8 Marzo 2020

Nostra Signora

di Chiara Urbani

Lo spettacolo fu interrotto alle dieci in punto, quando il grido della sirena si propagò per la seconda volta dagli altoparlanti del circo. I pagliacci che si esibivano smontarono dalle groppe degli asini e incitarono il pubblico a seguire le istruzioni per raggiungere i rifugi più vicini.
Emil si voltò verso Janus e si alzò a sua volta. Attesero che i pagliacci formassero le file. Alina rimase seduta, con la bambina addormentata tra le braccia. Muoveva una gamba e cullava nervosamente la figlia, mentre si mordeva l’interno del labbro inferiore.
Emil indugiò su di lei, poi guardò Janus. I loro atteggiamenti erano opposti, Janus era tranquillo e si guardava intorno.
« Sbrighiamoci! » disse Alina. « La sirena ha già suonato due volte. »
« Non preoccuparti. Non accadrà niente, lo sai, non è la prima volta che suona. »
Alina scosse la testa, spazientita da tanta tranquillità. « È la prima volta che suona due volte di fila in poco tempo. Dobbiamo andarcene. » Strinse al petto la figlia neonata che, nonostante il chiasso, continuava a dormire.
Janus le sorrise e annuì, ed Emil lo imitò. Doveva avere solo un po’ di pazienza e aspettare che giungesse il loro turno.
Finalmente una minuta acrobata con gli occhi a mandorla si avvicinò alla loro fila e in pochissimo tempo si trovarono già nel livello sotterraneo. Passarono davanti al bancone del bar che occupava quasi tutto il corridoio, poi i magazzini. Si fermarono davanti alle gabbie degli animali feroci, e presero posto dentro una di esse. Le porte delle celle, semplici sbarre di ferro, erano aperte e bloccate con dei cunei di legno.
L’acrobata andò via; Emil prese posto sul pagliericcio puzzolente che ricopriva l’angolo della gabbia e si domandò se la gabbia avesse contenuto un leone.
Alina si accucciò in un angolo, stringeva Ewa al petto.
« Non c’è niente da temere, Dresda è una città sicura » disse Janus nel tentativo di tranquillizzarla.
Alina non rispose, annuì brevemente e si concentrò sui capelli setosi della figlia.
« I leoni erano qui? » s’intromise Emil.
« Lo sai che la città è sicura, vero? » continuò Janus, ignorandolo.
Un’altra fila di persone, condotte questa volta da un pagliaccio alto come un bambino di dieci anni, passarono davanti alla cella. Si sistemarono negli angoli in cui c’era ancora posto e nelle celle vicine, ma due donne si sedettero accanto a Emil.
Una donna, nella cella di fronte, esplose in un urlo. Si portò le mani ai capelli, strinse e tirò forte senza smettere di urlare. A lei si unì un uomo, ma la voce della donna era troppo forte e acuta. Piombò il silenzio quando lui estrasse la pistola e adagiò la canna tra le sopracciglia della donna. Ringhiò una minaccia e lei immediatamente si azzittì.
Un pagliaccio si mise tra la donna e la pistola e riuscì a interrompere la scena. Alina era scoppiata a piangere e si era coperta la bocca con la mano, nel tentativo di soffocare i singhiozzi.
Emil si alzò e mosse un passo avanti per avvicinarsi, quando un fischio tagliò l’aria e terminò con un poderoso boato. Sentì lo scoppio nella pancia, all’imboccatura dello stomaco.
Janus lo tirò a sé con un rapido gesto e lo strinse contro il petto. Abbracciava anche Alina e sussurrava con voce dispiaciuta, si scusava per quello che accadeva.
Era stato lui a convincere la madre di Emil e Alina a recarsi a Dresda, quando aveva raccontato di essere una spia del Reich. Nessuno doveva sapere che scappava dall’Armata Rossa così come era fuggito dai tedeschi. Aveva sentito dire che Dresda era una città che non avrebbe mai conosciuto guerra e bombardamenti grazie a un accordo segreto con gli inglesi.
Zaneta gli aveva creduto e lo aveva seguito. Anche lui aveva creduto a quella leggenda, e come lui migliaia di profughi. Mai prima di quel momento la città aveva attraversato un momento di pericolo, mai prima di quella notte.
Nei mesi in cui avevano vissuto lì, la sirena antiaerea aveva risuonato decine e decine di volte come avvertimento, ma nessun attacco era mai stato confermato.
