7 Marzo 2020

L’equilibrista

di Rosaria Iodice

Era accaduto nel giorno di Ognissanti, quando la bruma mattutina sbiadisce i profili delle case inghiottendole in una morbida nuvola grigia. Il Curato era appena giunto sulla torre campanaria quando si avvide che qualcosa non andava. Un’ombra minacciosa si raggrumava sul soffitto tra le cupe dissolvenze dei chiaroscuri. Si stropicciò gli occhi. Temeva che gli fossero tornate le allucinazioni. Ne aveva sofferto da bambino, ma poi se ne era liberato quando l’età adulta gli aveva insegnato a distinguere la realtà dai sogni. Nel vedere l’ uomo camminare sulla corda tesa tra il gallo segnavento del palazzo Municipale di Buonvento e la cuspide della Torre Campanaria della Cattedrale, il respiro gli si bloccò in gola come un grumo di melassa. “Satana è di certo capace di grandi artifici” si ritrovò a pensare, nel rendersi conto che per quel giorno avrebbe dovuto rinunciare a suonare le campane. Era la prima volta che accadeva in cinquant’anni. Il risveglio del paese era un compito che portava avanti con uno zelo sempre uguale. Sei rintocchi vigorosi che ti entravano in testa come una martellata. Un rito, a cui tutto il paese con il tempo si era rassegnato. A ogni minima oscillazione dell’uomo sulla corda, stringeva le mani in preghiera e invocava il buon Dio, serrando gli occhi nel timore di vederlo precipitare nel vuoto come una cornacchia dalle ali spezzate. Come aveva fatto a giungere fin lassù? Guardò le guglie del campanile, ma non scorse nessuna traccia. Durante la notte non aveva udito alcun rumore sospetto, nonostante avesse il sonno leggero e bastasse poco per svegliarlo.
« L’ennesimo pazzo! » esclamò ad alta voce, pentendosene un attimo dopo. Ma dal punto in cui era, l’uomo non poteva certo sentirlo.
Quella che iniziò fu una giornata strana. La gente di Buonvento non si svegliò al suono delle campane come accadeva ormai da ben 50 anni.
Tutte le attività del giorno furono rallentate.
« Zì prete sarà morto » bofonchiò il sindaco, alzandosi indolentemente dal letto, stiracchiandosi le ossa intorpidite dai dolori articolari che l’affliggevano da tempo.
 
Guardò l’orologio sulla parete.
Era molto tardi e non aveva udito alcun rintocco.
Il Curato aveva una certa età e certe cose c’era da aspettarsele in fondo. Zì Prete aveva 80 anni e un carattere indomito che lo spingeva sempre a voler fare di testa sua. Non andavano molto d’accordo e le liti erano diventate sempre più frequenti con il giungere della vecchiaia. Una delle questioni irrisolte riguardava il Palazzo Comunale. Costruito in epoca successiva, oscurava la facciata barocca della Cattedrale. Fosse stato per l’anziano prete, l’avrebbe abbattuto a forza di picconate con le sue stesse mani. Non dello stesso parere era il Sindaco, per cui la coesistenza della Cattedrale e del Municipio nella stessa piazza era un motivo di orgoglio per la cittadinanza. Alla fine ne avevano fatto una questione personale, tanto da togliersi il saluto, ogni volta che si incrociavano per strada. Il Sindaco quella mattina pensava di trovare il portone della cattedrale listato a lutto con tanto di corone di fiori e frasi di commiato. E invece la scena era tutta diversa da come se l’era immaginata. Zì Prete, più arzillo del solito, era alla testa di una massa di contadini e di comari che puntava il dito verso il cielo.
« Lissù, lissù guardate lissù » continuavano a dire concitatamente.
Non gli servì molto per capire cosa stessa accadendo. Un uomo sospeso nell’aria continuava a passeggiare in equilibrio su una corda, con il bilanciere tra le mani. I presenti pendevano tutti, trattenendo il fiato, dalle sue labbra. « I gendarmi, chiamate i gendarmi! » gridò a perdifiato, temendo il peggio. « E arrestate quel pazzo! ». Zì Prete lo guardò sottecchi, ridendosela amaramente.
 
« Voglio vedere come lo acciuffate, se non si sa neppure come è arrivato fin lassù ».
