di Luigi Brasili
Un’aquila scese in picchiata lanciando un richiamo di protesta agli invasori del suo territorio.
L’autista del fuoristrada tese un braccio verso il centro del cruscotto, senza curarsi del rapace.
« Ci siamo quasi, signore » disse, indicando la forma grigia che si stagliava all’orizzonte, tra il blu del cielo e il rosso che dominava tutto il resto.
L’uomo seduto al suo fianco annuì, poi si voltò a fissare le macchie verdi e basse che spuntavano a tratti dal tappeto di terra e polvere insanguinate.
« Cinque » disse, puntando il dito in direzione di un movimento rapido a circa trecento metri, nei pressi di un’acacia.
La creatura era apparsa all’improvviso ai piedi dell’albero e aveva alzato la testa restando immobile, in attesa; poi, dopo pochi istanti era balzata via ed era scomparsa nel nulla.
« Come dice, signor Donovan? » domandò perplesso l’autista, fissando il passeggero per alcuni istanti con i profondi occhi scuri.
Donovan sorrise mentre si toglieva gli occhiali da sole per pulirli dalla polvere.
« Si tratta di un gioco, caro Mopati, che facevo quando ero piccolo e viaggiavo in macchina con mio fratello e i nostri genitori… »
Mopati rimase in attesa, la faccia che era un grosso e nero punto di domanda.
« È un modo per passare il tempo nei lunghi viaggi » continuò l’altro, « con Mark, mio fratello, facevamo a gara a chi vedeva per primo un certo oggetto; in genere si trattava di altre automobili di un colore specifico, il giallo piuttosto che il rosso… e ogni volta che ne vedevamo una si teneva il conto, e alla fine del viaggio chi aveva scorto il numero maggiore di automobili aveva vinto… »
Mopati annuì azzardando un sorriso di comprensione: « E cosa si vinceva, signore? »
Jeff Donovan scrollò le spalle: « Niente, era solo un modo per passare il tempo. »
Il sorriso sulla faccia di Mopati scomparve subito.
La macchia davanti al fuoristrada si era allargata fino a triplicare le sue dimensioni apparenti rispetto al primo avvistamento. Ora nel grigio si scorgevano diverse pennellate di marrone e verde.
« E adesso cosa ha contato, signore? Qui nel deserto non ci sono automobili… » azzardò Mopati dopo qualche istante di silenzio.
« Gli animali a quattro zampe. Ho contato un leone, almeno credo che lo fosse, tre antilopi, e quell’animale di poco fa… »
« Una iena, signore. »
Donovan annuì. « Giusto, anche bella grossa, mi pare. »
« Ce ne sono di più grosse, signore… ma guardi, siamo quasi arrivati. »
Rimasero in silenzio a fissare la palizzata che correva ad anello intorno al villaggio. Il profilo dei pali conficcati nella terra si faceva sempre più nitido all’avanzare del fuoristrada. Oltre il bordo della recinzione i rami verdi di alcune grandi acacie svettavano come se fossero stati sospesi nel cielo. Donovan deglutì e trasse un profondo sospiro, quasi temendo che quella sorta di miraggio potesse scomparire all’improvviso, come la iena poco prima. Ma ora non gli serviva arrivare fino a cinque. Non stava giocando, eppure era in gioco il futuro. Chiuse gli occhi pregando che stesse facendo la cosa giusta.
Quando Mopati spense il motore e lo accompagnò all’ingresso del villaggio, Donovan si fermò a contemplare le decine di volti che lo studiavano intimoriti. Sì, pensò, è la cosa giusta.
