina di Renato il pazzo, lì dove la guardia comunale aveva portato il carrettino ricavandone qualche lira.
« Lo so, dobbiamo inventarci qualcosa… »
Renato il meccanico era un reduce della spedizione Armir, uno dei pochi che avessero potuto raccontare cosa fosse accaduto nella steppa russa. Da quando però era tornato, nel ’48 aveva sviluppato più di un insano progetto. Tra tutti quello più stravagante era costruire un’auto lunga lunga con dentro un letto. Ometterò il fine ultimo per cui intendeva costruirla: tuttavia l’auto più lunga del paese, ma anche della regione, ma forse anche del sud Italia faceva bella mostra di sé davanti all’officina e nessuno vi si poteva avvicinare.
« Vado lì e gli chiedo di restituircelo » proposi allo zio.
« Sì e lui ti tira dietro una chiave inglese! »
Dopo una buona mezz’ora in cui restammo a osservarlo nella speranza che si allontanasse
dal garage consentendoci di trafugare il nostro aggeggio, non ne potei più.
« Aspettami qui » dissi allo zio.
Tornai con un sasso di almeno duecento grammi e prima che esponessi il mio piano c’eravamo già capiti.
« Però lo tiro io » insistette zio Donato, « perché corro più veloce. Tu occupati del carretto! »
La macchina più lunga del mondo era un bersaglio fin troppo facile. In più essendo lunga dava un bel vantaggio allo zio sull’inseguitore ed era un perfetto riparo per me.
« Brutto figlio di … » Renato si fiondò fuori dal garage come una furia, tirando in ballo mezzo paradiso, non appena sentì andare in mille pezzi il prezioso lunotto del suo gioiello « Fermo lì! T’ammazzo! »
Ma lo zio partì quasi fosse un centometrista. Il reduce di guerra, per giunta un po’ zoppo, aveva dalla sua solo la rabbia. Non l’avrebbe preso mai. Sgattaiolai in officina e tirai un sospiro di sollievo. Non l’aveva ancora smontato.
Arrivai in cima alla discesa in anticipo di dieci minuti, dopo aver recitato davanti alla chiesa un’ Ave Maria, un Padre nostro e un Eterno riposo nel caso io e lo zio fossimo usciti di strada.
Al luogo dell’appuntamento Pantaleo ancora non c’era. “Fa tanto lo spavaldo e alla fine se l’è fatta sotto” sperai, ma non terminai di pensarlo che da uno dei vicoli spuntarono nell’ordine: Ciccio Spaccamattoni, Angelo il figlio di Spogliacristo e Pantacarrizza che già con gli occhiali in testa e dei guanti luridi da meccanico si dava delle arie di cui neanche Taruffi sarebbe stato capace.
« E il tuo compare? » domandò Pantaleo indicando a Ciccio di tracciare per terra una linea con il gesso.
« Dove finisce la gara? » domandai, mentre ora Pantaleone fissava stupito il mio monopattino a guida sdraiata. « Allora? »
« Come fai a portarlo con il manubrio così basso? » fece quello ignorando la mia domanda.
« Fatti i fatti tuoi! » replicai immediatamente. « Se mi va lo guido anche a occhi chiusi! »
In quell’istante preciso comparve lo zio, che volutamente fece finta d’inciampare sul carrettino di Pantaleo per assestargli un calcio.
« Guarda dove metti i piedi, pelo rosso! »
« E tu chiudi la bocca! Altrimenti oggi te la riempi di polvere! »
Dietro lo zio con mio grande stupore c’era anche Seppe, che con la faccia di uno che aveva appena urinato, mi fece un sorriso da ebete.
« E lui che ci fa? » chiesi allo zio.
« Và che l’ho perdonato! Corre anche lui! »
Lo zio mi raccontò che il pomeriggio prima, inseguito da Renato, era caduto. Quell’avanzo di manicomio l’avrebbe senz’altro preso se tutto ad un tratto Seppe e la sua bici non si fossero materializzati in suo soccorso.
« Allora? Pronti? » disse Spaccamattoni. « Vince chi arriva prima all’incrocio. »
Alla sua destra io, zio Donato e Seppe, a sinistra Pantacarrizza e il fidato figlio di Spogliacristo.
« Pronti? Partenza! Via! »
Pantaleo da vero deficiente partì emettendo con la bocca una specie di Broom Brooom con cui forse pensava d’aumentare l’accelerazione del trabiccolo, lo zio incitò invece Seppe a spingere più forte che potesse.
« Dai! Dai! » diceva adesso Pantaleo, che facendo perno con il piede sinistro sulla mia tavola cercò di mandarci fuori strada, mentre appaiati stavamo ultimando la prima svolta a sinistra.
« Gira! Veloce! » ripeteva lo zio, che con tutte le forze mi aiutò a tenere il manubrio in quella curva a gomito.
« Tutti a sinistra! Coraggio! » continuò vedendoci già in testa a metà del curvone.
Pantaleo invece dopo una brutta carambola, era stato costretto a fermarsi e insieme con Angelo aveva rimesso dritto quel suo triciclo per guadagnare una ripartenza.
