di Francesca Ramacciotti
Anno del Signore 1277
La cattedrale è la mia casa, da sempre.
Mi hanno trovato ai piedi di un altare laterale, avvolto in poveri stracci, dieci anni fa, la sera stessa della messa solenne celebrata dal Vescovo per la sua consacrazione. Fra’ Michele pensava fossi morto, perché, quando mi raccolse, dopo aver prima srotolato il fagotto di cenci con il piede per vedere cosa contenesse, non avevo emesso neppure un lamento. Mi ero limitato a racchiudere il suo indice nella manina e a suggerlo.
Fra’ Michele mi aveva portato al convento e nutrito con il latte di capra. Non ero il primo neonato abbandonato in una chiesa, era accaduto anche nella cattedrale stessa, durante i tanti decenni della sua costruzione. I frati non avevano mai tenuto i trovatelli, si limitavano a procurar loro una balia e a raccomandarli alla carità di qualche persona di buon cuore, che li allevava in cambio dell’indulgenza divina. Ma tre circostanze giocarono a mio favore: ero stato trovato il giorno della consacrazione della cattedrale, e la cosa fu vista come un segno del favore divino; fra’ Michele mi si era affezionato in modo subitaneo quanto inspiegabile; inoltre non piangevo mai. Almeno, questo è quello che i frati raccontano. Non ho mai versato una lacrima, neppure nei primi mesi di vita, non ho mai pianto né di fame, né di noia, né di dolore. Non davo nessun tipo di disturbo e quindi decisero di allevarmi nel convento. Se avessi mantenuto la buona indole che promettevo sarei diventato un frate e avrei ricambiato le cure ricevute dedicando la mia vita al Signore.
L’unica discussione che i monaci ebbero mai a causa mia fu riguardo al nome da darmi. Alcuni volevano chiamarmi Teodoro, che significa dono di Dio, altri Giocondo, per propiziare la conservazione del mio buon carattere, alla fine venne scelto Ruggero, in onore del santo che, quando era vescovo, ospitò e protesse viandanti e pellegrini, vedove e fanciulli.
Il mio primo e unico abito è stato lo stesso saio dei frati e il primo ricordo è la voce della cattedrale che mi parla. Sì, la cattedrale ha una voce, dolce e severa insieme come quella di una madre, non è silenziosa e austera come tutti credono, quando seguono lo svettare delle suo colonne con sguardo smarrito, di fronte a un’opera dell’uomo troppo sublime per non essere che l’espressione della volontà di Dio. Il fruscio dei miei sandali sul pavimento di pietra, la carezza della mano sui marmi delle colonne, il vento che s’insinua fra le finestre così alte da avere per tenda il cielo mi salutano ogni mattina, mi consolano se sono triste, cantano la sera quando non riesco ad addormentarmi.
Forse per questo non ho mai pianto, nemmeno quando gli altri bambini mi prendono in giro e mi urlano bastardo e figlio di nessuno. Io non sono orfano, io sono figlio della cattedrale, dei suoi archi e delle sua navate, dei suoi echi e dei suoi altari, dei suoi mosaici e delle sue reliquie. I frati me ne hanno raccontato la storia, la sua costruzione dura da secoli e forse continuerà ancora, per renderla sempre più grande e bella, in lode al Signore.
« Ruggero sa la storia di ogni pietra, di ogni scultura, di ogni dipinto » dice a tutti i visitatori illustri il priore Bernardo. « Ha ascoltato chiunque avesse aneddoti o leggende da raccontare e, dato che ha una grande memoria, ne rammenta ogni dettaglio. »
Così, col tempo, sono diventato “il figlio della cattedrale”. Insieme alla Sacra Reliquia, una scheggia di legno della Croce portata dalla Terrasanta, sono una sorta d’attrazione: una volta è venuto persino un Principe, ha allontanato le sue guardie con un gesto e mi ha seguito per oltre un’ora dentro la chiesa, un po’ ascoltandomi, un po’ facendo domande.
« È stato davvero un dono di Dio, questo bambino » ha detto al priore, prima di andarsene. Poi ha tirato fuori da sotto il mantello due sacchetti rigonfi di monete.