Patrick inspirò a fondo e si mise in posizione in attesa dello sparo. Il brusio del pubblico sulle gradinate si era placato fino a diventare un sussurro, fino a fondersi con l’alito di vento che accarezzava la pista. Gli occhi scuri del ragazzo erano incollati alla striscia scura: correva diritta per curvare dopo appena un centinaio di metri, ma in quel momento sembrava perdersi nell’infinito. Patrick abbassò la testa e si concentrò sul punto in cui le dita sfioravano la linea bianca della partenza. I profili degli avversari ai suoi lati erano delle ombre sfocate, fantasmi in attesa di ghermirlo, di aggrapparsi alle sue spalle per superarlo e lasciarlo indietro. Ma i fantasmi non esistono, gli dicevano suo padre e sua madre quando di notte si svegliava piangendo. Non esistono, Patrick. Ci sei solo tu a decidere cosa credere. A credere in te stesso.
Patrick ci crede, adesso. Sa che può farcela.
Pronti.
I muscoli si tendono, i piedi spingono sugli appoggi.
Bang.
Il vento spinge contro il petto. Le gambe volano sulla pista color ruggine. Spingono contro il vento, lo ricacciano indietro. Ora il vento si chiama Patrick. E soffia via tutto. I fantasmi sono lontani e dopo la striscia bianca c’è il sorriso di una bambina che gli dona un mazzo di fiori. E poi ci sono le pacche degli avversari sconfitti sulla sua schiena. E gli altri sorrisi sugli spalti, quelli di Emma e Jeff Donovan.
Vi voglio bene.
Mopati lo condusse fino a una capanna, attraverso un corridoio di giunchi umani dagli occhi grandi e curiosi. Mentre seguiva la sua guida, Donovan mise una moneta in ognuna delle piccole mani tese verso di lui.
Un uomo alto e muscoloso, il viso fiero, uscì dalla casupola e strinse la mano di Mopati. I due si scambiarono alcune battute, poi l’uomo chinò il capo verso Donovan. Questi gli porse la mano destra. La stretta era forte, lo sguardo penetrante attraverso le rughe di anni di fatica e vita nel deserto. Donovan notò un’ombra negli occhi dell’uomo, un’ombra bagnata. « È il momento, signore » disse Mopati. Donovan annuì e infilò una mano nella tasca. Il grosso fascio di banconote scomparve nel palmo nodoso dell’uomo, che chinò di nuovo il capo ed entrò nella capanna.
Dall’interno giunsero delle voci concitate, una delle quali apparteneva a una donna. E il pianto di un bambino.
Donovan si voltò a guardare il centro del villaggio. Il corridoio umano si era trasformato in un cerchio.
Poco dopo l’uomo attraversò di nuovo l’ingresso, un bambino avvolto in una coperta tra le braccia.
« Ma… »
Mopati alzò un braccio facendo segno di tacere. Parlò brevemente con l’uomo poi prese il bambino. « Va bene così, signore » disse, facendosi strada in mezzo agli abitanti del villaggio.
Donovan lo affiancò senza parlare, ma dopo pochi passi si fermò.
« Che succede, signore? »
« Come si chiama quell’uomo? »
Mopati si voltò a guardare verso la capanna. « Upepo » disse.
Donovan tornò sui suoi passi fino a trovarsi a un metro dall’uomo, rimasto sulla soglia della capanna.
« Cosa farai con quei soldi, Upepo? » gli domandò in inglese.
Mopati aprì la bocca per tradurre, ma l’altro lo anticipò: « Li userò per portare la mia famiglia e quella di mia sorella in città, a Windhoek » rispose in Swahili, « per dare un futuro ai miei figli e ai miei nipoti. »
Donovan ascoltò la traduzione di Mopati poi si voltò senza commentare e si avviò verso l’uscita del villaggio.
La voce dell’uomo si levò di nuovo, alta e chiara.
« Cosa ha detto, adesso? »
« Prometti che avrai cura di mio figlio, uomo bianco » rispose Mopati.
Donovan scrutò il viso del bambino addormentato sul petto di Mopati. « Te lo prometto » gridò a sua volta, girandosi a fissare le altre figure comparse sull’ingresso della capanna.