I gendarmi accorsero in tutta fretta, ma di fronte a quel caso così anomalo, si mostrarono da subito inermi.
« Suvvia, vi arrendete voi, proprio voi che del coraggio dovreste essere l’esempio? »
Il Capo delle Guardie lo guardò con un’espressione maligna.
« Gli ordini sono ordini, e noi ubbidiamo, ma non è detto che agire sia la cosa migliore quando si ha a che fare con degli squilibrati. »
Il Sindaco, che fino a quel momento aveva ostentato un atteggiamento superbo, cominciò a mostrare disagio, e si vestì d’autorità. « Salite sulla torre, portatevi una scala e trovate il modo per convincerlo a scendere da lì. Il Curato vi farà strada, visto che non c’è persona migliore di lui per salvare una vita. È un ordine, e se non obbedite son guai! »
Il Parroco con gli occhi torvi acconsentì.
Le segrete rampa a chiocciola del campanile erano un cunicolo stretto e maleodorante. I gendarmi, stretti al muro, ansimavano per lo sforzo di condurre la scala di legno sulle spalle. Lottavano con la montagna di ripidi gradini che rendeva ogni passo greve e faticoso. Il Curato faceva loro strada, salendo gli scalini con mestizia, stringendo tra mani il rosario, pregando e scorrendo i grani, sperando che non arrivassero troppo tardi, per ricondurre quell’uomo nella grazia di Dio e lontano dalle grinfie di Satana. Ma come fare non lo sapeva neanche lui.
L’impresa si rivelò del tutto inutile. L’uomo li guardò sottecchi con la stessa attenzione che avrebbe riservato a una mosca molesta. A nulla servirono le invocazioni del Curato. L’ometto continuava a percorrere avanti e indietro la corda che univa Municipio e Cattedrale, indifferente alle loro invocazioni.
« Volete una ricompensa per questa messinscena? Ditelo almeno, così la finiamo con questa insolente mascalzonata! » sibilò il Capo dei Gendarmi ad alta voce in un attimo in cui l’uomo gli fu particolarmente vicino da accorgersi che indossava un frac e un cappello a falde di colore nero, da sembrare un uccellaccio del malaugurio. L’uomo liberò un sogghigno, poi riprese a camminare avanti e indietro, con la stessa indifferenza di prima. Zì Prete si lasciò scivolare le braccia ai fianchi. Il sangue gli si raggelò nelle vene. Per un attimo un brivido di terrore gli attraverso la schiena. « Questa ve la potevate pure risparmiare, che per poco quello non mi faceva venire un colpo apoplettico! »
Il Capo dei Gendarmi si rese conto che nella sua vita aveva fatto di tutto, sedato rivolte, arrestato furfanti, incarcerato pericolosi imbonitori, ma non gli era mai capitato di doversi confrontare con una figura quasi irreale. Quell’uomo, comparso dal nulla, era testardo e determinato e lui sapeva che i pazzi son capaci di imprese assurde; quelle che sono negate alle persone normali. Cercava di tenere a bada le sue mille domande, ma soprattutto si rese conto che l’azione non serviva. Erano inermi ed era meglio ammetterlo. Forse gli sarebbe costato i gradi e la divisa, ma questa era la realtà e lui non ci poteva fare niente.
La notizia dell’uomo sospeso nel vuoto si diffuse peggio della peste. La gente, sbalordita e confusa, si affollò sulla piazza per vedere con i propri occhi quello straordinario prodigio . Mamme uscivano di corsa dalle case, portandosi al collo i loro bimbi, persone costrette a letto scendevano in strada addirittura in camicia da notte.
« Sarà di certo un artista da circo caduto in disgrazia! » sibilò qualcuno tra la folla.
« Ma che dite?! » esclamò la contessa Baldini, che si distingueva per la sua stazza e per le sue dita ingioiellate. « Questa è una vicenda perniciosa e arcana, a mio avviso, siamo al cospetto di un fantasma. »
« Ma come farà? » chiese il Sindaco al Curato. « È ormai da stamane che è lì senza che niente possa fargli cambiare idea. Non si sentirà stanco, stremato, privo di forze, non avrà bisogno di bere o mangiare? »
Qualcuno giunse con un megafono.