Anche quella sera, quando poco dopo l’apertura dei sipari la sirena aveva riempito il teatro, nessuno si era preoccupato finché non fu dato il secondo allarme; lo spettacolo era andato avanti.
Una bomba cadde sul teatro, Emil si strinse ancora di più a Janus, che continuava a ripetere di non aver paura, che il bombardamento sarebbe finito e presto sarebbero tornati a casa.
Emil voleva credergli, Janus non sbagliava mai, aveva ragione su Dresda: era una città sicura, erano i piloti che si immaginava intenti a stringersi la mano e a mettersi d’accordo sulle città da risparmiare a essere venuti meno all’accordo segreto. Sperò che anche la città inglese di cui non ricordava il nome venisse distrutta e capitolasse.
La porta di una gabbia tintinnò, vibrando sui cardini; il rumore giunse cristallino alle orecchie di Emil e immaginò il rintocco delle campane.
« Mamma! » urlò, allontanandosi da Janus con uno scatto. Tentò di guadagnare l’uscita, ma il ragazzo lo afferrò per un braccio e con uno strattone lo riavvicinò a sé.
« Lasciami andare! » Emil scalciò l’aria e tirò verso l’uscita.
Janus lo tenne stretto per qualche secondo, finché non lo fece cadere a terra.
« Dove credi di andare!? » urlò Janus, e strinse la presa attorno al bambino.
« Mamma! » gridò Emil.
Janus sentì il respiro strozzarsi in gola, non aveva pensato a Zaneta. Era stata lei a chiedergli di portare Alina ed Emil al circo, perché la tensione della guerra si allentasse. Tutti meritavano un po’ di svago, soprattutto un bambino di appena dieci anni e una giovane vedova che aveva appena dato alla luce la prima figlia.
« Quando finirà questo putiferio andremo a cercarla! » furono le uniche parole che Janus disse.
Nell’udirle, Emil smise di sferrare calci contro un nemico invisibile e di tentare di mettersi in piedi puntellandosi sui talloni.
Il tempo scorreva lento, scandito solo dai boati, accompagnati dalla vibrazione incessante del suolo. I pianti e i lamenti divennero un fastidioso brusio di sottofondo.
Quando ci fu silenzio, Emil si mise in piedi con un guizzo e scattò per correr fuori, ma Janus lo bloccò rapidamente.
« Dobbiamo aspettare il cessato allarme! » lo ammonì, poi cercò il suo sguardo, finché non si fissarono negli occhi. Janus tenne Emil stretto per le spalle, e solo quando suonò il cessato allarme lasciò la presa, ed Emil scappò via.
Mentre percorreva i corridoi, pensò alla madre e alla chiesa. Avevano deciso, il giorno in cui giunsero a Dresda, di incontrarsi davanti alla maestosa chiesa che si vedeva svettare da ogni parte della città.
Emil si mise a correre, ma le casse con gli oggetti di scena, che erano state sistemate lungo le pareti dei corridoi, erano cadute e il loro contenuto si era sparpagliato sul pavimento. Inciampò su una clava da giocoliere e ne calciò via un’altra.
Entrò per sbaglio nel teatro, dove si teneva lo spettacolo, e le prime tre file erano scomparse sotto un grosso pezzo del tetto. Riuscì a trovare l’uscita e si catapultò fuori, per poi bloccarsi nella piazza antistante.
Oltre il fiume, si estendeva la città vecchia, dove Frauenkirche si ergeva fiera. Numerose colonne di fumo si ergevano accanto agli edifici; le fiamme danzavano alla fine del ponte, sui resti di una pensilina di legno. Una colonna di fumo saliva lenta accanto alla chiesa di Nostra Signora, rischiarata dal chiarore di un rogo.
Le urla degli sfortunati che non erano riusciti a trovare un rifugio per tempo gli riempivano le orecchie. S’incamminò sul Carolabrücke, dove un uomo moribondo rantolava e chiedeva aiuto trascinandosi sopra le rotaie. Il volto era una maschera di sangue, non aveva il braccio destro.
Spaventato, Emil corse via, fino a raggiungere l’altra sponda dell’Elba.
Si fermò all’imboccatura della via che ospitava la bottega del calzolaio. Una bomba aveva aperto una voragine nella strada, e da essa zampillava una colonna d’acqua.
Non c’era modo di saltare il buco, era troppo largo. Spostò un piede in avanti, con cautela, e la terra franò. Si ritrasse con uno scatto; anche se fosse riuscito a scendere e oltrepassare il getto, con buone probabilità non sarebbe riuscito a risalire dall’altro lato.
