di Alessandra Pepino
Ustica, 27 giugno 1980
Lo spettacolo fu interrotto alle dieci in punto, quando il grido della sirena si propagò per la seconda volta dagli altoparlanti del circo. I pagliacci che si esibivano smontarono dalle groppe degli asini e incitarono il pubblico a seguire le istruzioni per raggiungere i rifugi più vicini.
la fine di un pomeriggio tranquillo, scosso da un vento che spira dal mare e semina ombre dalle gambe lunghe. Ciro cammina davanti, saltellando a piè pari sull’asfalto sconnesso. Ogni tanto si gira per controllare che suo fratello sia ancora lì, di non averlo distanziato troppo.
« Nino, ti muovi? Prendiamo questo benedetto gelato, così poi andiamo » lo incita, domandandosi come possa avere fame sapendo quello che li aspetta.
Per un attimo, i fili colorati della tenda di plastica all’entrata del bar li avviluppano come i tentacoli di una medusa. Ad accoglierli è la voce di Gianni Togni che canta “Luna”, incurante del fruscio di sottofondo di una radio.
Frugandosi nella tasca come farebbe un uomo, Ciro appoggia le monete sul bancone, poi ordina una Coca cola e un Gommolo Algida per suo fratello. La proprietaria del bar li serve, sventolandosi senza convinzione con un ventaglio a fiori:
« Come fate a mangiare queste porcherie? » borbotta prendendo il gelato dal banco frigo.
« Ma quali porcherie, donna Amalia! Dentro alla punta del gelato c’è pure la gomma da masticare, non avete idea di quanto è buono » precisa Nino, con la faccia già sporca di panna.
Quando i due ragazzini escono dal bar il sole è appena un po’ più basso all’orizzonte. Don Vito è seduto sul solito sgabello, fuori il salone del barbiere; impossibile non riconoscerlo, curvo sul bastone come una radice, le rughe profonde bruciate dal sole.
« Ciao nonno » lo salutano i ragazzi, con rispetto.
Hanno imparato a chiamarlo così anche loro, come tutti. Il “nonno” è la quercia di Ustica, conosce i segreti del mare e dell’isola, negli occhi ha la saggezza degli ultimi.
Parla un dialetto strettissimo, Don Vito. Ciro all’inizio non lo capiva, ora si districa alla meglio nell’impervio serbatoio di quella parlata arcana e s’improvvisa interprete per il fratello minore che rifiuta ogni cosa, persino la lingua del lembo di terra che li ha adottati. Bastano pochi passi per sorpassare il corpo accartocciato del “nonno”, la sua voce roca che li scorta come un presagio. Come di consueto, Nino non capisce e con occhi interrogativi si affida a Ciro. Lui, di risposta, si stringe nelle spalle: « Dice di stare attenti, che questa notte tirerà un vento che agita fantasmi e affonda segreti, o qualcosa del genere. »
Nino lo guarda con occhi acquosi, la traduzione gli appare più oscura dell’originale. Ma non c’è tempo per soffermarsi sull’oracolo: le parole del vecchio si stemperano come spari in lontananza che non lasciano segni in superficie.
I due ragazzini proseguono in silenzio, uno dietro all’altro. Ciro cerca di concentrarsi sul rumore della Coca che sale dentro la cannuccia e di non pensare alla gamba offesa che suo fratello trascina nel terreno. Sull’isola lo chiamano “lo storpio”, si scambiano occhiate di intesa e sorrisi cattivi solo perché la poliomielite non ha rosicchiato anche le loro, di gambe.
Solo a pensarci, a Ciro verrebbe voglia di spaccare il mondo, invece gli tocca accontentarsi di prendere a calci un ciottolo inerme: la odia quest’isola, odia questo mare che si frappone tra lui e la sua terra, odia suo padre per averli abbandonati e sua madre per averli trascinati fin lì senza il loro consenso. A Napoli non li avrebbero trattati in quel modo: lì forse il mare è meno limpido di quello di Ustica ma non per questo più pericoloso.