« Scendete da lì, e finitela con questo teatro! »
« Ma siete pazzo? » lo afferrò il Sindaco per un braccio, asciugandosi il sudore della fronte. « Una cosa così e quello ci casca giù come una pera cotta. »
Alvio Sanfilippi era un uomo alla buona, aveva passato la vita a coltivare i campi e a mungere la sua unica mucca. Era un uomo che camminava sempre con la testa china e ormai anche quando non aveva sacchi sulle spalle, quella postura gli apparteneva, come se un peso più grosso ormai si fosse appropriato di lui. Per tutti era il matto del paese, ma in realtà era soltanto un po’ strambo. Agiva di testa sua, senza mai tener conto della misura e del buon senso. Se un giorno, per esempio, gli andava di girare nudo per i campi quando la calura estiva l’opprimeva, lui non si creava tanti problemi. Tra il pensiero e l’azione c’era sempre troppo poco tempo per trattenerlo, e lui, da sempre, si sentiva libero di far quel che gli pareva. Non aveva mai sottostato a nessuna regola, ma si era convinto a presentarsi vestito di tutto punto in chiesa la domenica alla messa e quando entrava nel borgo. Era rimasto un bambino con l’indole del buono. Non arrecava disturbo alcuno, e semmai erano gli altri che si prendevano l’agio di prenderlo in giro e apostrofarlo in malo modo. Ma lui sembrava avere addosso una tuta di ferro e acciaio. Le offese rimbalzavano sulla sua corazza. Il mondo che si era costruito intorno a lui lo proteggeva della realtà che lo aveva spaventato sin da quand’era ragazzo.
« Signor Sindaco, ma se permette, nessuno di voi ha provato a parlargli come si conviene. Quello è un saltimbanco, un artista vero, e con codesta gente si sa che bisogna trattare con i termini giusti, son lì per diletto per far spettacolo e divertire la gente. Non vedete che il popolo è accorso a vederlo?! »
Il Sindaco ci pensò sopra e si rese conto di come quell’uomo dal cervello come due uova strapazzate avesse ragione. Comunicò al Curato la sua decisione.
« Penso che sia il caso di sgombrare la piazza. Quando si renderà conto di essere rimasto solo, forse se ne tornerà da dove è venuto. »
Zì Prete annuì pesantemente con il capo, nonostante facesse fatica ad accettare che il suo nemico di sempre avesse avuto una buona idea.
« Fate quel che vi dico, mandate via la gente, e che non rimanga neanche l’ombra di un sol uomo » ordinò perentorio il Sindaco ai gendarmi. E quelli ubbidirono.
La piazza piombò dallo stridore delle voci al più muto silenzio. Ma una bambina, in compagnia di un’anziana donna, prima di andare via, lasciò che il filo del suo palloncino gli scivolasse dalle dita. Fu in quell’attimo che l’equilibrista abbandonò la sua cupa indifferenza, afferrò il palloncino a volo, lo legò al suo bilanciere, e con un gesto simile a un inchino sorrise alla bambina e la salutò togliendosi il cappello.
Un istante dopo sparì, come se una nuvola l’avesse inghiottito di colpo. « Non ci posso credere! » esclamò a bocca aperta il Sindaco.
Zì Prete portò le mani al viso come un giunco flesso.
« Dio mio, pensavo a ottant’anni di averne viste tante, e invece mi tocca di stupirmi ancora. »
Alvio Sanfilippi annuì liberando un sorriso. Lui sapeva bene come funzionava la vita. L’equilibrista apparteneva al suo mondo. Ma non aprì bocca. Sapeva fin troppo bene che la realtà, la vera realtà, è appannaggio di quelli che venivano ritenuti gli stolti, e lui era da tempo che aveva imparato a tacere.
Nei giorni che seguirono non si fece che parlare del misterioso equilibrista. Furono in molti che in quella fugace apparizione vollero credere all’apparizione di un fantasma. Ormai si viveva con la paura addosso. Non era di certo stata una visione, visto che fu trovata la corda ancora tesa tra la torre campanaria della cattedrale e il gallo segnavento del Municipio.