« Una è per i poveri del priorato. L’altra è per finanziare gli studi del ragazzo. La sua mente è svelta come la sua lingua, non merita di rimanere un frate qualunque, un giorno potrebbe anche succedervi nel ruolo di priore. »
Mentre padre Bernardo si inchinava e ringraziava, le mani giunte come se pregasse, il Principe mi ha fatto una rapida carezza.
L’episodio mi ha reso ancora più famoso e ormai far da guida è diventato il mio compito, perlomeno tre volte al giorno accolgo gruppi di visitatori, raccontando le storie e le leggende sulla chiesa.
Una sera, dopo il Vespro, fra’ Michele si affaccia alla soglia della mia cella.
« Ruggero, il priore ci ha informati che un celebre artista arriverà domani per visitare la cattedrale e per conoscerti. »
« Anche lui vuole ascoltare le mie storie? » Ho i piedi gonfi, mi dolgono, a volte penso che se sommassi tutti i perimetri della cattedrale che ho percorso, sarei potuto arrivare a piedi in Terrasanta e tornare a casa. Ma non mi lamento, perché questa è la volontà di Dio.
« Stai peccando nell’orgoglio. La Cattedrale e la sua Sacra Reliquia sono ben più importanti delle tue leggende. » Fra’ Michele cerca di mantenere il cipiglio ma io gli sorrido e la sua fronte si spiana.
« Comunque ha detto che renderà omaggio alla chiesa attraverso di te. »
« Cosa vuol dire, Fra’ Michele? »
Il buon frate si gratta la tonsura, sporgendo il labbro. « Per la verità non lo so. Ti ho ripetuto le parole del priore. » Aggrotta di nuovo le sopracciglia, con finta severità. « Lo scopriremo domani. E ora fila a dormire! »
« Sì, fra’ Michele. »
Mi infilo nel letto, tirandomi la coperta fin sotto il mento ma non riesco ad addormentarmi, ripenso alle sibilline parole del priore. Quale mai sarà l’omaggio collegato a me? L’umidità della notte si sfilaccia nei refoli che perforano le guglie della cattedrale, prima di sussurrarmi alle orecchie la loro nenia materna per accompagnarmi nel sonno.
Agosto 2011
La prima cosa a colpirlo fu l’odore, un misto di muffa, pietra gelida e incenso.
Nei luoghi di preghiera della sua gente c’era un sentore diverso, più umano, di corpi sudati, di polvere, della lana consunta dei tappeti. Nonostante avesse le scarpe, gli parve di sentire sotto i piedi il freddo del pavimento di pietra, come se camminasse su un sepolcro.
Karim storse un angolo della bocca in un aborto di sorriso. Quel luogo era un sepolcro. Il suo.
Non pensò subito alle altre persone per cui, fra due giorni, la cattedrale sarebbe diventata davvero una tomba, erano le tre del pomeriggio e la chiesa era vuota. Aveva scelto di proposito quell’ora per visitare il luogo del suo martirio, quando pochi coraggiosi sfidavano il sole di agosto che si accaniva contro l’asfalto e gli edifici, avvolti da un’aria rovente e rarefatta sotto la quale sembravano tremolare, come se stessero per liquefarsi. Ma nella Cattedrale faceva quasi freddo, con la spinta verso l’alto delle sue volte e delle sue colonne sembrava squarciare il calore esterno, creando una realtà a parte, fuori dal tempo e dallo spazio.
Karim aveva letto la storia della chiesa, sapeva che avevano cominciato a costruirla quasi mille anni prima, ne era rimasto impressionato, da quando era consapevole che gliene restava pochissimo il tempo era diventato un concetto importante, lo assaporava, lo centellinava, come fosse un cibo il cui buon sapore si dà per scontato fino a quando il medico ci impone di non mangiarlo più.
« Un martire non ha bisogno di emozioni, non ha bisogno di piaceri in questa vita. » Così predicava il suo Maestro, con la passione che inumidiva di saliva le labbra sottili, scavava le guance celate dalla barba brizzolata e usciva a fiotti dai suoi occhi. Erano così scuri che l’iride si confondeva con la pupilla ma brillavano, accesi da una fede che sembrava divorare dall’interno il suo corpo scarno. « Godrà della sua ricompensa in Paradiso, venerato in terra come un eroe. » Karim ci si perdeva, dentro quegli occhi scuri, con una sensazione quasi piacevole. Come può essere quasi piacevole lasciarsi travolgere da onde nere, ormai stremati dopo un naufragio.
