7 Marzo 2020

La Cattedrale

di Francesco Carmine Tedeschi

Sua Eccellenza aspetta che don Angelo, devoto ed efficiente segretario, sgonnelli via nella talare e si chiuda alle spalle la porta dello studio. Quindi si alza pesantemente dallo scrittoio rococò, si dirige verso la porta opposta, attraversa a passi lenti e felpati i lunghi e deserti corridoi in penombra nell’immenso palazzo diocesano. Poi si ferma davanti alla porta della Biblioteca.
Ogni volta che apre questa porta, dall’interno della grande aula lo assale subito l’odore dei vecchi libri. Non riesce mai a non pensarci: prende forma nella sua mente il frontespizio di qualcuno dei tanti testi ricoperti di pergamena consultato di recente. L’olfatto, il più trascurato e animalesco dei sensi, apre in lui memoria e anima alle ariose tematiche spirituali. L’odore polveroso dei libri diventa inseparabile da ciò che è scritto dentro quei libri, proprio come l’odore dell’incenso è indissociabile dall’abbraccio d’una chiesa.
Non può concedersi questo refrigerio tanto quanto vorrebbe, il nostro Vescovo, preso com’è dai mille spinosi problemi del suo ufficio. Né l’occhiuta devozione di don Angelo gli consentirebbe di bypassarne qualcuno, per quanto minimo. E così deve sorbirsi telefonate e visite pressoché quotidiane di untuosi amministratori, deve sventarne le pressioni indecenti mimetizzate nel loro linguaggio mieloso e allusivo (di collaudata paternità ecclesiale d’accordo, ma da gran tempo laicizzato del tutto). È costretto a incontrare i suoi sacerdoti, vecchi rinsecchiti nell’animo, prima che nel corpo, e convincerli a recuperare il Verbo smarrito dietro l’osservanza ossessiva delle forme. Deve sopportare gli sfoghi rabbiosi di qualche eminente collega deluso nella carriera. Per non parlare di problemi più generali e correnti: la progressiva carenza di sacerdoti, la chiusura di chiese e la loro materiale manutenzione, la quadratura dei bilanci, la crescita dell’immigrazione, la modernizzazione, la globalizzazione, la mondanizzazione… Signore, aiutami tu!
Non per questo lui, il buon Prelato, si sottrae ai suoi doveri. Tutt’altro. Li affronta col constante esercizio di carità che ha sempre fornito forze insospettate ai suoi tardi anni e alla sua malferma salute, messi quotidianamente a dura prova. Come qualche giorno fa, quando ha dovuto mandar giù la diserzione di un giovane e valente sacerdote, deciso a gettare la veste alle ortiche per seguire l’ondeggiare sinuoso d’un altro tipo di gonnella.
Fatiche, ferite e sconfitte che lo lasciano affranto, più che mai bisognoso di recuperare il balsamo del Verbo, il conforto dell’intimo colloquio coi Padri. Di volare alto, insomma. O perlomeno altrove. Benché sappia perfettamente che il vento dello Spirito soffia dove vuole, Spiritus ubi vult spirat. Anche sulle sporcizie del mondo.
Fu quella appunto la prima frase che gli venne in mente, innumerevoli anni fa, al momento della sua consacrazione a vescovo, quando vennero a dirgli che bisognava scegliere in fretta e furia un motto da incidere sul suo stemma già in costruzione. In quello stemma di gesso attaccato ora nel salone di questo palazzo, in fondo a tanti altri stemmi di illustri prelati, la scritta circonda una faccia rubiconda di putto paffuto che sputa a guance rigonfie un ingenuo spruzzo di saliva. Appena gliene mostrarono l’esecuzione fresca fresca ad opera di uno stuccatore locale, il Vescovo non poté trattenere il riso (scambiato dai circostanti per entusiastica approvazione): figurava lo Spirito come un monello sputazzatore di grazie e d’intelletto: qua sì, là no; tu sì, tu no, oggi sì domani chissà! Tuttavia lo prese come buon auspicio dell’opera che si accingeva a compiere con l’entusiasmo e l’impazienza del neofita.
Non poteva prevederne, nei lunghi anni a venire, le delusioni. Delusioni che solitamente lo risospingono qui, in Biblioteca. Certe volte vi si ferma per ore fino a tarda notte, legge e medita fino a stramazzare dal sonno sui vecchi volumi. Certe volte si limita a entrare, fare un giro lungo gli scaffali, soffermarsi su qualche titolo, sfogliare qualche tomo, ma soprattutto impregnarsi di quell’odore senza tempo. Una sniffata e via.
