8 Marzo 2020

Le chiavi del tempo

di Claudia Mancino

C’era una volta uno strano paese in cui nessuno invecchiava.
I bambini nascevano, crescevano, diventavano adulti e poi… poi il tempo sembrava semplicemente fermarsi.
Non pensiate, però, che i suoi abitanti vivessero in eterno. Come in ogni altro posto del mondo arrivava il momento in cui erano destinati a passare a miglior vita. Ma lo facevano senza portare sul corpo e sul volto i segni del tempo.
Cominciamo dal giorno in cui tutto ebbe inizio.
Era l’inverno di molti anni prima quando da un treno proveniente da lontano scese una donna di straordinaria bellezza. Indossava un elegante abito confezionato su misura, un cappello a tesa larga e nella mano destra stringeva con forza il manico di una valigia le cui dimensioni superavano quelle di qualunque altra vista fino ad allora.
Congedò il facchino con un garbato sorriso e rifiutò l’aiuto del cocchiere. Sollevò la valigia con grande attenzione, la sistemò sulla carrozza e quando, dieci minuti dopo, il cocchiere si fermò davanti alla vecchia casa in fondo al paese, una lunga e gelida folata di vento accompagnò l’ingresso della misteriosa donna in quella che sarebbe stata la sua casa.
Da quel giorno, per molte settimane, dall’interno della casa in fondo al paese giunse solo il rumore di seghe e martelli, poi una mattina d’inizio primavera i teli che nascondevano la facciata furono tolti e sopra l’ingresso di quello che era diventato un elegante negozio campeggiava l’insegna:
“Belle per sempre”
Non ci volle molto tempo perché le signore del paese cominciassero a frequentare il nuovo salone di bellezza, attirate dal profumo esotico che usciva dalle finestre appena socchiuse e dal fascino della misteriosa donna del treno.
Chiunque varcasse quella soglia, ne usciva poi con una luce diversa negli occhi. E un po’ per volta, qualunque fosse il segreto custodito tra le mura del negozio, i cambiamenti sul volto delle clienti cominciarono a farsi evidenti. Là dove i segni del tempo disegnavano la storia di una vita, la pelle risplendeva di una nuova giovinezza e mani che raccontavano anni di duro lavoro tornarono belle come quelle di un tempo.
Accadde lentamente. Mese dopo mese, anno dopo anno, una parte delle popolazione smise semplicemente di invecchiare e, com’era prevedibile, la voglia di tornare giovani contagiò tutti, senza distinzione di sesso ed età.
Accadde anche che la parola vecchio cominciò a essere pronunciata solo sottovoce. I pochi anziani rimasti venivano guardati con diffidenza e pietà e arrivò il momento in cui un’intera nuova generazione di bambini crebbe senza mai vederne uno. I nonni smisero di farsi chiamare nonni e per non tradire la loro vera età, cancellarono dalla memoria anche le tracce della loro vita passata.
Così i bambini smisero di sentire storie di altri tempi e,
per la prima volta da millenni, crebbero perdendo ogni legame con il passato.
Consapevoli o no, gli adulti avevano spezzato la catena del tempo per pura vanità.
E una a una, come le tessere del domino, caddero e andarono perse parole come saggezza, solitudine, fragilità, annegate per sempre insieme al loro significato.
In quel mondo in cui l’unica cosa importante era apparire, il tempo si dilatò e si confuse ancorandosi all’unica certezza rimasta: il negozio in fondo alla strada. Ogni singolo bambino che cresceva in quel paese sapeva di essere destinato a varcare quella soglia appena diventato grande.
Ciò che gli adulti di allora non avevano messo in conto era che senza passato i loro bambini sembravano incapaci di immaginare un futuro. Tutto ciò che esisteva, che li circondava, non era più frutto di qualche straordinaria invenzione o di esperienze tramandate di generazione in generazione. Esisteva e basta.
Così, un po’ per volta, in un mondo in cui nessuno dava più risposte, scomparvero anche le domande e il negozio in fondo alla strada inghiottì anche la curiosità.
In un paese in cui non esisteva più un passato con cui misurarsi, il presente divenne semplicemente attesa.