“Anche loro hanno un paradiso” pensò, guardando uno dei tanti dipinti appesi sugli altari laterali che correvano lungo tutta la navata,
La Cattedrale era la roccaforte del nemico, era la casa principale del loro dio, così gli aveva spiegato il Maestro, per quello l’attentato avrebbe avuto un impatto devastante, specie nel giorno in cui il Vescovo avrebbe celebrato la festività religiosa più attesa dell’anno.
Continuò a camminare, uomini, donne e bambini sembravano guardarlo sfilare dai dipinti, con i volti quasi sempre addolorati, come se sapessero il motivo per cui era lì.
Lui invece non lo sapeva con certezza. Non desiderava morire per fanatismo e nemmeno perché il suo martirio avrebbe procurato denaro a sua madre e ai suoi fratelli. Forse cercava la morte perché aveva l’accoglienza discreta di una notte senza stelle, di un mare buio ma più caldo di quando fa giorno. Perché offriva un viaggio senza sbalzi, confortante, non devastava come la vita col suo alternarsi di emozioni. Era la pace delle palpebre che si chiudevano la sera sugli occhi stanchi al confronto con la ferita del mattino, quando si riaprivano sul dolore. Ed era fedele. L’unica signora che una volta scelta non avrebbe più potuto lasciare, né mai l’avrebbe lasciato. Non come Ranya, che dopo le invitanti promesse dei suoi sguardi bugiardi lo aveva dimenticato e aveva sposato un ricco commerciante di spezie.
Si fermò davanti a un quadro, dove la testa mozzata di un uomo barbuto lo fissava con occhi lucidi e ammonitori, come fosse dotata di vita propria. Rabbrividì ma non per la brutalità della scena in un luogo di pace e di preghiera ma perché l’espressione allucinata era la stessa del suo Maestro.
« È spaventoso quel quadro, vero? »
Karim trasalì e portò la mano alla tasca destra, dove di solito teneva il coltello. Lo aveva ereditato a dieci anni dal padre, morto in una rappresaglia. Quando il pericolo ti viveva accanto, come un familiare o un amico, portare un’arma diventava un’abitudine, un oggetto anonimo al pari di una cintura o di un orologio. Ma il Maestro gli aveva proibito di andare in giro armato, non doveva correre il rischio di essere arrestato.
Il suo interlocutore era solo un ragazzino, dieci anni al massimo, con i riccioli e gli occhi bruni e dolci, indossava una tunica lunga, simile a quella di alcuni personaggi raffigurati nei dipinti.
Karim deglutì e storse un angolo della bocca in un sorriso.
« Già. » Prese dalla tasca un fazzoletto e fece finta di soffiarsi il naso ma era evidente che al ragazzo non era nemmeno passato per la testa che lui potesse tirare fuori un coltello.
« È il martirio di san Giovanni Battista. » Il bambino indicò il quadro con l’indice. « Vedi, quello è il re Erode e la donna bella ma con l’aria cattiva è Salomè. Era innamorata del santo ma lui era devoto solo a Dio, allora lei ha danzato per il re e in cambio gli ha chiesto la sua testa. »
Guardò Karim con un sorriso soddisfatto, come se avesse raccontato una favola invece che una storia così truce.
« Chi te l’ha raccontata? Non è una storia da bambini. E perché sei vestito così? »
Il ragazzino spalancò gli occhi. « Sono un chierichetto! Aiuto a servire la Messa! E la storia me l’ha raccontata il parroco al catechismo. » Lo guardò con curiosità, aggrottando la fronte. « Tu non l’hai fatto catechismo? »
Gli venne quasi da ridere, tanti suoi compagni lo invidiavano perché era stato scelto per il più devastante attentato progettato negli ultimi dieci anni e bastava una domanda di un bambino per metterlo in difficoltà. Decise che la cosa migliore era dire la verità.
« No, non ho fatto catechismo. Sono straniero. » Non aveva spiegato granché ma aveva un fratello di quell’età e sapeva che i bambini non necessitavano di spiegazioni dettagliate, avevano la capacità di andare oltre le parole, di completarle con i significati che mancavano.
