di Lorenzo Marone
Mi porto la tazza con il latte alla bocca e faccio un lungo sorso. Avverto il liquido bollente invadermi la gola e poi scendere giù nello stomaco e mi sembra di riconquistare le forze. Ho abusato con il cibo, mi sono lasciato trasportare dall’euforia come molti miei compagni, e ora sono due giorni che ho i crampi. Invece occorre mangiare poco alla volta per far riabituare l’organismo. Ce l’hanno detto anche gli americani di non esagerare, altrimenti c’è il rischio di schiattare, così hanno detto. E sarebbe un gran peccato, proprio adesso che stiamo per tornarcene a casa.
Ieri sera un romano si è gettato con avidità su di una crostata. Gli ho detto: “Guarda che così crepi”, ma lui non ha voluto saperne. Dopo un po’ si è fatto viola. L’ho trascinato davanti a uno specchio. Si è talmente spaventato che ha giurato di non toccare più cibo.
Stiamo aspettando che gli americani ci mandino a casa. Mi sembra incredibile il solo pensiero di poter rivedere la mia città, di riabbracciare i miei cari. Perché io e gli altri disperati che sono qui distesi al mio fianco, in questa vecchia fattoria, siamo da poco usciti dall’inferno. Anche se credo che l’inferno sia un posto più accogliente di quello che ci ha ospitati nell’ultimo anno: il campo di concentramento di Mauthausen.
Hai la camicia inzuppata e una goccia di sudore s’infila a fatica nel sopracciglio per poi intrufolarsi nell’iride. Avverti per un secondo il bruciore ma poi te ne dimentichi, la tua attenzione è tutta per l’avversario che hai di fronte: lo spagnolo. Così è chiamato qui, perché i nomi in questo posto dimenticato da Dio non si sa più cosa siano. Per cui ci si affida alla lingua di origine, l’unica cosa rimasta a differenziare gli uni dagli altri. Perché per il resto siete tutti uguali: zavorra, roba messa a marcire in attesa di esser gettata via con noncuranza.
Lo spagnolo ti guarda con aria di sfida poi parte con il gancio. Ma è troppo lento, forse perché si trova da maggior tempo nel campo o forse perché ha qualche anno in più di te. Eviti il suo pugno e ricambi con un destro che lo coglie in pieno sullo zigomo. Senti il crac sotto le nocche e per un attimo pensi che sia stata la tua mano a rompersi.
Intorno a voi un gruppo di prigionieri vi incitano e urlano, mentre un po’ più in là ci sono le guardie tedesche con i fucili in mano. Assistono al combattimento con interesse, con ogni probabilità anche loro hanno scommesso qualche spicciolo.
Lo spagnolo, dopo un attimo di esitazione, riparte alla carica. Ma lo schivi di nuovo e colpisci ripetutamente ai fianchi finché non è costretto a divincolarsi e a rifugiarsi in un angolo. È il momento giusto, il tuo avversario è frastornato. Senti le grida dei compagni, gli italiani sono tutti a fare il tifo per te. Allora capisci che puoi vincere anche stavolta.
Parti con un gancio sinistro allo stomaco per far sì che lo spagnolo sia costretto ad abbassare la guardia, dopodiché gli tiri un destro dritto sotto il mento. Il poveretto rivolta gli occhi all’indietro e cade a terra come un sacco.
Hai vinto. I tuoi connazionali ti portano in trionfo, chi ti abbraccia, chi ti dà pacche sulle spalle, chi grida. Sei l’unico italiano a boxare qui, gli altri sono tutti francesi, spagnoli e polacchi. Alla fine ti danno centocinquanta marchi che tu distribuisci fra i compagni affinché possano comprarsi le sigarette, l’unica merce che in questo dannato posto serva a qualcosa.
Ho iniziato a boxare qualche mese fa. All’inizio mi fermavo a guardare gli incontri dei polacchi e degli spagnoli, poi un giorno mi sono fatto coraggio e ho chiesto il permesso di poter partecipare anch’io. All’inizio nessuno mi considerava, poi si sono ricreduti e anche le SS hanno iniziato a puntare forte su di me.
In genere combattevamo la domenica sera, si montava il ring al “Blocco 16” o nella piazza dell’appello. Era un modo per svagarsi, forse l’unico momento in cui ci si dimenticava della realtà. Anche i tedeschi la domenica sera ai piedi del ring sembravano umani. Ma in realtà era una bugia, una grossa menzogna. In realtà non c’era nulla più di umano in quel posto.
Quello con lo spagnolo fu il mio quarto incontro. I precedenti li avevo vinti tutti e se non avessi diviso con i miei compagni, ora avrei messo da parte un bel gruzzoletto. Ma l’ho detto, i soldi servivano a poco, più del denaro contava la solidarietà degli altri. Per questo ho sempre preferito dividere le vincite.