Non aveva tempo da perdere, doveva recarsi dinnanzi alla chiesa il prima possibile, di sicuro la madre lo aspettava e non voleva farla preoccupare.
Tornò indietro e proseguì su Rampische Strasse, speranzoso di poter accedere al piazzale della chiesa da lì, ma non riuscì a saltare il corpo martoriato di una donna.
A perdifiato, tornò all’imboccatura del ponte e percorse tutta la passeggiata a lato dell’Elba, da lì riuscì a oltrepassare la folla che si muoveva nella direzione opposta e a scivolare nella piazza del Nuovo Mercato.
La chiesa, immensa, sembrava toccare il cielo, il museo vicino andava a fuoco. I vigili del fuoco e alcune crocerossine aiutavano i feriti. Numerosi volontari aiutavano a creare i passaggi per i soccorsi; altri scappavano come se avessero visto fantasmi; qualcuno si limitava a piangere.
Si avvicinò alla chiesa e attese qualche minuto accanto alla statua di Martin Lutero. Scrutò l’edificio con attenzione e quando vide che non presentava danni, che il campanile e le campane erano ancora al loro posto sentì il petto alleggerirsi.
Mentre girava attorno al quartiere non aveva potuto vederla, com’era coperta dagli altri edifici. In quei minuti una brutta sensazione si era impadronita di lui e lo aveva costretto ad accelerare il passo. Si era domandato cosa sarebbe successo se la chiesa fosse crollata, e la situazione che si era immaginato non gli era piaciuta. Senza la chiesa, non sarebbe riuscito a ritrovare la madre, non era un’opzione ammissibile.
Dal portone della chiesa, piano piano, si affacciò qualche volto spaventato. Una donna uscì trascinando i piedi; aveva il volto sporco di terra e gli occhi sgranati. Si guardava intorno spaesata, una volta fuori si voltò, vide la chiesa stagliarsi su di lei e cadde all’indietro. Si tirò su e barcollò verso Emil, che intimidito spinse la schiena contro il piedistallo bronzeo della statua, nella speranza di compenetrarlo.
Una crocerossina si precipitò dalla donna e la condusse verso l’altro lato della piazza, quello che aveva riportato meno danni.
« Dove accidenti era la contraerea? » urlò un uomo. Passò accanto a Emil in direzione del luogo dove venivano radunati feriti e superstiti, mentre i soccorsi giungevano dalle altre città, a detta di un poliziotto.
Altre persone uscirono dalla chiesa, ed Emil aspettò di vedere anche la madre, finché non vagliò la possibilità che fosse ferita. In quel caso, l’avrebbe trovata all’ospedale o nella parte della piazza dove infermiere e crocerossine tentavano di dare il primo soccorso.
Scrutò i volti con attenzione, ma della madre non c’era traccia. Decise allora di tornare all’ingresso della cattedrale, da lì aveva una visione migliore.
Quando fu a metà strada, vide una donna entrare in chiesa. Era la madre!
Le corse dietro, e quando fu dentro la chiesa vide una statua della Vergine a mani giunte e col volto leggermente inclinato. Sorrise alla statua, che gli aveva fatto ritrovare la madre, perché lei non avrebbe mai permesso che un bambino rimanesse solo.
Della donna non c’era traccia, sebbene l’avesse vista entrare. Si diresse verso l’altare. Le panche erano state spostate e ammucchiate di lato. Dietro l’altare si apriva una botola.
Emil afferrò un cero e illuminò le scale che scendevano sotto terra. Ammirò la chiesa al suo interno, ma della madre non c’era traccia.
Si armò di coraggio e scese. Le scale erano anguste e strette e conducevano alla cripta, una sala col soffitto ad archi. Sul muro destro e su quello sinistro, c’erano dei grossi buchi. Il muro era stato abbattuto per accedere ai tunnel sotterranei che connettevano i vari rifugi della città.
Emil entrò nello squarcio a destra. Il pavimento era in terra battuta e il corridoio sembrava essere fatto a camere connesse tra loro. Lungo i muri, diverse sagome accovacciate, altre piegate su se stesse. Giunse in fondo al corridoio, contò sei camere. Oltre quel muro, c’era un altro rifugio.
Cercò di illuminare tutti: vecchi e bambini con i visi sporchi di terra e rigati dalle lacrime.
Controllò allora anche il corridoio che si diramava dal buco sul muro sinistro, e nella quarta stanza del corridoio, verso il rifugio successivo, riconobbe le spalle della donna che aveva visto entrare. Era inginocchiata davanti a un’altra donna che, con la schiena premuta contro la parete, cullava un fagotto.