« E da dove vieni? È bello il tuo paese? »
« Sì, è molto bello, è al di là del mare. Le case sono basse e bianche, con le porte e le finestre tinte d’azzurro. Fa davvero caldo e non c’è tanta vegetazione ma quella che c’è è molto profumata. »
La voce gli si incrinò, perché quella che stava descrivendo era la strada dove era la sua casa, perché dietro la porta azzurra intagliata di trafori come un merletto c’era sua madre vestita di nero, in un lutto perenne, e i suoi fratellini che tiravano i sassi contro il muro scalcinato del cortile interno.
« Sei triste, vero? »
Qualcosa di freddo e morbido si insinuò nella mano di Karim, il giovane trasalì ma strinse la manina del bambino, poi si irrigidì e la spinse via, le emozioni lo indebolivano.
« No, non sono triste. Non tanto. » Si irritò con se stesso per non riuscire a mentire del tutto a quel ragazzino.
« Io mi chiamo Edoardo, tu come ti chiami? »
Ci pensò un attimo, poi alzò le spalle. Il suo era un nome molto comune.
« Karim. »
« È un bel nome. » Edoardo sorrideva, non sembrava infastidito dalla sua laconicità. « Vuoi visitare con me la cattedrale? Se vuoi ti faccio vedere anche la sacrestia, tanto non c’è nessuno, fa troppo caldo, la prossima messa è alle sei. »
Stavolta la domanda del bambino gli riuscì gradita. Per quanto la chiesa fosse deserta non aveva ritenuto prudente aggirarsi nella navata centrale, se fosse arrivato qualcuno avrebbe potuto chiedersi cosa stesse facendo, invece insieme a un chierichetto nessuno avrebbe sospettato di lui.
« Volentieri, volevo proprio vedere da vicino il crocifisso. » Doveva farsi esplodere di fronte all’altare, mentre avrebbe finto di fare la fila in attesa dell’Eucarestia.
Edoardo rimise la mano nella sua e stavolta Karim non la respinse, giustificando l’emozione che il gesto gli suscitava con l’esigenza di ispezionare la Cattedrale in tutta sicurezza.
« Cos’è quella cosa ricoperta con un lenzuolo dietro l’altare? Una statua? » Aveva notato con una certa inquietudine l’oggetto sotto il telo bianco, quando era entrato. Il maestro gli aveva dato tutte le informazioni necessarie, comprese una mappa dettagliata della chiesa e le fasi dei cerimoniali in programma per il giorno dell’attentato ma non aveva fatto cenno a quel particolare.
« È una sorpresa, ho sentito dire dal parroco che è una statua che risale a molti secoli fa, è stata ritrovata nella cripta sotterranea e restaurata e verrà scoperta dal vescovo proprio dopodomani durante la messa. »
Edoardo guardò il giovane con gli occhi pieni di fierezza per aver rivelato una circostanza così singolare. Karim sorrise, un sorriso vero, come non ne faceva da tempo. L’espressione orgogliosa di Edoardo era la stessa dei suo fratellini quando tornavano con i fichi rubati dal giardino del vicino. Carezzò i capelli del bambino e per un attimo gli sembrò di carezzare i riccioli dei suoi fratelli, le colonne che sostenevano le volte della cattedrale si dissolsero, sostituite dagli alberi stentati e storti del cortile puntati contro il cielo del suo paese, di un azzurro così acceso che quasi feriva gli occhi.
« Non venire alla messa, dopodomani. » disse, d’impulso. Poi si morse le labbra, quasi a sangue. Il Maestro aveva notato e rimproverato questi suoi sbalzi emotivi, a volte aveva il sospetto di essere stato scelto per un attentato così importante proprio per puntellare i suoi convincimenti poco radicati. E se ora il ragazzo gli avesse chiesto il perché, cosa gli avrebbe risposto?
Edoardo sospirò. Guardò nel vuoto, come se non lo avesse sentito, come se vedesse cose note a lui solo.
« Avrei tanto voluto servire la messa fatta dal Vescovo. Ma purtroppo non potrò esserci. »
Karim ebbe la tentazione di chiedergli il motivo poi pensò che non doveva abusare della sua buona fortuna, aveva già rischiato abbastanza di mettersi nei guai.