Ma proprio davanti al cinematografo, lì dove in seguito capimmo che si toccavano i quaranta chilometri orari ci attendeva un’amara sorpresa.
Inattesa per l’ora e per il luogo ci trovammo di fronte la carrizza della ditta Ligorio, trainata da un povero cavallo che oltre ad avere i paraocchi avrebbe avuto bisogno del paranarici.
« Madonna del Car… » Seppe non poté neanche finire di bestemmiare perché lo scontro fu immediato, brutale e profumato.
Intrappolati sotto le ruote di quell’autobotte, con uno degli omini preposti al servizio sdraiato davanti a noi e il contenuto di uno di quei famosi vasi di metallo equamente distribuito tra me e i miei sfortunati copiloti, vedemmo Pantaleone sfilare soddisfatto e beato. Senza neanche fermarsi in barba a qualsiasi omissione di soccorso il principino raggiunse l’incrocio, scese dal monopattino e si girò a braccia conserte verso il curvone, lì dove faticosamente cercavamo di rialzarci. Aveva vinto.
« Allora Mario, vieni? » Seppe e zio Donato, trascorsi tre giorni dall’incidente passarono a chiamarmi per andare a vedere la Milano-Taranto.
La corsa come l’anno prima passava attraverso corso Umberto, la via principale del paese, per poi immettersi, superato l’incrocio, sullo stradone per Taranto.
« Andate voi, non mi va » dissi ai miei amici.
« Ma come? L’abbiamo aspettata tutto l’anno! » disse Seppe.
La sconfitta sul monopattino bruciava ancora, per due giorni non ero nemmeno andato a scuola, sicuro che gli sberleffi per quel memorabile incidente non sarebbero terminati molto presto.
« E se poi lo incontriamo di nuovo? » domandai, immaginando già la faccia di Pantaleo. « No, meglio di no, andate voi… »
Non ci fu modo di convincermi ad andare con loro, ma la voglia di vedere sfilare le prime moto fu più forte di qualsiasi vergogna. Mi sarei appostato da solo sulla strada che da Martina portava in paese, nei pressi del terreno del nonno, così le avrei viste prima di tutti.
Non erano ancora le undici quando al riparo dal sole sotto un ulivo sentii il rumore di uno di quei bolidi, avvicinarsi lentamente.
Era la numero settanta, una Gilera 500 Rondine, di nuovo lei, con attaccato un piccolo sidecar rosso fiammante come la motocicletta.
« Come dicono dalle tue parti: “tu m’ha bell’e rotto la contraccassa de’ ’oglioni !” Proprio ora doveva fermarsi » disse il pilota che sollevando i suoi occhiali scoprì l’unica porzione di viso che non fosse diventata nera come la pece.
« Dai Enzino! Muoviamoci » continuò quello rivolto al suo navigatore, dopo aver tirato un calcio alla ruota anteriore.
« Oh Bruno, ma che vuoi da me? È finita la miscela! » disse l’altro mentre il compagno continuava ad agitarsi.
La motocicletta al pari di una calamita aveva avuto il potere di farmi dimenticare qualunque cosa, tanto che mentre i due continuavano a mandarsi al diavolo senza accorgersi di me, ero già con le mani ad accarezzarne il manubrio.
« Oh, ma chi tu sei, ragazzo? Sta lontano! »
« Ma lascialo, Enzino! Ormai è andata! Chi se ne frega! » disse quello che più tardi si rivelò Bruno Francisci.
« È una Gilera! Giusto? » domandai incoraggiato dalle parole di quell’uomo. « Una Rondine quattro tempi. »
« Hai visto! Se ne intende pure! Forse più di te, idiota! » rincarò la dose.
D’un tratto ebbi un’idea. Il terreno del nonno e il capanno del motore del pozzo non erano poi troppo lontani.
« Avete detto che vi serve della miscela? Ve la trovo io! »
I due sgranarono gli occhi, ma le loro reazioni furono completamente diverse.
« Davvero, ragazzo? Beh fa presto per Dio! »
« Ma ché tu gli da’ retta? » mi bloccò il copilota
Corsi più veloce che potessi verso la terra del nonno e riempite le due borracce datemi da Francisci con la miscela, tornai di corsa da lui.
« Oh santo cielo! Dio ti benedica! Veloce, Enzino! » gridò il pilota tirando in aria i suoi occhiali. « A che diavolo mi servono! Taranto, arrivo! Andiamo a vincere! Forza! »
« E tu che fai lì giovanotto? » mi disse l’omino che si era seduto nel sidecar. « Monta! Vieni a Taranto con noi! »
Ancora vedo le facce di Pantaleone e dei suoi all’incrocio di Francavilla e la bocca spalancata di Seppe e dello zio.
In un turbine di polvere e accompagnato da un boato che fece tremare le transenne su cui i miei amici erano appoggiati, volavo su una Rondine e nessuno fino alla bandiera a scacchi mi avrebbe sorpassato. Come ha cantato un amico:
E con la polvere dei sogni volare e volare, al fresco delle stelle, anche più in là .
Sogni, tu sogni nel mare dei sogni.