Una sera però, subito dopo l’incontro, i tedeschi ci radunarono nella piazza principale e ci perquisirono. Era il mio primo combattimento e con ogni probabilità le SS avevano puntato tutto sul mio avversario, così la notte decisero di riprendersi quanto perso. Rimanemmo in piedi per due ore all’addiaccio, nudi come i bimbi appena nati.
Ma non mi lamento perché la mia vita all’interno del campo, grazie alla boxe, è stata migliore di quella di tanti miei compagni. Mi allenavo la sera in una saletta apposita al di sotto del crematorio, mentre il giorno lavoravo nell’officina elettrica, dove per la verità c’era ben poco da fare. Il capo era un socialista austriaco che mi trattava bene. Così in certi momenti mi sembrava anche di vivere una vita normale, come le persone là fuori.
Ma l’illusione durava poco, il tempo di un battito di ciglia. Alcuni giorni, infatti, gli ufficiali erano in vena di divertirsi. Sfilavano il berretto a un prigioniero preso a caso e glielo lanciavano verso il reticolato, ordinando di andare a recuperarlo. Il poveretto era costretto ad avvicinarsi alle garitte fin quando le sentinelle non iniziavano a sparare e lo facevano secco. A quel punto i soldati si sbellicavano dalle risate. Una volta vidi un prigioniero fare cinque salti prima di essere abbattuto. La sera me la presi con il mio sacco, lo riempii di botte fino a quando le mani non mi sanguinarono.
La cosa che più di altre mi lasciava interdetto era che non ci fosse alcun piano prestabilito, nessun colpevole da punire. Era solo il caso a decidere il destino di ognuno. Se ti trovavi a passare dove non dovevi passare in un giorno in cui i tedeschi avevano deciso di divertirsi, eri morto. Questo è quanto. Nessuna regola da seguire, alcun ordine preciso, solo caos.
Se io sono ancora qui, con una tazza di latte in mano, è grazie alla mia buona stella e al pugilato. Non credo esista un altro posto al mondo in cui il concetto di fatalità sia stato riprodotto con tanta precisione come in quel maledetto campo.
Il caso volle che un giorno per poco non fossi fra i venti poveretti costretti a restare quaranta ore con la faccia contro il muro. Chi non resisteva e si lasciava cadere era fucilato sul posto. Ogni tanto arrivava un soldato, prelevava un paio di poveracci e li portava nella sala dell’interrogatorio, dove si procedeva a torturali spesso fino alla morte. Io ero con alcuni di loro quella mattina, intento a scambiare delle sigarette con un po’ di pane. Me ne tornai al mio lavoro cinque minuti prima che i soldati arrivassero.
Con me all’officina c’era un altro italiano, un certo Palermo, un tipo simpatico, che mi adulava per il mio talento nel boxare. Rubava il pane ai suoi compagni e poi me lo regalava con aria soddisfatta, dicendo che a me ne serviva di più perché dovevo combattere. In realtà io lo dividevo con gli altri della baracca, anche se a lui non l’ho mai detto, anche perché un giorno non l’ho più visto. Ho poi saputo che una mattina come tante l’avevano condotto al crematorio. Avevano chiamato la sua matricola e l’avevano scortato fino al forno, come se lo stessero accompagnando in ospedale.
La mia baracca era la numero diciassette. La sera dovevamo sistemare i materassini in terra e poi metterci a dormire uno alla testa e uno ai piedi, altrimenti non ci entravamo tutti. Le guardie controllavano che ognuno trovasse subito il suo posto. Se qualcuno non riusciva a coricarsi arrivavano e lo riempivano di botte.
Il tedesco è davanti a te e ti fissa dall’alto in basso. Si chiama Heltzer, è quello che porta i detenuti giù alla cava a prelevare le pietre. È un armadio e tu in confronto sembri un bambino. Sarà difficile uscirne vivo, ma ormai ci sei, ti tocca combattere.
È il tuo primo incontro. Neanche una settimana fa eri fra il pubblico e ora sei sul ring. Hai chiesto ai polacchi di partecipare e loro ti hanno detto sì. Ti è sembrato strano all’inizio, ora hai capito che ti hanno usato come cavia, dandoti in pasto al bestione del campo.
Heltzer ti è subito addosso. Riesci a schivare i primi due colpi ma il terzo ti prende in pieno facendoti barcollare. Non hai nemmeno il tempo di riprenderti che arriva un altro macigno, stavolta nei fianchi. Ti si blocca il respiro mentre un quarto pugno ti fa saltare un dente.