« Mamma? » la chiamò Emil, sfiorandole la spalla.
Lei si volse. I lineamenti del viso erano dolci e iniziavano a cedere; quella donna somigliava tanto a sua madre, ma non era lei. L’altra teneva il viso basso e canticchiava una ninna nanna.
Emil, in quel momento, non riuscì a capacitarsi del suo errore; quando l’aveva vista sulla piazza era certo si trattasse della madre. Ne aveva riconosciuto l’andatura e i capelli, la stessa crocchia sulla nuca. Lei non disse niente, si limitò guardarlo con dispiacere, poi abbozzò un sorriso.
La donna che cantava gettò il fagotto di lato e si lanciò addosso a Emil, lo abbracciò con forza e rise. Caddero a terra ed Emil sbatté la testa contro il muro. Il cero volò da una parte e si spense. Il tunnel rimase illuminato dalla luce che filtrava dalla cripta e da alcune candele vicine, adagiate per terra per illuminare il cammino.
« Figlio mio! » disse la donna, affondando il viso nell’incavo del collo.
Si dibatté sotto di lei, e più si muoveva più lei stringeva la presa, finché l’altra donna non la costrinse a tirarsi in piedi. Le sussurrò qualcosa all’orecchio, mentre Emil si rimetteva in piedi, col fiato spezzato. Posò lo sguardo sul fagotto e si accorse che non era altro che un cumulo di vecchi stracci. « Devi prendere il tuo bambino » disse la donna che tanto somigliava alla madre di Emil, e l’altra scoppiò in un pianto disperato. Corse a recuperare gli stracci, li strinse al petto e riprese a cullarli.
Emil scappò e cercò rifugio nella cripta. La madre non era lì sotto, si era sbagliato.
Attese qualche secondo, domandandosi dove fossero Janus e Alina. Li aveva lasciati al circo, forse lo cercavano. Forse erano assieme alla madre e aspettavano solo lui.
Le gambe gli dolevano, affaticate per la lunga corsa. Salire ogni gradino si rivelò essere un’impresa, ma si aiutò poggiandosi al muro.
Uscì dalla chiesa e si mise accanto alla statua di Martin Lutero, si poggiò al basamento e scrutò la piazza, nella speranza di scorgere qualche volto noto. Non c’era traccia della madre né di Janus né di Alina.
Gli incendi negli edifici attorno alla piazza erano stati spenti, e dai tetti e dalle case si levavano tenui colonne di fumo azzurrognolo.
Forse si erano già incontrati ed erano andati a cercarlo, ma gli sembrò poco probabile; dopotutto avevano deciso di ritrovarsi davanti alla chiesa di Nostra Signora.
Erano trascorse almeno un paio d’ore, il pendolo nella bottega dell’orologiaio si era fermato all’ora del primo bombardamento.
Emil, lentamente, decise di tornare al palazzo del circo Sarrasani, l’ultimo posto dove aveva incontrato un familiare. Pensò alla sorella, Alina era una fifona e forse aveva insistito per rimanere nascosta in quei rifugi. Neanche Janus era capace di vincere contro la sua testardaggine a volte.
Ripercorse la strada che aveva fatto per arrivare, quando udì un rombo sommesso, in lontananza.
Il rumore si avvicinò progressivamente e si trasformò in un fragore assordante.
Alzò lo sguardo al cielo per capire se quel rumore poteva essere causato dagli aerei, non aveva mai assistito a un bombardamento prima di quella notte, e sotto il rifugio i rumori giungevano ovattati e mischiati. Non aveva la minima idea di quale fosse il rumore di un bombardamento.
L’unica cosa che Emil era in grado di distinguere visivamente erano i bagliori che emanavano i roghi ancora accessi in alcune parti della città, ma le luci più forti provenivano dalle sue spalle, dalla città vecchia.
Decise che non fosse il caso di indugiare oltre e aumentò il passo, per quanto i dolori alle gambe gli permettevano. Due soldati lo sorpassarono mentre attraversava il ponte, e in quel momento ebbe la certezza che qualcosa di brutto stesse per accadere.
Sentì una nuova forza impossessarsi di lui, le gambe ripresero vigore e i muscoli si gonfiarono. Seguì i due militari, quando udì il rombo degli aerei passargli proprio sopra la testa. Li cercò con lo sguardo, continuando nella sua corsa.