I due fratelli sorpassano la piazza principale ed imboccano il sentiero a gradoni che conduce ai resti della fortezza borbonica. Il centro del paese è ormai alle spalle, presto caleranno le tenebre come un sipario sul palco. Ciro tende la mano verso Nino e l’aiuta a salire le scale imperfette scavate nella roccia. Le gocce di sudore che gli imperlano la fronte raccontano di tutto lo sforzo e la fatica della sua sola gamba. Non si lamenta, però. Prosegue sotto gli ultimi scampoli di sole, stando attento a non inciampare tra i sassi e i fichi d’India sparsi qua e là.
Gli altri li stanno aspettando: Nino e Ciro vorrebbero scappare lontano, invece s’arrampicano, senza emettere fiato.
Gli altri sono disposti in semicerchio come un branco di lupi. La fortezza che si staglia sopra di loro somiglia a uno spettro dallo sguardo deforme. Nino e Ciro abitano a Ustica da abbastanza tempo per sapere cosa si dice in giro di quel posto e il solo pensiero gli mette i brividi.
Lucio e Gioacchino si dividono il terreno, facendo a gara a chi sputa più lontano. Gli basta intravedere le sagome dei napoletani in lontananza per sospendere la sfida. Con un gesto che sembra sincronizzato si puliscono entrambi la bocca con l’avambraccio. Li chiamano “gemelli” per via dell’abitudine di stare sempre insieme, avvinti da un cordone malato come due fratelli siamesi. Natale, il “capu rrais”, è intento a tracciare segni concentrici nel terreno con un bastone nodoso: la postura e i movimenti serafici tradiscono da subito la sua posizione all’interno della banda. Catena invece se ne sta in disparte, succhiandosi una ciocca di capelli corvini. A Ciro basta incontrare il suo sguardo per sentire un’ondata incandescente travolgergli lo stomaco.
« Come avete fatto ad arrivare? Ti sei caricato lo storpio sulle spalle? »
La voce di Natale sembra di carta vetrata, le erre arrotolate su se stesse, la cadenza siciliana strozzata alla fine di ogni parola.
« Mio fratello si chiama Nino » lo corregge Ciro con asprezza, « si può sapere cosa altro volete? Siamo arrivati fin qui, non vi sembra una prova sufficiente? »
« Te l’abbiamo già detto, napoletano. Tu ci puoi stare con noi ma quell’handicappato di tuo fratello se lo può anche scordare » ribadisce Gioacchino, supportato dalla risata di scherno del suo “gemello”.
Natale li zittisce con un cenno della mano e, soltanto in quel momento, Nino s’accorge che all’interno dei cerchi scavati nel terriccio campeggia il cadavere di una lucertola. Morta infilzata.
Il bambino distoglie lo sguardo come se qualcosa l’avesse accecato, è stanco di sentirsi deridere ed emarginare, sulle spalle porta un carico di vergogna troppo pesante per i suoi otto anni.
« Diteci cosa dobbiamo fare e facciamola finita » Ciro sembra un uomo, e non un bambino, mentre sfida la cattiveria di quei cuccioli di lupo.
« La vecchia cisterna, la conosci, no? Sta proprio qui dietro » il tono di Natale adesso è quasi affabile, di una gentilezza gelida.
Nonostante il suo viso non tradisca il minimo sussulto, Ciro inghiotte un grumo di saliva amara. Anche se guarda altrove, sa che Catena lo sta scrutando: la sua tranquillità si irradia tutt’intorno come un arcobaleno in bianco e nero.
« Se passerete la notte lì dentro nessuno di noi avrà più da ridire sulla vostra presenza. Né la tua, né quella dello storpietto. Domani mattina all’alba veniamo a riprendervi… sempre che tutto vada bene. »
L’espressione di Nino è una maschera di terrore, nemmeno nella più catastrofica delle previsioni avrebbe immaginato una richiesta del genere.