Il petto nudo di Themba, ricoperto di sangue di mangusta, ansimava per la tensione. Il ruggito del leone lo paralizzò solo per un istante. Indietreggiò con cautela senza perdere di vista il grosso felino. Un passo, due, tre. La bocca si spalancò mostrando i denti enormi e affilati. Le membra muscolose si mossero in avanti. Themba si voltò e iniziò a correre verso il recinto, le scarpe da ginnastica colorate che galleggiavano sulla terra rossa senza lasciare traccia di sé.
Le zampe del leone invece colpivano con violenza il terreno. Il ragazzo ne percepiva il suono a ogni zampata, e il respiro della bestia era così vicino alla sua schiena nuda che ne percepiva quasi il calore.
« Corri! » dicevano quelli al riparo della palizzata.
« Corri, Themba! » gli urlava suo padre.
Con un ultimo sforzo il ragazzo superò l’apertura nel recinto esterno. Continuò a correre fino a raggiungere la seconda fila di pali conficcati nella terra. Il ruggito della belva si levò sopra al rumore del legno che scendeva a sigillare le aperture; sopra alle grida di vittoria degli abitanti del villaggio. Themba venne circondato da decine di braccia che lo sollevarono portandolo in trionfo, mentre il leone urlava la sua rabbia contro le lance che si abbattevano sulla sua carne.
Quella sera, seduto davanti al fuoco insieme a tutti gli uomini del villaggio, Themba sorrideva fiero. I ragazzi più giovani, seduti a debita distanza, lo guardavano ammirati. Alcuni studiavano il suo viso, la gomma fosforescente delle scarpe, altri erano concentrati sui denti e sulla criniera del leone, con la pelle distesa a formare un tappeto ai piedi di Themba.
Un uomo anziano alzò una mano e tutte le voci e le risate cessarono di colpo. Il riverbero del fuoco aumentava le ombre delle fitte rughe sul volto; le linee correvano come una ragnatela intorno agli occhi velati dalle cataratte. Eppure il suo sguardo intimoriva quanto quello di un cobra.
« Sei stato bravo, Themba » disse il vecchio, « bravo e coraggioso. È un sollievo per i nostri cuori sapere che anche se i figli lasciano il villaggio non dimenticano le loro origini. Tuo padre ti ha cresciuto bene. »
Upepo, seduto vicino al figlio, gonfiò il petto. « Bravo e intelligente, Themba » continuò il vecchio, « la tua idea di attirare la bestia mangia-bambini nel recinto, invece di andare a cacciarla nel deserto, è stata molto utile. E già per quello ti sei guadagnato il rispetto di tutti noi. Non era necessario offrirti di persona… »
Themba aprì la bocca ma la mano di Upepo si alzò per fermarlo. « No » disse il vecchio, « lascia parlare tuo figlio. »
Themba sorrise al padre, rassicurandolo. « So che altri avrebbero voluto sfidare il leone, ma io sapevo di essere il più veloce di tutti, e anche se vivo in città volevo dimostrare che la mia gente siete voi. Vi ringrazio per avermi dato la possibilità di essere di aiuto. »
Seguirono alcuni istanti di silenzio, l’unico rumore veniva dal crepitio del fuoco e dal muggito basso del bestiame raccolto in un piccolo recinto.
Il vecchio prese una manciata di terra. « Sì, hai dimostrato di essere veloce, più del vento, più di tuo padre, più del leone. Più di tutti i giovani del villaggio. Dicono che i luoghi in cui corri… », si interruppe volgendo la testa verso Upepo. « Si chiamano piste » disse questi.
Il vecchio annuì. « Dicono che le tue piste hanno lo stesso colore di questa terra… »
« Sì » disse Themba, « hanno il colore del sangue secco, ma sono più elastiche, e senza polvere. »
« E dimmi, Themba. Tra poco andrai in una terra lontana
per correre sulla pista; contro chi devi correre, contro l’uomo bianco? »
« Non so se ce ne saranno. Non capita quasi mai. »
« Allora sfiderai i tuoi fratelli? »
« Sì. »
« E cosa farai, se vincerai? »
Themba alzò le spalle. « Continuerò a correre » disse.