Anche oggi l’odore gli fa il solito effetto. E già pensa di cercare nelle Confessioni di Agostino una qualche ispirazione per un ultimo accorato appello alla coscienza del prete disertore, quando, nell’aprire la porta, lo sorprende uno spettacolo. Non nuovo, ma inatteso.
Attraverso i vetri del balcone, una luce che si direbbe divina illumina la stanza. Nel terso tramonto di fine maggio il disco infuocato del sole sembra indugiare, proprio lì di fronte, sul profilo delle colline che circondano la Città, e rifiutarsi di calare dietro quel sipario, giocando a trattenersi in bilico sull’orlo. La Città stessa è tutta infiammata da quel mare d’oro e di fuoco, non solo negli opulenti quartieri collinari con le loro ville e piscine immerse nel verde, ma perfino nella piatta periferia a sud, la più degradata, oltre gli squallidi palazzoni della speculazione edilizia, lungo il fetido torrentello ricolmo d’immondizie, tra i cui canneti selvaggi i ragazzi vanno a bucarsi di notte, ma che in questo momento e per pochi attimi ancora risplende invece di riflessi arancio, come un rivolo d’oro fuso.
La luce penetra di prepotenza nella Biblioteca e colpisce le fodere incartapecorite dei libri proprio sullo scaffale dove campeggia il volume delle Confessioni dal dorso liso, tanto ne è stato il consumo. Così che i libri non sembrano più addormentati nel sonno dei giusti, ma radiosi e smaniosi d’offrire un mare di sapienza vitale. Il Vescovo li lascia perdere. Lascia perdere ogni altro pensiero e si avvicina alle imposte del balcone, poggiando leggermente la fronte sui vetri. Rimane lì chissà per quanto tempo, come un bambino malato che desidera correre fuori e non può. Lascia che il suo corpo assorba quel che resta della luce fulgida ed effimera, in cielo già trascolorante con venature viola amaranto e blu, disciolte nel turchese. Le pietre bianchissime della rocca cinquecentesca, che domina l’abitato dall’altura opposta, stanno ormai perdendo splendore, s’incupiscono i contorni sfumati in una indistinta velatura cinerina. Finché l’ultima scintilla cala dietro il sipario delle colline e il mondo diventa cianotico.
Seguendo per abitudine la direttrice che dal Castello scende verso il centro, gli occhi del Vescovo incontrano il sito destinato alla nuova Cattedrale. Nuova, perché quella vecchia, che una volta sorgeva nello stesso posto, è ora un cumulo di macerie. Soffre da più di vent’anni la mazzata di un nono grado sussultorio della Mercalli, il quale, come si sa, non guarda in faccia a nessuno.
La Cattedrale che non c’è, è, per l’appunto, da vent’anni la spina più grossa nel fianco martoriato del Vescovo.
Non fosse stato per le straordinarie capacità relazionali e organizzative di don Angelo, lui, uomo di lettere, teologo e pastore d’anime, mai avrebbe saputo sbrogliare l’ingarbugliata matassa delle pratiche, dei fondi, dei rapporti con le banche. Per non parlare dei giochi politici trasversali alle tante amministrazioni che in tutto quel tempo si sono avvicendate, con promesse sempre rinviate. Insomma, tra passaggi di carte, imprevisti, permessi, discussioni consiliari, strumentalizzazioni politiche, rinvii, sono passati vent’anni solo per abbattere le macerie pericolanti, mettere in salvo alcuni elementi architettonici miracolosamente illesi e ammucchiare tutto il resto in cumuli ora verdeggianti d’erbacce.
Tutto è rimasto così. Intonso il suolo, intonsi soprattutto i fondi custoditi dalle banche, sia quelli stanziati a fatica dagli enti pubblici, sia quelli raccolti porta a porta dai volontari, sia quelli racimolati soldo a soldo all’estero, tra famiglie d’emigranti giunte, ahimè, alla quarta o quinta generazione, e quindi sempre meno sensibili ai bisogni della terra d’origine, se si tratta di mettere mano al portafogli.
A questo proposito arrivano di continuo alle orecchie del Vescovo, fedelmente riportati da don Angelo, mormorii velenosi circa l’indebito profitto sugli interessi dei capitali immobilizzati in banca da parte della Curia. Calunnie che bisogna affrettarsi a rintuzzare, in privato e in pubblico, anche dal pulpito, ben sapendo però che il modo migliore di smentirle sarebbe quello di dare finalmente inizio ai lavori. Ma come iniziare i lavori se manca il progetto?