« Ma nella cisterna… ci sono quelle cose… sì, insomma, lo sapete anche voi… non possiamo andare lì dentro… »
« Non solo sei storpio, sei pure cagasotto. »
« Va bene, ci andiamo. » Ciro spazza via ogni polemica col tono autoritario di chi sa di dover decidere non solo per sé.
I “gemelli” sghignazzano soddisfatti, Catena ha lo sguardo incollato per terra. Ciro la cerca inutilmente con gli occhi, il solo codice concessogli, almeno fino ad adesso.
« C’è una corda, legata ad un albero. Con quella vi potrete calare. Ce la fai a scendere a peso morto verso il basso, vero, storpio? » la domanda maligna di Natale rimane sospesa nell’aria come polvere da sparo. Nino non gli risponde neppure, l’ultima cosa che vuole è sottostare al suo ricatto. Non gliene frega niente di quello che diranno di lui né della solitudine che gli piomberà sulle spalle, non gli importa nemmeno dei dispetti che gli faranno. Tutto, pur di non farsi inghiottire da quel buco nero fatto di ombre.
Per Ciro però è diverso. È una questione d’onore, lui è il maggiore tra i due, quello che a soli dieci anni ha deciso di provare a fargli da padre. E poi c’è Catena: Ciro non si tirerebbe mai indietro di fronte a una sfida lanciata dai suoi.
Certo, potrebbero scappare, correre a nascondersi dietro la gonna della mamma e magari raccontare tutto al suo nuovo fidanzato, che fa pure il carabiniere. Ma niente di tutto questo succederà, Nino lo legge negli occhi di suo fratello che gli dicono di non mettersi a piangere, di non avere paura, che tanto saranno in due dentro quella cisterna. Non importa quello che hanno sentito dire sull’isola, i fantasmi esistono solo nella mente di chi li crea.
L’ultima cosa che vedono, prima di sprofondare nelle viscere della terra, è uno spicchio di cielo pronto ad accogliere le stelle. Lo stesso cielo cavalcato, a centinaia di metri di altezza, da un aereo di linea di cui nessuno avrebbe nulla da raccontare se non stesse avanzando inesorabile verso la fine.
Il terreno dell’isola è intriso di storie, leggende nere che s’insediano nell’immaginario del popolo con le loro nerborute radici. Tutti a Ustica sanno che, in passato, nella vecchia cisterna abbandonata venivano buttati i corpi dei bambini nati sbagliati, quelli che nessuno voleva accudire. Lo chiamano il posto dei bambini dimenticati. Figli del diavolo, menomati e reietti, i cui ultimi vagiti echeggiano ancora tra le pareti scavate nel tufo.
Mentre guarda la corda scomparire verso l’alto, tra le mani dei suoi aguzzini, Nino non può fare a meno di pensare che il destino è venuto a riprenderselo, anche se con otto anni di ritardo.
« Cercate di non cagarvi sotto, altrimenti sai che puzza! »
Le risate sguaiate del branco che si allontana decretano la loro totale solitudine. Ciro non è riuscito a distinguere la voce di Catena tra le altre, eppure gli sembra di vederla mentre volta loro le spalle con la consueta indifferenza.
Solo in questo momento realizza che nessuno, a parte loro, sa dove si trovano e che l’indomani mattina potrebbero anche non venire a riprenderli. Un brivido gli scuote la schiena, impietoso. Come hanno potuto essere così stupidi?