« E se invece perderai? »
« Continuerò a correre lo stesso. »
La bocca del vecchio si schiuse in sorriso storto, senza denti.
« E quando non avrai più forza per correre veloce? »
« Continuerò a studiare » rispose Themba deciso.
« E cosa studierai? » lo incalzò il vecchio.
Themba si alzò in piedi, lo sguardo perso oltre il recinto, verso la notte.
« Studierò le scienze » disse, « e tornerò in questo villaggio per aiutare quei bambini. » Il braccio del ragazzo si mosse ad arco verso il gruppetto seduto nel cerchio più esterno. « Per fare in modo che tutti loro, e i bambini degli altri villaggi, possano tornare a vedere la terra in cui sono nati. » Gli adulti seguirono la sua mano contemplando le decine di occhi velati. « E per fare in modo che gli anziani possano masticare il cibo » continuò Themba guardando il vecchio. L’uomo si alzò puntellando il bastone in terra, scacciando le mani di quelli che volevano aiutarlo. Tutti si alzarono in piedi. « Allora vai, Themba, vai e corri. E stanotte, e le notti che verranno, il mio cuore sognerà di essere con te a correre veloce come il vento. Pregherò gli spiriti per darti la forza di afferrare i tuoi sogni, e di vincere le tue sfide. »
Themba lo guardò avanzare zoppicando fino alla capanna. Upepo si affiancò al figlio e gli poggiò una mano sulla spalla. Si scambiarono un sorriso, poi Themba raccolse la pelle del leone e la porse a uno dei più giovani. Il bambino se l’avvolse sulle spalle e iniziò a correre ruggendo mentre gli altri lo seguivano tra le urla giocose.
Le capanne si svuotarono e i tamburi iniziarono a suonare.
Jeff Donovan era raggiante. « Sei stato fantastico, oggi, Patrick » disse mentre sedevano a tavola. Alzò il bicchiere per l’ennesima volta e brindò in onore del figlio. Emma si allontanò dal lavandino e prese la bottiglia quasi vuota. « Ora basta, però, l’hai sentito il dottore cosa ha detto la settimana scorsa » gli disse con un’occhiataccia. « D’accordo, ma non capita tutti i giorni un evento come questo, donna; ma ti rendi conto di cosa ha fatto tuo figlio? Dieci e ventotto! La seconda prestazione mondiale dell’anno nella sua categoria! E quelli che correvano contro di lui stamattina erano tutti più grandi di un anno… Ma lui li ha messi tutti in fila! Accidenti, non vedo l’ora che arrivi il mese prossimo, Patrick; ci pensi? I mondiali! E qui, a Londra! I miei colleghi hanno già prenotato tutti il biglietto per lo stadio, e … »
« Va bene caro, ma adesso lascialo respirare » intervenne Emma, « Patrick, vai pure a festeggiare con i tuoi amici, mi rac-
comando non fare troppo tardi che domani hai il test di matematica. »
Patrick si alzò e soffiò un bacio sulle guance dei genitori.
« Promesso mamma, farò come Cenerentola. »
« Ecco, bravo » disse il padre, « e vedi di non dimenticare le scarpette chiodate nella borsa » concluse ridendo da solo per la sua battuta.
Si alzò a sua volta e si affacciò alla finestra, a guardare il figlio uscire in strada con lo scooter. Emma gli si affiancò e gli cinse la vita con un braccio.
« E se non vince? »
« Non importa, Emma. Io cerco di spronarlo per dargli fiducia in se stesso, ma quel ragazzo è comunque la cosa più bella che mi è capitata nella vita… insieme a te, naturalmente. E comunque se non vince ha il tempo per rifarsi, è così giovane… »
Il rombo di un aereo, perso da qualche parte sopra le nuvole, attraversò la quiete della zona residenziale.