E qui il Vescovo sente la spina ruotare nel fianco, come guidata da una perfida mano che la spinga e la rigiri senza misericordia nella ferita. Sì, perché la mancanza di un progetto approvato adesso non è più colpa dell’amministrazione, non più dei costi, non del terreno, non della gente, non dei progettisti, non delle maestranze, ma sua. Soltanto sua.
Tanto che in Città, fedeli e non, vanno di buon grado strologando su questa stranezza d’un Vescovo che non vuole si costruisca la nuova Cattedrale, e mettono in giro ipotesi perfide. Come quella, per esempio, che lui, piemontese, si ostini a preferire una qualche grande impresa edilizia delle sue parti, invece delle locali, solo perché si è fissato che queste siano tutte controllate da mafiosi. Al solo sospetto di essere sospettate, le ditte locali hanno preso, naturalmente, le loro brave contromisure. Dal nord non s’è mai vista arrivare alcuna proposta.
Queste maldicenze, aggiunte ai veleni per gli interessi bancari, generano un male terribile nell’animo del Vescovo, gli accendono lo stomaco di continui bruciori, gli spingono pressione e diabete alle stelle. Ed egli è costretto a prendere atto della sempre più evidente freddezza del suo gregge. Già due volte il cardiologo, chiamato perché rifiutava ostinatamente l’ospedale, lo ha caldamente avvertito che il suo fisico non reggerà a lungo.
« Con rispetto filiale, Eccellenza, ella dovrebbe mollare tutto! »
« Devo portare a termine un ultimo compito. »
« Capisco. Allora deleghi, deleghi il più possibile. »
« È una cosa che non posso delegare a nessuno. »
Nella penombra della stanza né medico né paziente hanno badato al colore della faccia di don Angelo, che trascolorava dal consueto fulvorubizzo al verdemelacotògna.

Non che ne manchino davvero, di progetti. Ce ne sono pure troppi.
Al concorso di idee lanciato anni fa hanno risposto in venti, tra singoli architetti, grandi studi associati, progettisti famosi, docenti universitari e persino giovani sconosciuti a caccia di opportunità. I grossi plichi, con dentro tanti tubi di cartone contenenti i disegni, le relazioni e persino alcuni dischetti dimostrativi, giacciono ora, avvolti in grandi fogli di pesante carta commerciale, proprio in un angolo di quella stessa Biblioteca. Stanno ormai assumendo lo stesso colore della cartapecora che ricopre i libri.
Tormentato dal senso di colpa, il Vescovo trascina a forza ogni tanto in Biblioteca un don Angelo ormai disilluso, e tuttavia ogni volta riacceso di speranza. Scartano, aprono uno dopo l’altro i plichi, sfilano dai tubi i grandi fogli millimetrati, che crocchiano sempre più come ossa di vecchi condannati all’immobilità, visualizzano pure qualche primitivo dischetto, guardano, leggono, studiano, discutono, confrontano. Don Angelo si prodiga in appassionate spiegazioni, spinge con impazienza sempre meno dissimulata in favore d’un paio di progetti che, si vede, gli piacciono tanto. A lui o a chi per lui. Ma la conclusione è sempre la stessa: nessuna conclusione. Senza che si proceda almeno a una preliminare scrematura, senza che si prenda una decisione o quantomeno un orientamento certo, il Vescovo sconfortato ordina di rimettere tutto a posto.
E l’attesa ricomincia.
A forza di studiarli, ormai il Prelato se li ricorda a memoria, quei progetti. Lui, che all’inizio non distingueva un plinto da una colonna, ora può rappresentarsi, di ciascuna proposta, ogni particolare. Rammenta, per esempio, una forma di calice capovolto col campanile che sbuca dall’interno della chiesa come un eccelso serbatoio. Ricorda una copertura in ardesia, in un territorio che offre il calcare più candido del mondo. Gli appare una specie di gigantesca coppa di gelato, accanto alla quale dovrebbe sorgere un campanile montato su putrelle di ferro verniciate in rosso. E ancora: una chiesa neo-neo-neogotica, in tutto e per tutto uguale a quelle autenticamente gotiche. Una serie di emisferi in cemento armato che circondano un emisfero più grande, come tanti igloo d’un villaggio eschimese. Una struttura a forma di nave da crociera, con tanto di fumaioli e con l’ardita prora rivolta a Oriente. Eccetera, eccetera, eccetera.
Più vivido di tutti, egli vede con gli occhi della mente un immenso capannone, indistinguibile da un qualunque altro capannone industriale, dalla copertura in vetrocemento e dalle porte scorrevoli su rotaie come quelle di un hangar. Al posto delle campane e del campanile è previsto l’impianto di un’enorme sirena fissata alla parete esterna, capace di farsi sentire in un raggio di cinque-dieci chilometri. La relazione che accompagna la proposta è eloquente: “… realizzare l’unico edificio in cui sia visibile il concetto di uguaglianza, cristiana e marxista insieme, e cioè la fabbrica”.