Dentro la cisterna il buio è denso e l’umidità si appiccica alla pelle come un adesivo. I singhiozzi di Nino sembrano prendere consistenza tra le tenebre e circondarli. Ciro lo stringe a sé con tutta la forza che ha: tra le sue braccia il corpo di suo fratello sembra quello di una marionetta rotta. È stato lui il primo e il più feroce dei suoi detrattori, soltanto adesso Ciro riesce a rendersene conto. Se non avesse prestato ascolto alle cattiverie degli altri, se non si fosse incaponito nel voler dimostrare che lui non era diverso da loro, adesso starebbero a casa insieme alla mamma, come tutte le sere. Nino non è come gli altri, questo Ciro lo sa. E il pensiero gli divora l’anima da dentro, lo invade fino a renderlo cieco e incapace di proteggerlo.
« Non voglio morire al buio » frigna Nino.
« Non dire cazzate, hai capito che tra qualche ora ci vengono a riprendere? »
« Non verrà proprio nessuno, invece. »
Ciro non ha il coraggio di rispondere, di fare promesse che non potrà mantenere.
« Li senti? Ciro, li senti? »
Le lacrime lasciano spazio a qualcosa di diverso, la voce di Nino adesso trasuda terrore. Il fruscio che si muove nell’ombra rimbomba come un’eco nel ventre scavato nel tufo.
« Sono loro! Sono i bambini dimenticati, stanno venendo a prenderci! Voglio mamma, portami da mamma! »
Sebbene Ciro rifiuti di credere a certe storie, la paura fa sì che la percezione della realtà si accartocci sempre di più in un angolino della sua mente. Per un attimo, le parole del “nonno” riaffiorano dalla memoria. Aveva avvertito di stare attenti, borbottando qualcosa a proposito di fantasmi e di segreti… fantasmi. Quel vecchio stregone! Un rigurgito di rabbia lo percorre da dentro, costringendolo a scavare con le mani prima nell’aria, poi nella terra fino a quando le dita non incontrano un oggetto appuntito, probabilmente una pietra. Afferrala e scagliarla con forza davanti a sé è misto di sollievo e disperazione. Lo squittio che si leva dall’ombra fuga ogni dubbio sulla fonte dei rumori che tramano nelle tenebre. È un attimo e gli scheletri tornano a richiudersi negli armadi.
« Hai visto, Ninù? Era solo un topolino. Non c’è bisogno di avere paura. »
Nino si accoccola ancora di più lungo il fianco di suo fratello, come se volesse scavargli dentro una cuccia in cui trincerarsi. I suoi singhiozzi si stemperano piano, come la fiammella di una candela; Ciro lo lascia fare, accarezzandolo piano sulla gamba che non vive più. I due bambini rimangono così per un tempo indefinito, forse una vita, prima che un sonno popolato da incubi li cinga con il suo abbraccio oscuro.
Nel momento in cui riapre gli occhi Ciro realizza di avere la gola arsa dalla sete. Non saprebbe dire quanto tempo abbia dormito, a parlare per lui sono le gambe intorpidite dalla posizione innaturale.
Quando il primo ciottolo gli cade sulla testa il bambino sente il cuore fermarsi. C’è qualcuno sulla bocca del cunicolo, una presenza muta che li sta spiando. Se la ragione lo sprona a gridare aiuto, l’istinto invece gli suggerisce di restare in allerta con le orecchie tese come un animale in un bosco.
Con movimenti millimetrici, Ciro si sfila dall’abbraccio di suo fratello, stando ben attento a non svegliarlo. Forse è solo un’impressione ma, ora che muove qualche passo nel nulla, gli sembra di distinguere i contorni dell’oscurità. In fondo, l’interno della cisterna non è poi tanto diverso da quello che c’è fuori, lascia addosso lo stesso senso di inadeguatezza e precarietà.
A Napoli non gli era mai capitato di avere paura del buio, nemmeno nel dedalo di vicoli del centro storico di notte. Adesso invece si sente turbato, l’impossibilità di distinguere quello che trama nell’ombra e la paura di inciampare da un momento all’altro nelle ossa di un bambino dimenticato non lasciano tregua.