Jeff Donovan alzò la testa, in ascolto dell’eco lontana.
« A cosa pensi caro? »
« A niente » disse.
Seduti nel fresco della stanza d’albergo, Mopati gli porge una busta. « È tutto a posto, signore, come le avevo promesso. I documenti sono in perfetto ordine, vede, ci sono i biglietti dell’aereo per Francoforte e la documentazione dell’adozione con tutti i timbri. Non avrà nessun problema, signor Donovan, può stare tranquillo. »
« Sarò tranquillo quando sarò a casa, Mopati » risponde Donovan, posando il biberon sul tavolo e il bambino addormentato nella culla. I vetri della finestra vibrano leggermente mentre un aereo lascia la pista dell’aeroporto.
Si alza e prende il portafogli dalla valigia aperta sul letto. « Bene, caro Mopati, ecco quanto stabilito, e grazie di tutto. »
Mopati si inchina e prende in mano le banconote arrotolate, che scompaiono subito nella sua giacca.
« So come si sente, signore. »
« Davvero? » risponde Donovan chiudendo la valigia.
« Sì, e mi creda, ha fatto la cosa giusta. Sono pochi i bambini dei villaggi che riescono a diventare adulti. E molti di quelli che vivono in città hanno il futuro segnato del colore della loro stessa pelle. »
« Grazie, ma pensavo a suo padre, a sua madre. »
Mopati scosse la testa. « No, signor Donovan, loro hanno altri figli, e con un po’ di fortuna, grazie ai soldi ricevuti, avranno comunque una possibilità in più degli altri. E questo bambino avrà dei genitori affettuosi e un futuro garantito. Sua moglie potrà coronare il sogno di diventare madre; gliene sarà grata per tutta la vita. »
« Lo spero, Mopati » mormora Donovan prendendo in braccio il bambino che ha iniziato a piangere.
« È la cosa giusta » insiste Mopati.
« È la cosa giusta » mormorò Donovan chiudendo la finestra.
« Come dici, Jeff? »
« Niente d’importante, vieni, andiamo a dormire… »
La musica risuonava nelle orecchie di Patrick Donovan attraverso gli auricolari. Il gomitolo di nubi arrotolato sopra Hyde Park si stava sfilacciando e il sole ne approfittava per spargere i suoi capelli d’oro sui viali alberati in una tiepida domenica mattina di fine giugno. Patrick tagliava rapido ombre e luce, scartando pedoni e biciclette, palloni e skateboard. Giunto nello spiazzo dello Speakers’ Corner, si fermò accanto a una panchina per fare stretching. Una ragazza con i capelli lunghi e biondi stava appollaiata sopra un piccolo sgabello di legno, attorniata da un gruppetto di curiosi. Lei parlava e la gente applaudiva. Patrick continuò gli esercizi mantenendo la musica a volume alto. Dopo cinque minuti riprese a correre. Nel vederlo passare accanto alla piccola folla, la ragazza lo additò e il pubblico si voltò ad applaudirlo. Patrick si fermò, fece un inchino e soffiò un bacio alla ragazza, poi s’infilò lungo il viale.
Mentre correva, pensava a quello che gli aveva detto il suo amico Bill la sera precedente, in un pub. Bill gli aveva confidato la sua decisione: dopo il diploma sarebbe andato a lavorare come volontario per le organizzazioni umanitarie che operavano nei paesi martoriati da guerre e pestilenze. Patrick era rimasto gran parte della notte a rigirarsi nel letto pensando a quello che gli aveva detto il suo amico. E quella mattina, dopo essere sbucato in superficie dalle scale della metropolitana, si era trovato a pensare che sarebbe stato bello, un giorno, provare il volontariato. In fondo, visto che aveva deciso di diventare medico, non aveva molta importanza farlo nei ricchi ospedali londinesi piuttosto che in qualche ospedale da campo. Sì, si disse, superando il ponte sopra il laghetto del Serpentine, forse in questo modo avrebbe avuto anche la possibilità di andare nella terra in cui era nato, e di incontrare qualcuno che conosceva la sua famiglia di origine.