Nelle prolungate veglie notturne quei disegni e quelle forme diventano altrettanti incubi. E l’acme del rigetto gli sale su dallo stomaco in fiamme nel constatare che tutti, ma proprio tutti, prevedono l’impiego del cemento a vista. Sembrano tanti bunker contro un attacco nucleare. Gli hanno spiegato che il cemento a vista è l’elemento estetico più rappresentativo di questa nostra epoca; ma lui sa bene che questo è un modo elegante di truccare il risparmio sui costi.
L’ultima volta che si è ripetuto il solito, inutile ed esasperante rito dell’apertura dei plichi, don Angelo non ce l’ha fatta più e gli è scappato:
« Insomma, Monsignore, non possiamo aspettare ancora! Ne va della nostra immagine, della stima nei confronti della Sua persona. »
« Lasci perdere l’immagine e la stima. Si è accorto che nessuno di questi progetti sembra una chiesa? »
« Eppure qui dentro c’è il fior fiore di progettisti. »
« Progettisti di che? »
« Di edifici, naturalmente! »
Il prete comincia a temere sul serio l’insidia di un alzheimer annidato nelle sinapsi del suo buon Pastore.
« Ma una Cattedrale non è un edificio qualunque! »
« Certo! » ha consentito il Segretario, per nulla certo, invece, di dove volesse andare a parare il vecchio. « Con tutto il rispetto, Eccellenza, cosa manca a queste perché siano delle vere chiese? »
Il Vescovo ha dondolato a lungo la testa come a cercare le parole giuste.
« Manca il Sacro, don Angelo. Manca la coscienza del Sacro. È chiaro che dalle nostre parti il Vento dello Spirito non è ancora arrivato. »
Avrebbe fatto bene a risparmiarselo, questo accenno al Sacro e allo Spirito. Sarà stato il caso, saranno state le mezze parole messe in giro da don Angelo, fatto sta che da quel giorno la Città intera si è schierata ormai apertamente contro il Vescovo. Ne è nato un agguerrito Comitato per l’erigenda Cattedrale, stradeciso ad andare fino in fondo.
Hanno cominciato ad arrivare lettere su lettere: dapprima anonime, poi, a Comitato operante, con migliaia di firme. Ecchecàcchio! Dove mai s’è visto e sentito che lo Spirito si debba vedere nei muri d’una chiesa? Una bella croce, addosso a quei poveri progettisti! E ammesso e non concesso che abbia ragione lui, come si fa a stabilire un criterio per individuare il Sacro? Non c’è mica una regola, una traccia, una forma codificata. Bando di concorso alla mano, non c’è neanche l’ombra d’una clausola, in merito! Si tratta evidentemente d’una scusa, inventata per chissà quali scopi. Oppure, chiamiamo le cose col loro nome, si tratta di rincoglionimento senile, punto e basta! In ogni caso, non si può più aspettare, la Città ha bisogno della sua Cattedrale. Basta con messecantate, primecomunioni, cresime, matrimoni e funerali celebrati in cappellette e chiesucce miserabili!
Le lettere non sono arrivate solo a lui. Da qualche tempo sono arrivate anche più in alto. E poi ancora più in alto.
Il povero Vescovo non avrebbe mai pensato di dover prendere la penna e affannarsi a spiegare cosa sia il Sacro, non solo alle sue ringhianti pecorelle, ma anche ai Pastori dei Pastori.

In mezzo alle tante lettere arrivate sulla scrivania rococò, oggi è comparso un nuovo plico.
La forma fa pensare proprio ai venti plichi dei progetti conservati in Biblioteca. Un grosso tubo di cartone con dentro fogli e fogli disegnati. Un nuovo progetto, dunque, ma con almeno un anno di ritardo. È meglio aspettare don Angelo, pensa il Vescovo in preda a irrefrenabile tachicardia. Non si decide ad aprire. La verità è che teme di rimanere deluso ancora una volta.