Un riflesso beffardo della luna si insinua dall’alto alla sinistra delle loro teste: è lì che Ciro scommette sia situata la bocca della cisterna. Con le mani si mette alla ricerca di un appiglio nella roccia che gli consenta di risalire in superficie ma tutt’intorno sembra esserci solo il vuoto, immenso e imperscrutabile.
« Ciro! Ciro! Dove sei? »
La voce terrorizzata di Nino riemerge dalle trame di un sonno spezzato.
« Sto qui, Nino, sto qui. Stai zitto un attimo, però » sussurra il fratello.
Passano istanti interminabili in cui non accade nulla. Ciro resta immobile, in attesa che la minaccia che sente incombere sulle loro teste si decida a rivelarsi. C’è solo il respiro sovrapposto dei due fratelli a riempire di vita il ventre della terra. Quando un fascio di luce improvvisa precipita dall’alto, schiantandosi poco lontano dai piedi di Ciro, il tempo nella cisterna sembra rarefarsi. Nino non riesce a trattenere un urlo di terrore, al contrario di suo fratello che s’avventa sulla fonte di luce piovuta dal nulla e non ha esitazioni nel puntarla sulla parete.
Il cono di luce della torcia elettrica spalanca un’insperata breccia nel cuore delle tenebre. Gli occhi di Ciro, assuefatti al buio, ci mettono qualche istante ad abituarsi. Inquadrata dal fascio luminoso, una figura sfuggente sta calandosi a memoria, agile come un gatto, lungo i gradini naturali scavati nella roccia. Ciro lo sa da sempre a chi appartiene quel corpo, ancora da prima che la torcia ne riveli i lineamenti. Il pantaloncino consunto e la canotta un po’ troppo larga occultano i prodromi della donna che sarà, eppure Ciro non riesce a impedire al cuore di schizzare fuori dal petto: Catena è lì, a pochi passi da lui, coi capelli selvaggi che le incorniciano i tratti spigolosi e sfrontati.
« È già giorno, Ci’? Sono venuti a riprenderci? »
La ragazzina è ormai a terra, le ginocchia graffiate dall’impervia discesa.
« No, Nino. È notte fonda, fuori. »
La voce di Catena risuona limpida come il mare in inverno, Ciro l’ascolta e quasi non gli sembra vero. Nei suoi pensieri lei non è mai stata nulla più di un mistero fatto di occhi e silenzio.
« Come hai fatto a scendere al buio? » domanda Nino, ancora indeciso tra lo sgomento e il sollievo.
« Non è la prima volta che vengo qui, conosco bene questo posto. »
« La cisterna? » Nino non riesce a trattenere l’incredulità. « E non hai paura? »
« Sempre, ma soltanto all’inizio, poi tutto passa. Non è poi tanto male stare qui da sola, è un nascondiglio perfetto. A nessuno verrebbe in mente di venirmi a cercare qui sotto, non c’è anima viva a Ustica che scenderebbe di propria volontà nella cisterna. A parte voi. »
La ragazza sembra un fiume in piena, Ciro non avrebbe mai pensato di sentire dalla sua bocca tante parole tutte insieme.
« Non abbiamo scelto di venire, ci avete costretto voi! » le urla contro Nino.
« Ti sbagli, avreste potuto rifiutarvi. Nessuno di noi credeva che l’avreste fatto. »
« E cosa dovevamo fare? Continuare a farci torturare da te e dai tuoi amici? Abbassare la testa e baciarvi le chiappe? Lasciare che ci chiamaste storpi, handicappati, cagasotto? »
Nino sente un moto di gratitudine deflagrargli dentro: il plurale, usato con tanta naturalezza da suo fratello, cancella in un attimo il senso di colpa per averlo trascinato in quella brutta situazione. Ciro invece freme di rabbia. È molto più aggressivo di quanto vorrebbe, l’emozione che prova nello stare davanti a Catena trova il modo più sbagliato per palesarsi.