Continuò a correre nel verde di Kensington Garden, si fermò a fare il saluto di rito alla statua del bambino perduto e proseguì verso il cerchio liquido del Round Pound. Si fermò di nuovo qualche minuto per riprendere fiato, guardando i bambini di ogni provenienza correre dietro le varie specie di uccelli che gironzolavano a centinaia intorno al lago. Un bip nell’orecchio lo avvisò che la batteria del cellulare era quasi scarica. Si tolse gli auricolari e chiuse gli occhi, cercando di immaginare tutta quell’acqua nel mezzo dei deserti africani, e i bambini che ridevano felici tra gli uccelli, e volavano, come Peter Pan, ma senza i pirati, sopra alle acacie e alla terra rossa.
Riaperti gli occhi riprese la corsa, tornando sui suoi passi. Superato di nuovo lo Speakers’ Corner, ora silenzioso, accelerò lungo il viale che portava in direzione dell’arco di Wellington. La ragazza bionda si voltò al suo passaggio. « Whooosh! » gli gridò mentre la superava; lui rallentò e si voltò a guardarla incuriosito. « Corri, figlio del vento » gli disse; Patrick annuì e corse via perplesso. Quando raggiunse la scala della metropolitana si bloccò sorpreso davanti a un manifesto pubblicitario. C’erano le foto di giovani atleti. E una delle facce era la sua.
L’aereo scivolava veloce nel cielo limpido. Themba guardava affascinato gli scenari che si susseguivano chilometri più in basso. Terre aride e brunite, foreste lussureggianti, serpenti d’acqua che brillavano come diamanti alla luce del sole; e montagne innevate, laghi, e ancora pianure sterili. Themba pensò che in quel momento, in ognuno di quei mondi distanti, il cuore di migliaia di bambini batteva forte mentre le gambe esili correvano per scappare: dalle bestie feroci, dalle guerre, da altri esseri umani. Lui sapeva che doveva correre per ognuno di quei bambini. Che avrebbe dovuto farlo ancora a lungo ma che a ogni corsa avrebbe potuto prendere con sé qualcuno di loro, e portarli lontano da tutte le cose che li inseguivano. Non era molto, ma era quello che doveva fare. Pensò ai suoi fratelli, a suo padre e a sua madre che avrebbero seguito la sua corsa seduti davanti a un vecchio televisore. Doveva correre anche per loro. Doveva vincere. Doveva.
C’è il sole, il giorno della finale. Jeff Donovan e sua moglie siedono nella tribuna d’onore. Lo stadio è piuttosto affollato per essere una competizione giovanile. Ma ormai anche a quei livelli gli interessi degli sponsor sono alti; alcuni di quei ragazzi e ragazzini che saltano e corrono sono il futuro prossimo dello sport, destinati a diventare famosi, e ricchi. Anche se in fondo quasi tutti sono molto più ricchi di quando sono nati, per un motivo o per l’altro.
« Come si chiama quello del record stagionale? » chiede Emma.
Jeff consulta un giornale. « Themba Mwaka » le risponde, « ha fatto un centesimo in meno di Patrick, dieci e ventisette. »
« Beh, vedrai che Patrick ce la fa a batterlo, altrimenti non importa. Ma è inglese anche questo ragazzo? » chiede ancora Emma.
Jeff scuote la testa. « No, viene dalla Namibia » risponde.
Emma si volta a guardarlo. « Dev’essere proprio come dice quel tuo collega, dipende dalla terra in cui nasci… »
« Sì, lo credo anch’io » risponde Jeff fissando gli occhi della madre di Patrick.
La donna comparsa alle spalle di Upepo ha i seni nudi. Uno però è coperto dalla testa del bambino che porta in braccio. Gli occhi della donna sono rossi di pianto. Jeff Donovan la guarda per pochi istanti poi abbassa lo sguardo e si gira per l’ultima volta.