« Mi dispiace. » mentì. Dette ancora un’occhiata intorno, poi si sciolse con delicatezza dalla stretta del bambino. « Ciao, Edoardo. »
« Ciao. Tornerai a trovarmi? »
Karim lo carezzò ancora, scuotendo il capo.
« Torni al tuo paese, allora? Ci sono le cattedrali nel tuo paese? Sai che si chiamano anche duomo, cioè casa di Dio? »
Karim strinse le labbra e guardò in alto. L’aria sembrava muoversi, rimbalzando fra le arcate e le finestre slanciate e provocava un leggero sibilo, quasi un richiamo. Si avvertiva una presenza, in quella cattedrale. Nonostante l’odore differente non era poi così diversa dai luoghi di culto della sua religione. Scacciò quel pensiero, era più pericoloso dei poliziotti.
« Sì, Edoardo, anche noi abbiamo degli edifici dove abita Dio. E sì, torno da lui, in un certo senso. »
« Allora non ha importanza se sei straniero e non sai cosa sia un chierichetto, se però tutti e due abbiamo un Dio. »
« È proprio quello che stavo pensando anch’io. Ma tu l’hai detto molto meglio. »
« Se cambi idea, mi troverai qua. Ci sono sempre. »
« L’importante è che tu non ci sia dopodomani » pensò Karim, nell’avviarsi verso l’uscita.
Si voltò indietro un’ultima volta sulla soglia, prima di essere stordito dall’aria rovente. Vide la sagoma del bambino agitare la mano e poi fondersi con la penombra della cattedrale.
La mattina della festa la chiesa era piena, non sembrava più quel luogo fuori dal tempo dove a Karim era quasi sembrato di udire la voce di un Dio non poi così diverso dal suo. Portava la morte addosso mentre la vita sembrava vantarsi della sua forza nel suono dell’organo, nell’odore dei fiori recisi, nella sfacciataggine dell’oro e del porpora sui vestiti dei prelati. Il trionfo dei sensi lo infastidiva, più dell’esplosivo che gli pesava sul petto e soffocava il battito del suo cuore, come se fosse già morto.
« Non voglio ascoltare, non voglio annusare, non voglio vedere. » In quegli ultimi due giorni aveva bevuto solo acqua, niente ultimo pasto, non voleva morire con in bocca un aroma per cui aveva provato piacere, non aveva voluto cedere alle estreme tentazioni offerte da una vita che provava a non lasciarlo andare.
Stava seduto in fondo alla chiesa, cercando di mantenere il cipiglio di pietra, gli occhi fissi verso il terreno. Aveva alzato lo sguardo solo quando era stato tolto il lenzuolo dalla statua, il vescovo ne aveva spiegato la storia ma Karim non l’aveva ascoltata, aveva capito solo che era una raffigurazione del Cristo giovinetto.
« Scusi. » Tirò indietro le gambe per far passare due donne sedute sulla sua panca e si assicurò che i lembi dell’ampia giacca di lino, sotto cui era nascosto l’esplosivo fissato al torace, fossero ben accostati. Chiuse gli occhi, sospirò e si alzò a sua volta, per mettersi in una delle tre file di persone che andavano a ricevere l’Eucarestia.
Continuava a tenere gli occhi bassi, si lasciava portare dallo scorrere della fila stessa, strascicando i piedi. E fu allora che udì una voce che lo chiamava. Per un attimo pensò fosse uno dei canti intonati dai fedeli, ma non era una canto e forse non era nemmeno una voce, era un sussurro, un sibilo, un’eco. Non pronunciava parole intellegibili ma ne comprendeva il significato, era come ascoltare una lingua straniera e rendersi conto di averla sempre conosciuta senza saperlo.
“Torna a casa, Karim. La tua casa dove il sole batte sulla porta azzurra. Anche voi avete gli edifici dove abita Dio.”
Karim avrebbe voluto prendersi la testa fra le mani, tapparsi le orecchie, spingersi fuori quelle parole dalla mente. Ma non poteva attirare l’attenzione.
“È solo paura” si disse. “Allucinazioni provocate dalla paura.”
Il Maestro gli aveva insegnato come reagire a eventuali attacchi di panico, riuscì a eseguire le tecniche di respirazione e concentrazione. Quando la voce smise di parlargli era a un paio di metri dal Vescovo che porgeva l’ostia, affiancato da due sacerdoti.