« Che sei venuta a fare? Ti hanno mandato a controllarci? »
« Gli altri non lo sanno neanche che sono venuta. Natale non sarebbe stato d’accordo, ma io me ne fotto, faccio quello che mi pare. »
La torcia proietta ombre sul suo viso di bambina vecchia ma lo sguardo di Catena è fiero mentre rivendica la sua autonomia dal resto della banda.
« Perché allora te la fai con loro? » domanda Ciro.
« Perché non ho di meglio da fare. E perché quando siamo insieme gli altri hanno paura di noi, ci portano rispetto. »
Nel pronunciare le ultime parole, Catena stringe le ginocchia al petto. Il movimento scomposto fa sì che la canotta le si accartocci sul fianco destro quel tanto che basta perché la torcia riveli i contorni di una macchia bluastra. Un livido fresco che nasconde cicatrici profonde.
Da quando Ciro vive sull’isola, una volta soltanto gli è capitato di incontrare il padre di Catena. Di ritorno da una battuta di pesca, le prime luci del giorno si erano rivelate impietose nel mettere in risalto i difetti sparsi sul suo viso. Nella memoria del ragazzino è ancora viva l’immagine di quell’omone dalle mani che grondano botte, le unghie che covano le ceneri della violenza.
« Hai mai visto gli scheletri dei bambini dimenticati? » domanda Nino, spazzando via i pensieri bui di suo fratello.
Catena scuote la testa, incapace di ricacciare indietro un sorriso amaro.
« Svegliati, Nino! Le leggende le hanno inventate per nascondere la realtà, quand’è che lo capirete? I bambini dimenticati non stanno qua dentro, non sono morti e, soprattutto, non sono fantasmi. I bambini dimenticati sono fatti di carne e ossa, come me e te, e camminano tra di noi, anche se a volte non li vediamo. Qui dentro non troverai nient’altro che silenzio e topi, e puzza di
muffa. »
Catena appoggia la schiena alla parete con la naturalezza di chi si muove a casa sua. Nessuno di loro ha voglia di aggiungere altro. Ora che sono insieme la cisterna non ha più l’aspetto minaccioso di una tomba ma appare come il guscio di una conchiglia, fatto di ovatta e silenzio. È quello che li aspetta in superficie a rubargli certezze, tanto che nessuno di loro ha più fretta di scappare via. Fuori, dove la notte consuma se stessa e i segreti evocati dal “nonno”si disperdono come polline nell’aria.
« Mamma sarà preoccupatissima » sentenzia Nino, serio.
« Le passerà quando vi vedrà tornare a casa, tra poco. »
« Sareste venuti a riprenderci? »
« Natale ha una sola parola, se ha detto che verrà, verrà. »
« E tu? Gli dirai che stanotte sei stata con noi? » domanda Ciro senza riuscire a dissimulare una punta di gelosia.
Catena si stringe nelle spalle. « Non ne vedo la necessità, lo faremmo solo incazzare, invece così non avrà nulla da ridire e vi lascerà in pace. E vivremo tutti felici e contenti. »
La ragazzina si alza in piedi e lancia la torcia verso Ciro che l’afferra al volo.
« Fammi luce, è ora di tornare a casa. Ah, poi vedi di farla sparire, è meglio che Natale e i “gemelli” non te la trovano addosso quando vi veniamo a riprendere. »
Ciro è una volta di troppo più aggressivo di quel che vorrebbe:
« E a me chi me lo assicura che non mi vuoi fregare? Che te ne vai e non torni più? »
« Adesso la torcia ce l’hai, se non ti fidi puoi provare a risalire da solo e poi venire a riprendere tuo fratello. Scegli: o scappi proprio ora sul più bello, oppure aspetti qualche ora, vinci la tua sfida e ti prendi un po’ di pace e soddisfazione per tutti e due. »
Prima che l’eco delle sue parole si disperda del tutto, Catena si è già arrampicata su per un pezzo di parete. La schiena adesso è di nuovo coperta, i lividi sulla sua pelle sono tornati a nascondersi sotto la stoffa, eppure per Ciro il corpo e l’anima della ragazzina non potrebbero essere più trasparenti. Guardandola risalire in superficie come un’acrobata insonnolita non può fare a meno di pensare che sia bellissima.