Il deserto è di nuovo pronto per accoglierli nel suo respiro rosso. Mopati avvia il motore e ingrana la marcia. Dallo specchio retrovisore Donovan osserva la processione silente di occhi riversati nel nulla sconfinato. « Mi dispiace, signore, ma la madre non ha voluto saperne di separarsi da entrambi » dice Mopati in tono di scusa.
« L’avevo intuito guardando il padre, mentre parlavate » commenta Donovan. « Purtroppo avevo già detto a Emma che gliene avrei portati due, ma pazienza, troverò il modo di spiegare, inventerò una scusa. Lei capirà. »
La palizzata è già lontana, i volti confusi nel legno dei tronchi. Solo gli sguardi della donna e di Upepo continuano a tormentare Donovan, attraverso il volto del bambino che riposa tra le sue braccia.
« Cosa significa Upepo nella vostra lingua, Mopati? » chiede più tardi, mentre il fuoristrada avanza solitario verso la città.
Mopati sorride, nel rispondere.
Patrick e Themba si fronteggiano sul bordo della pista. Le corsie quattro e cinque sono le loro, quelle assegnate ai più veloci. Continuano a fissarsi, non possono farne a meno da quando si sono incontrati per la prima volta il giorno precedente, negli spogliatoi e sulla pista. Non si sono mai parlati, ciascuno perso nei pensieri e nella sorpresa. Non c’è stato bisogno di dirsi nulla. Ma entrambi sanno. Hanno capito. Themba lo ha sempre saputo. Upepo e sua moglie non gli hanno mai nascosto la verità. Patrick invece lo ha scoperto solo adesso. Ha cercato di trovare una spiegazione, una giustificazione per i suoi genitori. Ha pensato a una qualsiasi assurda coincidenza. Ha preso il telefono in mano il giorno prima, quella stessa mattina, ma è stato il suo a squillare. E ha parlato solo con sua madre. Ci sarà tempo più tardi, pensa, per capire. Ora c’è solo la finale, la sfida più attesa.
I Donovan e gli altri spettatori, i colleghi di Jeff, i giornalisti, tutti guardano lo schermo gigante sopra gli spalti che inquadra i due volti. Il mormorio di sorpresa sale nello stadio, qualcuno ride, altri invece tacciono. Come Jeff. Emma gli prende la mano, la stringe. « Mi avevi detto che erano due, all’inizio… »
Jeff non sa cosa dire, tutti quelli seduti accanto a loro cercano risposte. Sente che anche Upepo e la donna, a migliaia di chilometri, dal passato e dal presente, lo stanno guardando. Abbi cura di mio figlio, uomo bianco.
« Ti spiegherò perché non ti ho detto tutta la verità, dopo… » riesce a dire, alla fine.
Emma fa segno di sì con la testa e gli stringe più forte la mano.
Sullo stadio cala il silenzio totale.
Patrick e Themba si porgono la mano e si scambiano un’ultima occhiata. Dopo c’è solo la pista di sangue ad aspettarli.
Le schiene si inarcano, le gambe e le braccia si tendono.
Jeff Donovan si copre il volto con le mani. Non ha il coraggio di vedere. Ma non riesce a nascondere un sorriso, mentre ripensa alla domanda fatta a Mopati quel giorno ormai perduto nelle sabbie del tempo. E intanto il cronometro scatta.
Uno. In un villaggio, il sogno di un vecchio addormentato.
Due. È il pianto di una madre.
Tre. Il sangue nel deserto.
Quattro. I believe I can fly, il titolo di una canzone nel cellulare.
Cinque. Whooosh, grida una ragazza.
Sei. È il ruggito di un leone.
Sette. Un pozzo d’acqua dolce.
Otto. Il volo di un bambino.
Nove. È il sorriso, di una madre.
Dieci. Significa vento, è la risposta di Mopati.