Karim infilò la mano sotto la giacca dove era il congegno per l’accensione e alzò gli occhi.
Si irrigidì. Cosa ci faceva Edoardo dietro al vescovo? E come aveva fatto a scambiarlo per una statua? Era lui, lo fissava con gli occhi così simili a quelli dei suoi fratelli, i riccioli che ricadevano sulla fronte pallida. Tese la mano, come per allontanarlo.
« Cos’ha, signore, si sente male? » sussurrò una signora anziana, nella fila accanto alla sua.
« Quel bambino… » deglutì, non riusciva a parlare.
La signora seguì la direzione del suo dito.
« Ma non è un bambino, è una statua. Quella che hanno ritrovato nella cripta. »
Karim scosse la testa, cercando di riprendere il controllo, ma sentì di nuovo quella voce, la capiva, anche se non era fatta di parole.
“Non ha importanza se sei straniero, visto che tutti e due abbiamo un Dio.”
Karim rimase immobile, la gente che lo guardava, senza paura, solo stupita.
“Mi troverai sempre qui, se vorrai. Io sono il custode della cattedrale.”
Karim si girò e corse via. Non sapeva dove sarebbe andato. Forse nella sala dove il maestro stava istruendo altri martiri, per impedirgli di uccidere di nuovo. O forse in un campo, per distruggere solo se stesso.
“Torni al tuo paese? Ci sono le cattedrali nel tuo paese? Che farai?”
Karim si fermò, guardò verso il mare e rispose, alla voce e a se stesso.
« Mi strapperò di dosso questo fagotto di odio e proverò a vivere ancora. »
Anno del Signore 1277
« Mastro Norberto è un grande scultore, ha scolpito immagini sacre in tutte le grandi cattedrali d’Europa. »
La voce del Priore è insolitamente animata. « Ha sentito parlare di Ruggero, ha visitato con lui la nostra chiesa ed è rimasto talmente soddisfatto da voler scolpire una statua e donarcela. Una statua di Cristo bambino, Ruggero farà da modello. »
I confratelli arrotondano le bocche in un comune “oh” di stupore e mi guardano. Io sto per alzare le spalle, imbarazzato, poi mi trattengo, è un gesto volgare, fra’ Michele non vuole che lo faccia. In fondo ho solo eseguito il mio compito di tutti i giorni, ho portato questo straniero alto e biondo, con dei grandi baffi, a vedere la Cattedrale, raccontando le mie leggende. Mi fissava in silenzio, durante la visita, tormentandosi i baffi. Non mi ha fatto neppure una domanda, eppure mi ha ispirato più soggezione del Principe. Però quando ho finito il mio racconto mi ha parlato.
« Come ti chiami, ragazzo? » ha chiesto, con un forte accento straniero.
« Mi hanno chiamato Ruggero. »
« Ruggero… è un nome germanico, originario della mia terra. Significa lancia gloriosa. Lo sapevi? »
« No. So solo che è il nome di un Santo benefattore. E il tuo nome che significa? »
« Uomo illustre del nord. »
Ho annuito, mi piaceva questa cosa del significato dei nomi.
« Però il mio nome non è adatto a me. Io non ho una lancia, non sono un guerriero. »
« E che nome ti piacerebbe? »
Mi sono tirato il labbro con la mano, in realtà non lo sapevo, poi la voce della cattedrale mi ha suggerito.
« Un nome che significhi custode. Io custodisco la storia della chiesa, sono nato qui, sono il suo guardiano. »ho risposto.
Norberto si è tormentato i baffi solo pochi secondi.
« Nella mia lingua Edoardo significa protettore. Protettore del patrimonio. Il tuo patrimonio è la cattedrale. Ti piace? »
« Edoardo… » L’ho ripetuto più volte, lentamente, come si mastica con prudenza un cibo mai assaggiato per capire se ha un buon sapore. Poi ho annuito. « Sì, mi piace. Ma i frati non mi permetterebbero di cambiarmi il nome. »
« Beh, anche Ruggero è un bel nome. Vedrai, ti piacerà posare per me. »
Mi ha porto la mano, gli ho teso la mia, che è sparita nella sua stretta vigorosa.