Ciro la scorta con lo sguardo fin dove gli è permesso, poi si rivolge a suo fratello, il cui volto è reso spettrale dalla luce artificiale: dietro ai suoi occhi non si scorge più alcuna traccia della paura. Senza bisogno di parlarsi, entrambi sanno quello che è giusto fare.
Quando la corda torna a fare capolino dal foro di apertura della vecchia cisterna, la luce del giorno ha da poco risucchiato gli ultimi strascichi della notte. Nino e Ciro hanno aspettato l’arrivo del branco senza mai smettere di parlare, scambiandosi ricordi della loro vita passata, quella che, adesso lo sanno anche loro, si è chiusa per sempre. Forse un domani, da adulti, torneranno a Napoli per riabbracciare la loro terra e il loro mare.
Mentre si carica il fratello sulle spalle e afferra la corda che gli viene lanciata dai “gemelli”, Ciro continua a pensare a Catena e al livido nascosto dietro la sua schiena che rivendica giustizia. Non può evitare di chiedesi come sarà rivederla alla luce del sole, se sapranno ristabilire il contatto di qualche ora prima.
Riemergere verso la libertà è un misto di fatica ed emozione. Il corpo di Nino aggrappato alle sue spalle pesa più del previsto e i bulli non si sforzano più di tanto per aiutarli nella risalita. È l’ultimo sfregio silenzioso di chi sa di aver perduto una sfida che credeva stravinta in partenza.
Natale osserva a distanza il recupero dei prigionieri: tenere a bada il rimestio di rabbia e dignitosa accettazione della sconfitta che gli passeggia nello stomaco è dura quanto mandare giù la serenità dipinta sul volto dei due fratelli. Catena è seduta a gambe incrociate su un sasso sporgente, i suoi occhi sono la prima cosa che Ciro incontra una volta arrivato alla meta. Gli occhi di chi finge e che in realtà non è più indifferente, l’appiglio tra due solitudini che custodiscono un segreto.
« Ho sete, Ci’. E ho voglia di un panino, ma deve essere grande così, altrimenti non mi sfamo » suggerisce Nino, accompagnandosi con un eloquente gesto della mano.
Ciro gli sorride, anche il suo stomaco reclama. Prima, però, avverte l’urgenza incontrollabile di fare un tuffo a mare per togliersi di dosso gli ultimi residui di inquietudine che ancora gli striscia dentro.
La notizia di quello che è successo, solo qualche ora prima, nel cielo sopra Ustica aleggia nell’aria come un tetro presagio. Se qualcuno raccontasse loro che proprio in quel momento, poco lontano da lì, le acque al largo dell’isola stanno rigurgitando brandelli di vita e rottami inghiottiti con la complicità del buio, probabilmente i ragazzini non ci crederebbero. Finirebbero per convincersi di essere incappati nell’ennesima leggenda dai contorni sinistri e perderebbero la possibilità di imparare che la storia, quella vera, sa essere molto più impietosa e inumana di quanto gli abbiano insegnato. Al punto tale che quel che rimane degli ottantuno passeggeri e dell’equipaggio di un aereo come tanti, partito da Bologna con direzione Palermo e invece scomparso nel nulla senza un apparente motivo, riaffiora a galla come l’involucro vuoto di un mistero destinato ad arenarsi.
Ma Ciro, tutto questo, non può ancora capirlo: il suo sguardo è proteso verso un punto indefinibile dell’orizzonte, dove una cerniera tra cielo e mare si chiude su se stessa, lontana anni luce dalle scorrerie del vento del giorno prima. Il posto ideale per seppellire segreti, si scopre a pensare il ragazzo.