Fu solo molti anni dopo l’arrivo della misteriosa donna che, in un giorno di fine estate, dal treno scese un’altra donna. Indossava un vestito nero, un cappello a tesa larga e una veletta che le copriva il volto.
Centinaia di occhi la seguirono in silenzio.
Nessun estraneo aveva più messo piede in quel luogo senza tempo da anni. I suoi abitanti avevano cancellato ogni traccia della loro esistenza persino dalle mappe.
Proteggere il loro segreto era diventato più importante dell’aria che respiravano.
Chiunque fosse la donna vestita di nero non avrebbe mai dovuto scendere da quel treno.
Fu sotto quei muti sguardi di pietra che la donna senza volto attraversò le strade del paese, risalì la collina e prese possesso di una vecchia casa disabitata ai piedi del bosco. Spalancò le persiane arrugginite, lasciò che l’aria tornasse a far respirare le stanze e, senza fretta, riportò in vita lo splendido giardino di rose sul retro.
Passarono giorni e settimane. La donna non ripercorse mai la strada che portava al paese e, un po’ per volta, la preoccupazione degli abitanti scemò.
Forse il suo arrivo non aveva nulla a che fare con il segreto della giovinezza.
Ma fu posto il tacito divieto di avvicinarsi alla collina.
La Donna Senza Volto era e sarebbe rimasta una minaccia.
Forse in un altro mondo la Donna Senza Volto avrebbe fatto paura alle giovani generazioni. Ma in un mondo in cui non era l’ignoto a spaventare, i bambini sentirono crescere nelle loro menti qualcosa a cui non erano più abituati: la curiosità. E contravvennero, senza timore, al divieto di risalire la collina.
Trascorsero interi pomeriggi a spiare la casetta ai piedi
del bosco e la sua proprietaria intenta a prendersi cura di un giardino la cui bellezza toglieva il fiato.
Fu una ragazzina a cavallo tra gli anni dell’infanzia e della pubertà ad avvicinare per prima la donna. Rimase in piedi, ferma, dietro la staccionata bianca a osservarla per ore e, a mano a mano che il tempo passava, l’espressione di diffidenza che illuminava i suoi occhi si addolcì.
Solo allora la donna si girò verso di lei.
« Ora puoi entrare » disse con un sorriso e le indicò il piccolo gazebo coperto di rose. « Siediti, bambina mia e bevi qualcosa. »
Fu la voce a toccare il cuore della ragazzina. Una voce pacata, lenta come il reflusso delle maree. Chiunque si nascondesse sotto quel velo non poteva far del male a nessuno.
La ragazzina si sedette.
« Credo tu voglia sapere chi sono » disse la donna con calma.
« Solo se posso » rispose educatamente la ragazzina.
La donna sorrise di nuovo; poi, con la punta delle dita, sollevò la veletta che le copriva il viso e lasciò che gli occhi della ragazzina scoprissero senza fretta la storia della sua vita.
« Hai i capelli bianchi » mormorò la ragazzina dopo un lunghissimo silenzio. « Sono bellissimi… »
E, dopo un attimo di esitazione, avvicinò la mano tremante per l’emozione al volto della donna e le sfiorò le rughe, a una a una, come se volesse imprimerle nella propria mente.
Dunque era questo che significava invecchiare.
Permettere al tempo di scrivere sul proprio corpo i ricordi di ogni singolo attimo passato su questa Terra.
Solo dopo qualche minuto la donna prese la mano della ragazzina tra le sue e la guidò lungo la sua storia. « Queste » mormorò sfiorando le due rughe tra le sopracciglia, « sono le preoccupazioni che hanno attraversato gli anni della povertà, quando lavoravo di notte per confezionare abiti in sartoria. E questi » disse, spostando le dita della ragazzina sul ventaglio di rughe ai lati degli occhi, « questi sono i sorrisi di cui la vita mi ha fatto dono. » Lentamente, guidò la piccola mano sulla fronte. « Questi sono i pensieri e l’amore incondizionato di una madre e queste », sussurrò scendendo lungo le guance, « queste, bambina mia, sono le mie lacrime. Ma non si piange solo per dolore. »
E mentre il sole si spegneva dietro il bosco, la ragazzina entrò nel mondo della Donna Senza Volto, attraverso il tatto e la voce.