Il Commissario della Polizia si interessò al caso per un po’. Poi archiviò la vicenda. Non vi era una spiegazione plausibile che giustificasse un proseguimento delle indagini. L’uomo era sparito nel nulla, non si era trovato alcuna traccia, alcun indizio. E questo era quanto. Zì Prete da quel giorno non era stato più lo stesso. Era caduto in preda a un’agitazione profonda, che non lo faceva più dormire la notte. Si era convinto che le allucinazioni gli fossero tornate di colpo e ormai aveva la sensazione di sentire passi ovunque, nella navata della Cattedrale, come nelle catacombe che contenevano i resti di quei nobili che qui avevano voluto il loro sepolcro. Il suo mondo di ragazzo tornò a essere vivido, reale, ma al momento stesso si era fatto ancora più minaccioso. Un fatto era certo; da quel giorno non era più riuscito a suonare le campane. Gli mancava la forza di alzarsi dal letto, e quella vitalità, che l’aveva attraversato come un fulmine per tutta la vita, era calata lentamente fino a renderlo indifferente a molte faccende del mondo. Da quel giorno Buonvento si ammantò di un’oscura fama. Quella di essere un paese misterioso e molti preferivano stare alla larga da quella terra, chiamata così fino ad allora per le sue giornate ventose. Dopo quell’episodio, si diffuse la leggenda che il vento conducesse con sé le voci dei defunti e che i fantasmi si fossero ridestati dai loro eterni sonni per imperversare nelle coscienze dei peccatori. Continuava così la vita in quel borgo, tra l’indifferenza di alcuni e la paura di molti.
Nel frattempo era cambiata anche la vita di Alvio. Da quando si era reso protagonista di quel fatto strano, non aveva più pace. Da stolto qual era si era trasformato agli occhi della gente in un saggio a cui chiedere pareri e consigli anche su vicende molto personali. Alvio si divertiva a prenderli in giro, sapendo che la forza della persuasione è molto più grande di qualunque altra cosa. Se molti si erano convinti che avesse il potere di prevedere il futuro, in realtà era la loro convinzione a creare le condizioni perché ciò in cui credevano accadesse. La cosa, doveva ammetterlo, lo divertiva molto e mai aveva fatto niente per smentire i suoi supposti poteri. Il Signor Sindaco conservò, al pari di un cimelio, la corda dell’equilibrista nelle segrete stanze del municipio. Ogni tanto la riprendeva tra le mani, saggiandone la consistenza, nel timore che, con il trascorrere del tempo, gli tornasse la paura che quel fatto non fosse stato reale. Soltanto lui, Alvio e Zì Prete, avevano assistito alla scena in cui lo strano ometto era svanito nel nulla. E, paradossalmente, il Curato, da nemico di sempre, era diventato un prezioso alleato con cui condividere un ricordo comune. Andava spesso a trovarlo in Cattedrale, ora a dire la messa non era più lui, ma un giovane prete che aveva preso il suo posto da quando il suo cuore si era come ammalato. Lo trovava nelle sue segrete stanze a rimuginare sulla vecchiaia e sul fatto che, per quanto avesse pregato una vita intera, ammetteva di non aver capito il senso di molte cose. Non si seppe più alcuna notizia di quella bambina che, con quel gesto unico, era riuscita a catturare l’attenzione dell’equilibrista. Nessuno sapeva chi fosse. Ma nessuna la cercò mai.
Il Sindaco e il prete si incontravano spesso, e parlavano molto, e su una cosa si trovarono sempre d’accordo. Quell’uomo con la sua presenza aveva capovolto le sorti di quel piccolo mondo. Fu in uno di quegli incontri che Zì Prete si liberò degli orpelli del suo ruolo, e iniziò a parlare come non aveva fatto mai. Era molto affaticato, scarno in volto, non gli ci volle molto al Sindaco per capire perché mai l’avesse chiamato di primo mattino.