Ti gira la testa e senti le gambe venirti meno ma non cedi, non devi cadere, non lo farai. Così riesci a concludere in piedi il primo round e poi il secondo e anche il terzo. Ormai hai il volto tumefatto ma inizi a notare il tuo nemico stanco. Non è più agile come prima e anche i suoi colpi non sembrano far più tanto male. Così decidi che è arrivato il momento di passare all’offensiva e riesci a colpirlo un paio di volte sul viso. Lui sembra impaurirsi e infuriarsi allo stesso tempo, e riprende a boxare con più forza. Ma ormai hai capito i suoi movimenti, riesci a evitarlo con facilità. Più passa il tempo più ti sembra di recuperare energie.
È il quinto round quando riesci ad assestare il colpo vincente. Heltzer ha appena allungato l’ennesimo gancio nel vuoto, tu scorgi per un attimo la sua difesa scoperta e parti con un bolide destro che lo coglie dritto sulla tempia. Il colosso tedesco crolla a terra nel silenzio generale. L’arbitro inizia a contare ma non lo fa regolarmente, fra un numero e l’altro passa molto più di un secondo. Mentre aspetti, ti giri e noti che gli italiani osservano la scena quasi contando insieme con il giudice. Anche le SS si sono avvicinate al quadrato e guardano il loro compare con aria di disprezzo.
Alla fine l’arbitro arriva a dieci e tu esplodi di gioia mentre i tuoi compagni corrono ad abbracciarti e a portarti in trionfo. Nemmeno ti accorgi di Heltzer, portato di peso in infermeria, ancora svenuto.
Era giugno quando mi caricarono sul vagone bestiame. Tre giorni e tre notti chiuso lì dentro, insieme ad altre centinaia di disperati, con solo un po’ di pane a testa e qualche manciata di ciliegie donateci alla stazione di partenza dagli abitanti del luogo.
Quello è stato il momento esatto in cui ho capito che era finita, la mia vita precedente mi stava salutando per sempre. Anche se un giorno fossi uscito dall’incubo, lei non sarebbe venuta a riprendermi. Perché simili esperienze ti entrano nella pelle, s’infilano nelle vene e arrivano dritte al cuore, per non lasciarlo più.
Il campo di Mauthausen si trova su di una collina vicino al Danubio. Arrivammo di notte alla stazione e da lì proseguimmo a piedi, in una lunga e spettrale fila. Camminammo per qualche chilometro prima di intravedere il campo. Lì ci spogliarono e ci fecero passare la notte in piedi all’esterno. La mattina seguente ci rasarono i capelli e i peli del corpo, ci fecero una doccia, ci consegnarono un paio di mutande e una camicia e ci scortarono nelle baracche. Eravamo costretti a camminare scalzi sul pietrisco e se ci si attardava, arrivava subito un soldato a pestare.
Io fui assegnato alla baracca diciassette come ho già detto. Ricordo che quando varcai la soglia restai per un attimo intontito dall’aria stantia del piccolo locale. C’era così tanta gente dentro che a stento si riuscivano a scorgere le pareti della costruzione. E il tanfo era orribile. Ma di certo non era la cosa peggiore. Mi accovacciai in un angolo e rimasi a fissare il mio corpo, l’unica cosa rimastami, cercando di non guardare quei numeri in serie tatuati sotto il polso. La mia matricola era la 76237. Questi numeri ormai fanno parte di me.
Il soldato ti sta ancora studiando, rimane sulle sue. Vi temete. Entrambi avete vinto altri incontri, così ai tedeschi è venuto in mente di organizzare il match, per vedere se “l’italiano”, come ti chiamano ormai tutti, è davvero così forte come sembra.
Il tuo avversario è quello che ti ha rasato i capelli il giorno in cui sei arrivato, basterebbe questo per fartelo odiare, per farti venir voglia di colpirlo. Ma devi fare attenzione, non puoi agire d’istinto, devi usare la testa se vuoi uscirne vivo. Così, come tuo solito, lo fai sfiancare e nel frattempo ne studi le mosse. È il terzo round quando capisci che è arrivato il momento di agire. Lui è attento solo al tuo destro, ed è un bene, perché in realtà anche col sinistro ci sai fare. Ed è proprio con questo che lo stendi, infilandoti nella sua retroguardia bucata.
Stavolta sono in molti a festeggiarti, anche gli stessi tedeschi che, scopri solo adesso, hanno puntato su di te anziché sul loro connazionale.
Un giorno ero in officina quando sentii chiamare “italiano” alle mie spalle. Mi si gelò il sangue nelle vene perché poteva voler dire crematorio. Invece per mia fortuna non volevano bruciarmi ma mandarmi a costruire un forno per il pane in un paese vicino, a una decina di chilometri.