Tornò il giorno dopo e quello dopo ancora, affamata di quelle storie che per la prima volta sembravano dare un senso a tutto e, insieme a lei, arrivarono quei bambini fino ad allora cresciuti in una solitudine dettata dalla vanità degli adulti.
E ascoltavano, con gli occhi spalancati su un mondo che era stato loro negato. Ascoltavano e imparavano.
Quel volto segnato dal tempo era la cosa più bella che avessero mai visto.
Varcavano l’ingresso del giardino delle rose con la stessa trepidazione che accompagnava i loro genitori attraverso la porta del negozio in fondo al paese e mentre gli adulti cancellavano dal loro corpo le tracce del passato, i
bambini scavavano in quello stesso passato alla ricerca di se stessi.
Un tempo esistevano carrozze e cavalli, un tempo le persone illuminavano le loro case con lanterne a olio e attraversavano gli oceani alla ricerca di fortuna. Un tempo la bellezza risiedeva nel cuore e nella mente delle persone, nel sapersi prendere cura degli altri e nell’accompagnare le nuove generazioni lungo un cammino che avrebbero poi continuato da soli.
Un tempo, la vecchiaia era l’anello che univa il passato al futuro. E in quella magica catena di generazioni ogni cosa trovava il suo posto.
Passò l’autunno e arrivò l’inverno. Il giardino di rose si assopì. Anche la donna che abitava la casa ai piedi del bosco diede spazio all’incedere sempre più lento del tempo e insegnò ai bambini che chi invecchia cambia anche il modo di respirare.
« Ogni cosa diventa più difficile » disse una sera, accarezzando il volto preoccupato della ragazzina. « E proprio per questo più bella. »
« Ho paura » le confessò sottovoce la ragazzina.
« Anch’io, ma ho avuto tutta la vita per prepararmi » disse con un sorriso. Prese con dolcezza le mani della ragazzina tra le sue e le strinse. « Tu sei la custode della mia storia. Qualunque cosa accada, io continuerò a vivere in te e nei tuoi racconti e ogni volta che prenderai per mano un bambino per accompagnarlo lungo la sua strada, io sarò con te. Sarò nelle parole che pronuncerai e nel respiro che donerai a quel bambino. »
« Io voglio invecchiare » disse la ragazzina dopo un lunghissimo silenzio.
« Voglio invecchiare anch’io » disse un bambino alzandosi in piedi e, uno alla volta, si alzarono tutti, consapevoli per la prima volta di dover spezzare quella catena che li aveva tenuti tanto a lungo incatenati al nulla.
Fu con l’arrivo della primavera che si spense per sempre il respiro della Donna Senza Volto.
La trovarono sulla sedia a dondolo sotto il pergolato di rose bianche, il viso disteso e sorridente come per raccontare loro l’ultima straordinaria storia di una vita che aveva tanto amato. A turno, con la punta delle dita, i bambini le accarezzarono il ricordo dei pensieri, delle lacrime e dei sorrisi che l’aveva accompagnata lungo il cammino verso di loro, poi la seppellirono sotto la quercia in cima alla collina e sulla croce di legno che avevo fatto con le loro mani scrissero: Donna delle rose.
Tornare indietro non fu facile.
La solitudine che un tempo era stata loro compagna pesò più di quanto potessero sopportare. Di ciò che era accaduto a ognuno di loro, nessuno degli adulti ebbe sentore. Non si accorsero di un vuoto che cresceva dentro i loro figli, come non si accorsero del modo in cui i loro occhi parlavano, colmi di una supplica a cui non erano più in grado di tendere la mano.
Accadde pochi mesi dopo, in una strana e buia giornata di fine estate.
Nubi cariche di folgori e grandine avanzarono lentamente lungo la strada che costeggiava la ferrovia. Il primo fulmine si abbatté al suolo con un potente ruggito, il secondo colpì i binari ormai in disuso.
Il terzo fulmine esplose sul negozio in fondo al paese.
Quel luogo senza tempo, che aveva cancellato il passato di un’intera generazione, si ridusse lentamente in cenere sotto lo sguardo immobile dei giovani e dei bambini, restituendo loro, in quella buia giornata di fine estate, le chiavi del tempo e delle sue straordinarie storie.