« Forse non sapremo mai perché quell’uomo giunse e se era fatto di carne e di sangue, ma una cosa è certa, amico mio, per un giorno ci ha obbligato a guardare nella stessa direzione, e ora siamo qui, come fossimo due vecchi amici. La nostra irragionevolezza di un tempo, ciò che ci rendeva ostili, è svanita come la bruma mattutina. Non so niente della vita, se non che la fede mi ha aiutato tante volte, ma so pure che la realtà non è mai quella che ci appare davvero, e che la verità è avvolta in un lenzuolo di ipocrisie, negate alla vista di noi umani, perché a volte tutto è fin troppo semplice mentre noi lo rendiamo terribilmente complicato. Ora lo so che quell’uomo non era capitato qui per caso. »
Spirò l’ultimo respiro tra le sue braccia. Il Sindaco si sentì commosso e quelle parole lo colpirono profondamente. La sua fede lo illuminò di colpo e comprese quello che era stato negato alla sua mente da sempre. Non era la ragione la vera chiave del mondo, ma la capacità di sognare e inventarsi la vita, camminare sul filo in perenne equilibrio tra la realtà e il sogno. Chi fosse stato quell’uomo non era importante saperlo. Ma con quel suo gesto apparentemente strambo e folle, era riuscito a far capire molte cose più di quante ne aveva apprese nei settant’anni della sua vita. Quel giorno il Sindaco tornò a casa e seppe. Seppe che esisteva un mondo che aveva dimenticato da tempo. E a quel mondo si rivolse quando riprese i libri che leggeva quando era piccino, consapevole che c’era molta verità da apprendere dal mondo dei bambini.
 
I bimbi della classe quinta C erano tutti attenti con gli occhi sgranati per la curiosità. La loro maestra sapeva sempre come fare a incuriosirli. E anche quel giorno aveva promesso loro una storia, una di quelle storie fantastiche capaci di farli sognare. « Vi racconterò la storia dell’equilibrista. »
« Che bello » esclamarono in coro.
La Signora Maestra guardava sott’occhi i suoi alunni, sorridendo per come fosse riuscita ancora una volta a catturare il loro innocente entusiasmo.
« Un equilibrista arrivò in questo paese all’alba del giorno Ognissanti e si esibì fino al tramonto su una corda tesa tra la Cattedrale e il Municipio. Il Sindaco e il Parroco passarono una giornata infernale, temendo che cadesse nel vuoto. »
I bambini assunsero un’espressione pensierosa.
« E accadde? » chiese una bimba dagli occhi come due gocce di mare, con le ciglia aggrottate.
La maestra le sorrise.
« Questa è una storia a lieto fine, bambini. Ma ora ascoltatemi. Le campane di Buonvento quel giorno non suonarono come tutte le mattine. Le provarono di tutti i colori per riuscire a farlo desistere dalla sua impresa. Ci provò prima l’anziano prete, poi il Capo delle Guardie, ma l’equilibrista era un tipo ostinato. E passeggiò su quel filo sospeso per tutto il giorno. Soltanto al tramonto accadde qualcosa capace di cambiare le sue sorti. »
« E cosa accadde? » domandò un bimbo portandosi il dito sulla bocca, come se tentasse così di celare la sua ansia.
« Accadde che una bambina liberò il suo palloncino regalandolo al cielo. A quel gesto gentile, l’equilibrista fece un inchino, la ringraziò e lo prese al volo. Poi sparì confondendosi tra le nuvole. »
I bambini rimasero a bocca aperta.
« Ma è una storia bellissima! » esclamò il più timido di tutti.
La storia dell’equilibrista piaceva molto ai bambini di Buonvento. La raccontavano le mamme e le nonne, ma nessuno sapeva raccontarla tanto bene come la Signora Maestra. Quel giorno prima che suonasse la campanella che segnava la fine delle lezioni, la maestra regalò a ognuno di loro un palloncino di colore diverso, perché portassero il ricordo di quella storia che tanto li aveva affascinati.
« Mi raccomando, esprimete un desiderio, e poi lasciate che arrivi fino al cielo » disse accomiatandosi da loro.