Vide il bombardiere sganciare il primo ordigno poco oltre la Frauenkirche, e una dirompente esplosione di fuoco si propagò verso l’alto, come un enorme fiore di fuoco.
Ogni cosa prese fuoco attorno al punto in cui era caduta la bomba, e spesse colonne di fumo si levarono verso il cielo. Un acre odore pervase l’aria fredda di quella notte, nascondendo l’odore del fuoco appena spento con quello del fuoco vivo. Aveva un odore strano, chimico.
Emil oltrepassò il circo e continuò a correre verso est.
Udì altre bombe precipitare e le immaginava esplodere in laghi di fiamme pronte a divorare qualunque cosa. Non si voltò a verificare, non rallentò la corsa neanche per un istante.
Dopo pochi minuti in cui le bombe caddero come pioggia incessante, incapace di udire ancora i boati, sentì una strana forza che sembrava trattenerlo.
Ebbe paura a girarsi e verificare. Temeva di vedere qualche mostro fatto di fiamme che allungava la mano, con le dita lunghe, e lo afferrava e lo tratteneva, in attesa che il rogo lo raggiungesse e lo bruciasse. I demoni che immaginava lo tentavano, li sentiva mentre tiravano gli abiti e volevano solo che lui rallentasse abbastanza per ghermirlo.
Emil non cedette, continuò a correre, a correre verso est. Doveva scappare dalle lingue di fuoco. Una costante vibrazione gli avviluppava le viscere, le onde generate dagli schianti.
Corse a lungo, corse finché non si rese conto di trovarsi nelle vicinanze delle ultime case di Dresda. Aveva attraversato quasi tutta la città.
Le gambe non lo reggevano più, palpitanti e doloranti, lo costrinsero a fermarsi.
Sentiva l’aria spostarsi, risucchiata dall’inferno che i piloti inglesi avevano causato alle sue spalle. Finalmente si voltò a guardare cosa accadeva, e ciò che vide fu peggio di quello che si sarebbe mai aspettato.
Tutto sembrava avvolto da un intenso bagliore: una luce arancione, abbacinante, sorgeva dalla città e si mescolava con il cielo. Una cappa scura avvolgeva la città.
Non era riuscito a trovare la madre e quando era passato davanti al circo, vi era passato davanti di corsa per portarsi al sicuro. Ora se ne pentiva. Chissà quanto erano in pena per lui, chissà quanto piangeva Zaneta senza il suo piccolo Emil.
In preda al senso di colpa, salì le scale esterne di una piccola casa e bussò forte alla porta. Nessuno gli aprì la porta. Emil, allora, provò a girare la maniglia, che scattò senza opporre resistenza.
Entrò in casa e salì in soffitta, accumulò i mobili che trovò e si arrampicò per aprire il lucernario. Davanti ai suoi occhi tutta la città nuova, tutte le case a est dell’Elba si estendevano a perdita d’occhio. In un punto, le case sembrarono essere più distanti, e lo erano perché lì passava l’Elba. Oltre il fiume, nella città vecchia, Frauenkirche svettava incontrastata, visibile e riconoscibile da qualunque parte della città.
Le fiamme erano ormai alte quanto la chiesa, la ghermivano e la divoravano.
Emil puntellò le braccia sul tetto e si issò a sedere su alcune tegole. Rimase così, fermo, a guardare la città ardere.
Non sentiva nessun rumore se non un incessante sibilo. Senza rendersene conto scoppiò in lacrime.
Lei non aveva ascoltato la sua preghiera. Il punto d’incontro con la famiglia era perso per sempre. Senza la cattedrale a segnare quel luogo, nessuno sarebbe mai riuscito a ritrovarlo, e di conseguenza Emil sarebbe rimasto per sempre solo.
Pianse per molto tempo, seduto sul tetto. Le fiamme continuarono a bruciare per ore, e quando il sole riuscì a sorgere non riuscì a palesarsi. Un denso tetto di fumo copriva la città, lasciandola sospesa in un crepuscolo senza fine.
Emil avvertiva lo strato di fuliggine che gli impiastricciava la faccia, e sentiva bruciare le guance, ancora umide dalle lacrime.
Vide gli aerei bombardare la città per terza volta; dovettero abbassarsi talmente tanto per colpire, che sfiorarono i tetti degli edifici più alti e attraversarono le colonne di fumo.
Ovattate, giungevano al suo orecchio le esplosioni delle bombe e poi le raffiche di mitragliatrici, ma presto cedettero il posto a quel sibilo dilaniante che lo assordava dalla notte precedente.