Eravamo in trecento e fummo costretti a spostarci a piedi. Ricordo che durante il viaggio compii gli anni ma al mio fianco non avevo nessuno dei compagni abituali. Era il dicembre del quarantaquattro.
Un mese dopo venimmo a sapere della prima e unica fuga dal campo per opera di un gruppo di russi assiepati nelle baracche vicino ai recinti. Quando arrivò la prima neve, alcuni di loro furono scelti per spalare i tetti che altrimenti sarebbero crollati. Ne approfittarono per studiare la situazione e la notte agirono, lanciarono una spranga di ferro contro il reticolato e mandarono in corto circuito l’intero campo, quindi assaltarono la garitta più vicina, buttarono giù i tedeschi e si diedero alla fuga.
Purtroppo però la ricerca partì subito, con l’utilizzo dei cani e persino dei carri armati, così molti fuggiaschi furono rintracciati e uccisi. Fu una strage, si salvarono solo in sette.
Uno di loro è qui con me, qualche branda più avanti. Mi ha raccontato che si rifugiò in una fattoria dove lavoravano delle donne russe che lo spogliarono, lo cosparsero di neve, bruciarono i suoi vestiti e gli diedero degli abiti sporchi di sterco. Poi lo nascosero nel fienile, dove è rimasto fino alla liberazione.
In ogni caso il lavoro per costruire il forno fu pesante. Eravamo in trecento assiepati in due baracche e con me c’erano solo altri cinque italiani. Ricordo che la sera, per avere un pezzetto in più di pane facevamo degli altri lavori, fino alle undici di notte.
Dopo qualche giorno non riuscivo nemmeno più a camminare, ero sfinito, così dissi a un mio compagno di lasciarmi lì, la fucilazione ormai mi sembrava l’alternativa migliore. Ma lui mi prese sottobraccio, mi diede una schiaffo e disse: “Taci mona”. Era un triestino e se sono qui oggi, è grazie a lui. Chissà se ce l’ha fatta, se il destino lo ha salvato.
Per fortuna gli ultimi giorni il maresciallo, in un attimo di benevolenza forse dettata dal fatto che aveva assistito ai miei incontri, mi permise di restarmene a letto.
E lì sono rimasto, fino a quando un giorno non ho sentito delle urla all’esterno.
Erano gli americani.
Siete all’ultimo round quando a Heltzer cedono le gambe. Resta al centro del ring in ginocchio e a te basterebbe tirargli un gancio per metterlo KO. Lo fissi dritto negli occhi e ti accorgi del suo sguardo supplichevole. Incredibile, l’armadio che qualche mese prima ti trattava come uno straccio sporco, ora è lì a scongiurarti di non infierire. Ha insistito per avere una rivincita e tu non hai potuto rifiutare. Lui è un soldato tedesco e tu un prigioniero. Se lui dice: “Combattiamo”, tu ti batti.
Ti guardi intorno, tutti sembrano aspettare una tua mossa.
Decidi in una frazione di secondo. Lo afferri per sotto le ascelle e lo tiri su, poi lasci che si avvinghi al tuo corpo. Restate aggrappati l’un l’altro fin quando non termina l’incontro. Se in questo dannato posto esistesse la vittoria ai punti avresti vinto, invece finisce in parità.
Le persone assiepate ai piedi del quadrato se ne tornano ai loro posti e tu sei già diretto verso la tua baracca quando Heltzer ti afferra per il braccio e ti sussurra “grazie” in un orecchio.
Ci avresti mai creduto? Tu, un semplice “italiano”, un prigioniero come tanti, scampato alla morte per puro caso, ti sei conquistato la gratitudine e il rispetto di un soldato tedesco.
La libertà è un bene immenso, l’unico per cui valga davvero la pena combattere, eppure a volte si nasconde nelle cose più piccole, come un ringraziamento appena sussurrato dal tuo carnefice.
“Di nulla” rispondi, facendogli l’occhiolino.
Sei già lontano quando ti chiama: “Italiano!”
Ti volti e lo guardi con apprensione. Forse ci ha ripensato, vuol rimangiarsi le sue parole.
“Semmai fra qualche giorno ne facciamo un altro, – grida invece lui – prima o poi riuscirò a batterti!”.
“Sì, – ribatti sorridendo – prima o poi.”
Liberamente ispirato alla reale storia di Roberto Benassi, rinchiuso nel campo di Mauthausen tra il 1944 e il 1945 e scampato alla ferocia nazista anche grazie alla sua passione.
A lui e a tutta la sua coraggiosa generazione è dedicato questo racconto.