Nel ritornare a casa, la maestra Giada Livolsi fu assalita dalle emozioni. Come sempre le capitava quando pensava a suo padre e a quell’impresa assurda, ma che per lei era null’altro che un gesto d’amore, con cui era riuscito a cambiare le sorti del borgo e quelli della sua vita. Nessuno aveva mai saputo la verità, e lei non aveva fatto niente per farla conoscere. A volte la gente ha bisogno dei miti per sopravvivere a se stessa, e lei aveva nutrito quella leggenda dell’equilibrista scomparso nel nulla. Ma le cose non era andate davvero così. Suo padre aveva lavorato a lungo nel circo, prima di dover partire per il fronte. La guerra lo aveva tenuto lontano da casa per così tanti anni che quando tornò a stento si ricordava di lui. Era un’altra persona, era cambiato molto, gli anni di prigionia lo avevano reso il fantasma di se stesso. In paese nessuno lo aveva riconosciuto e lui non aveva fatto niente perché accadesse. Si vergognava di quel che era diventato, ed era diventato indifferente a molte cose. Ma se c’era una cosa a cui neanche per un attimo aveva rinunciato era riconquistare l’amore di sua figlia che per molto tempo si era creduta abbandonata. Fu così che un giorno stringendola amorevolmente tra le braccia, le disse che era pronto a dare la vita per lei, pur di strapparle un sorriso. Era una bambina molto triste al tempo. La tubercolosi si era portata via la madre e il padre, partito poi per la guerra, l’aveva affidata alle cure della nonna. Ricordava quei giorni di solitudine e di attesa, e di come tante volte avesse sentito il suo cuore avvolto, stretto in una morsa, tanto che le sembrava di non poter respirare. Il giorno di Ognissanti accadde qualcosa di inusuale. Le campane della cattedrale non avevano suonato come al solito. La nonna attese il pomeriggio, e poi le disse che era bene uscire e rendersi conto di persona di cosa stesse accadendo. Quando giunsero sulla piazza riconobbe suo padre sospeso su una corda, e fu in quell’attimo che comprese le parole di qualche giorno prima. Voleva chiamarlo, gridare il suo nome, ma la nonna sembrava molto spaventata e le impedì di muoversi. L’unica cosa che le riuscì a fare, fu lanciare in cielo il suo palloncino nella speranza che suo padre si accorgesse di lei.
Il padre aveva fatto il numero più importante della sua vita con un effetto speciale sul finale, per mettersi al riparo dalla prigionia che gli sarebbe toccata per aver turbato la quiete sociale. L’arte dei fuochi d’artificio l’aveva imparata da un cinese conosciuto in guerra. Così aveva lasciato esplodere una polverina che a contatto con l’aria aveva oscurato per qualche minuto il cielo. Tanto gli era bastato per ritornane il quel segreto anfratto della cattedrale dove ad attenderlo c’era una scala. Era un posto che nessuno conosceva, e dove si era rifugiato tante volte quando da ragazzo il mondo degli adulti gli sembrava troppo pesante da sopportare. Alvio Sanfilippi era stato il suo amico d’infanzia e con lui aveva condiviso pensieri e fughe dal mondo. E in quella circostanza era diventato suo complice. Non avevano mai rivelato il loro segreto. Era un modo per tenere fede al loro patto di amicizia, per rinnovarlo nel tempo, folli come lo erano stati da ragazzi quando avevano inseguito i loro sogni e non avevano ancora addosso le ferite della guerra. Quel giorno la signorina Giada Livolsi, maestra della scuola elementare, tornò a casa, aprì l’armadio e prese tra le mani la casacca lisa e la tuba del padre. Si ritrovò a pensare di come la forza dell’amore fosse più grande di ogni altra cosa. Era questo che cercava di trasmettere ai suoi giovani alunni ogni volta che poteva. Era questo che il padre con quell’impresa le aveva insegnato. Guardò fuori la finestra e, per la prima volta in tanti anni, ripensò a quella strana vicenda che l’aveva vista protago-
nista.
Non fece a tempo a inseguire i ricordi che la sua attenzione fu catturata da qualcosa di inusuale. Uno, due, poi dieci, venti palloncini sulla spinta del vento volteggiavano sulla cuspide della Cattedrale, per poi sparire nelle nuvole.
Il suo cuore fu assalito da una gioia grande e infinita.
« L’amore reinventa se stesso continuamente e per infinite volte. Nulla accade per caso » sussurrò a mezza voce avvinta dall’emozione. « L’Amore, anche quando ci appare lontano come il lieve baluginare di una lanterna in un bosco, in realtà è sempre lì, unico e privilegiato abitante del nostro cuore e testimone delle nostre dolorose infanzie dimenticate. » Rimase ferma ad ascoltare il vento picchiettare sui vetri delle finestre. Quel vento che tanto faceva paura agli abitanti di Buonvento e che invece era soltanto desideroso di rivelare i suoi infiniti segreti a chi era pronto ad ascoltarli.