Per me, abituato a percorrere il perimetro della cattedrale di continuo, è stato un bel cambiamento passare ore e ore immobile, mentre Norberto scolpiva. Inizialmente mi annoiavo ma quando il blocco di pietra ha cominciato ad assumere il mio aspetto, come se vi fosse nascosto dentro un bambino uguale a me, niente avrebbe potuto farmi muovere da lì. L’ho chiamato Edoardo, il nome che non avevo potuto scegliere per me stesso. Ora che la statua è terminata il priore ha proclamato tre giorni di festa, si terrà anche il mercato, arriverà gente da tutti i paesi vicini.
Prima di andare a dormire vado di nascosto a salutare Edoardo, è alto quanto me, i suoi riccioli sembrano morbidi come i miei, ogni volta che li carezzo mi stupisco che siano di pietra. Non ho sonno, sarà l’eccitazione per la festa di domani o forse perché stasera la voce della cattedrale non mi ha ancora dato la buonanotte.
Non sempre si fanno le cose per un motivo, ho voglia di salire su una delle guglie più alte, appena sotto la cella campanaria. Si vede il mondo intero, di lassù. Il mare, le colline, i campi a perdita d’occhio. È lassù che il vento gioca con gli archi e i trafori e penetra nelle fessure della pietra prestando la sua voce alla chiesa. Mi è proibito andarci, è troppo pericoloso, le scale sono strette e ripide, ci sono stato una volta sola con fra’ Michele.
Fa freddo in cima alla guglia, il suono del vento è aspro, quasi minaccioso, porta l’odore del mare, è mosso, il buio è rotto dal bianco spumoso delle onde. E da qualcos’altro. Vele, le vele dei pirati saraceni, tre, no, quattro, cinque navi, due già a riva, spariscono e riappaiono al chiarore delle torce degli uomini che sbarcano. Non c’è tempo per urlare, non c’è tempo per riflettere. Corro su per la spirale della scala che porta alle campane, inciampo, batto il ginocchio, mi rialzo ansimando. Non ho mai visto le campane da vicino, sono immense, fanno quasi più paura dei saraceni, scaccio il pensiero che non ce la farò a sollevarle, mi aggrappo alla corda con tutto il mio peso, per un lungo, angoscioso attimo tutto rimane uguale poi un rumore lancinante mi sfonda le orecchie, stanno suonando e io sono sospeso per aria, quasi volo aggrappato alla fune che mi scaraventa qua e là, sono tutt’uno con la corda e le campane e il tonfo sordo del mio cuore. La presa della mano destra mi sfugge, mentre mi chiedo dove posso attaccarmi sto già cadendo, il rumore della mia testa sul pavimento mi sembra più forte del suono delle campane.
« Sta aprendo gli occhi. »La voce è quella del priore. Sollevo le palpebre a fatica, neanche fossero di pietra come quelle di Edoardo. La mia mano stringe qualcosa, è l’indice di fra’ Michele, come quando mi trovò, lui mi sorride e piange.
« I pirati! » grido, cercando di alzarmi. Padre Bernardo mi trattiene giù, con delicatezza.
« Stai tranquillo. Le campane ci hanno svegliato, c’erano in città tante persone dei paesi vicini venute per il mercato, siamo corsi tutti insieme alla spiaggia e li abbiamo ricacciati in mare. Per merito tuo. »
« Anche se ti chiami Ruggero, sei tu il custode della cattedrale. »
Intuisco, più che vederla, l’alta figura di Norberto, vorrei sorridere ma sono troppo stanco.
« Sto morendo, vero? » Fra’ Michele scoppia in singhiozzi, lascio il suo indice e carezzo le sue lacrime.
« Non piangesti quando ti ho trovato, non piangi nemmeno adesso che te ne vai. » Padre Bernardo gli batte la mano sulla spalla e il buon frate si asciuga il naso con la manica del saio.
« Non me ne vado, fra’ Michele. » Prendo un lungo respiro, spero che mi basti per quello che devo ancora dire.
« Io sarò sempre qui, in ogni pietra che ho toccato, in ogni storia che ho raccontato, in ogni eco che risuonerà fra le volte. Io sono il custode della cattedrale e la proteggerò sempre. »
Non mi stupisco che sia la voce della cattedrale l’ultima a dirmi addio.