Solo quando il sole riuscì finalmente a comparire come un cerchio giallognolo, Emil si lasciò cadere dal lucernario. Le gambe non lo ressero, e cadde sul pavimento dopo essere rimbalzato sul tavolo su cui si era arrampicato.
Strisciò fino alla porta e scese le scale trascinandosi sulle natiche, come quando era piccolo e si rifiutava di alzarsi sulle gambe per camminare.
Solo quando fu davanti alla porta d’ingresso fu costretto a levarsi in piedi. Fece leva sulle braccia per mettersi in ginocchio, poi afferrò la maniglia con entrambe le mani e si issò.
Rimase immobile qualche minuto, finché le gambe si riabituarono alla postura eretta e mosse il primo, tremolante passo verso l’esterno.
Vide delle persone in lontananza dirigersi verso di lui. Sarebbe stato bello se fossero stati la madre, Janus e Alina con la piccola Ewa stretta tra le braccia. Quel pensiero lo ferì con forza, riportandogli alla mente che nessuna delle persone che aveva conosciuto c’era più.
La chiesa, Frauenkirche, era stata avvolta dalle fiamme, la chiesa più alta di tutta la città era bruciata, e con essa ogni speranza di Emil di ritrovare qualcuno.
La vista si annebbiò e vide la strada avvicinarsi al volto, poi solo rilassante oscurità.
Quando riprese conoscenza era legato al letto per i polsi e le caviglie, circondato da sconosciuti e con un pigiama bianco addosso. Sentiva la gola bruciare, così come i muscoli delle gambe.
Fissò i presenti con ostinazione, e alcuni ricambiavano lo sguardo. Solo un ragazzo si alzò dal suo letto e si diresse verso l’uscita. Quando ricomparve nello specchio della porta, lo indicava.
Un’infermiera si avvicinò a Emil.
« Come stai, piccolo? » gli domandò con gentilezza. « Stai meglio? »
Emil annuì e seguì l’infermiera con gli occhi mentre gli contava le pulsazioni tenendogli il polso, e poi gli misurò la temperatura.
Era una donna giovane, poco più grande di Alina, con grandi occhi azzurri. Aveva un’espressione dolce, simile a quella della madre.
« Se prometti di fare il bravo, ti slego » gli disse, ed Emil annuì ancora.
L’infermiera sorrise e sciolse le cinghie di cuoio prima di andare via.
Emil non fece in tempo a tirarsi su a sedere che arrivò un medico assieme a un’altra infermiera. L’uomo non gli rivolse la parola, parlò solo per comunicare all’infermiera i dati da annotare. Quando il dottore fu sulla porta, si girò verso la sua sinistra.
« Sta bene » disse a qualcuno che Emil non poteva vedere in nessun modo. « Ha subito un forte shock e avrà altre crisi, ma per ora è sotto controllo. »
La persona che si nascondeva dietro il muro domandò qualcosa e il medico annuì.
Janus entrò nella stanza. Indossava anche lui un pigiama bianco dell’ospedale ed era ferito. Si muoveva con un bastone e aveva le braccia fasciate. Il volto era ricoperto di cerotti e ferite. Camminava adagio e ogni passo sembrava essere doloroso.
Si fissarono negli occhi, senza dire niente. Entrambi avevano tante cose da domandarsi, ma in fondo, conoscevano già le risposte. L’unica cosa di cui avevano bisogno in quel momento era un po’ di conforto.
Janus si sedette accanto a Emil, e si coricò occupando buona parte del materasso. Con il braccio cinse le spalle del bambino.
« Hai visto cos’è successo? » gli domandò.
Emil scosse la testa. Provò ad aprire la bocca per parlare, ma prima che le labbra si schiudessero, si rese conto di non averne nessuna voglia.
« Io sì » gli disse Janus. Il ragazzo fissò lo sguardo nel nulla e una lacrima comparve nell’angolo dell’occhio sinistro e scivolò giù lungo la guancia.
Emil pensò che stesse ricordando l’ultima volta in cui aveva visto la sorella. Si era accorto che Janus non voleva bene ad Alina nello stesso modo in cui ne voleva a lui, né tanto meno nel modo in cui la madre ne voleva a lui e alla sorella.
Asciugò la lacrima di Janus, schiacciandola col la punta del dito contro la pelle del mento e poi si strinse contro il suo fianco, lasciandosi andare all’abbraccio che gli veniva offerto. Janus gli ricordava il padre.
In fondo, pensò Emil, non aveva ancora perso tutto.