 
Mio caro Evesquovo” recita la lettera di accompagnamento in un italiano tutto rattoppato di francese, “voi escusate se vi invie questo projette senza che voi conoscete ma personne. Donque io me presente: io sono Alì Jemahiel Ramadam, io viene da Tunisia e io mi trove in Italia per travagliare dopo sei mesi in una pizzeria di questa villa. Le chef dice che io sono bravo, che io ai appriso tres vit a fare pizze, e come che lui è contento di mio travaglio, lui a dato a me una chambre. Da mio chef io hai apprise questo fatto della Cattedrale, che voi non volete construire, alors io hai fatte questo projecte, mais comme ça, tanto per giocare. Io ve lo invie e vedete voi se voi lo amate. Io non posso réellement travagliare di architecte in Italia, parce que io sono estraniero e mio diploma non è reconnu. Questo è sufficiente a me: se amate mio projecte io ve lo donne, senza soldi. Escusate me, se io non vi invie un CD, ma io non hai appresso a me un ordinatore, che costa beaucoup.
Merci. Saluti. Ciao Evesquovo.
Alì Jemhaiel Ramadàm.

 
Don Angelo fissa a lungo gli occhi del prelato. Fin dalla prima riga il suo pensiero più pungente è di fare subito a pezzi l’oltraggiosa missiva, accartocciare quel pacco e schiacciarlo a pedate nel cestino. Ma quegli occhi dicono di affrettarsi ad aprire il resto senza discutere. Perciò si dà da fare con dita riluttanti e bocca schifata.
Ciò che entrambi vedono in quei fogli toglie loro il fiato.

Alì Jemhaiel Ramadàm è ora seduto davanti alla scrivania rococò. È rilassato, tranquillo, un sorriso un po’ sfottente gli illumina la faccia angolosa.
La faccia di Don Angelo è invece accesa e sudata, come a trattenere una crescente pressione interna, un bisogno urgente di liberarsi, forse dalla rabbia accumulata, o dal superfluo peso del bassoventre o da entrambi, l’effetto è lo stesso.
Il Vescovo si sente eccitato come un bambino e niente fa per nasconderlo. Ha voluto cocciutamente conoscere di persona quest’uomo, vincendo le ferree resistenze del Segretario.
« Ma Eccellenza! Si tratta di un immigrato, probabilmente clandestino, di cui non sappiamo nulla! »
« Sappiamo che fa il pizzaiolo e dice di essere architetto. Lei non è curioso? »
« Per niente! Prendiamo almeno informazioni dalla questura, dai carabinieri, dall’ufficio immigrati, che so… »
« E a che scopo? »
« Per sapere se viene segnalato come pericoloso. »
« E perché dovrebbe essere pericoloso, io ci voglio solo parlare. »
« Potrebbe essere un malfattore, una assassino, un… terrorista! »
« E, secondo lei, avrebbe inventato questa cosa del progetto solo per avvicinarmi. »
« Certo, proprio così, i terroristi le pensano tutte! »
« E come poteva immaginare che lo avrei chiamato? »
« Ma, con tutto il rispetto Monsignore, posso sapere perché? »
« Perché cosa? »
« Perché lo vuole conoscere per forza di persona? »
« Perché voglio fargli tre domande, don Angelo: primo, se è credente, come penso. Secondo, se è musulmano osservante. Terzo, se gli piacerebbe realizzare il suo progetto. Sempre che si trovi un modo. »
Don Angelo ci è rimasto di sale.
« La nuova Cattedrale affidata a un musulmano!!? Di questi tempi!! Ma, Monsignore, è… è… »
« Assurdo? »
« Detto col rispetto e la devozione che le devo, sì, mi pare assurdo! »
« Don Angelo, tutte le volte che abbiamo guardato gli altri progetti, anche quelli che le piacciono tanto, s’è mai chiesto se i loro autori fossero credenti o atei, ebrei, buddisti o animisti, praticanti o cattolici-tanto-per-dire? Questo è l’unico progetto che mostri il Sacro. Lo ha visto persino lei. Trapela da ogni linea, da ogni volume, dalla forma generale che, tangibilmente, invita a raccogliersi in preghiera e in meditazione. È l’unica immagine della casa di Dio che ho visto finora. »
« Ma è la casa di Allah! »
Il Vescovo sorride amaro, scuote la testa e cerca, come al solito, le parole più adatte:
« Spiritus ubi vult spirat. O no? Glielo devo tradurre? »
Così ora dall’italiano del tunisino pieno di toppe francesi e dalla sua viva voce il Vescovo apprende quel che sapeva già. Alì è credente, musulmano osservante. È stato costretto alla fuga dal suo paese perché gli integralisti gliel’hanno giurata. Non gli perdonano di aver fraternizzato con gli infedeli, cristiani o atei non importa. Non gli perdonano i suoi vestiti, le sue letture, i suoi discorsi all’occidentale, né il fatto d’aver studiato a Marsiglia, né di aver preso pubblicamente posizione contro gli assassinii in Algeria, contro gli attentati alle Torri, eccetera, eccetera.
Con questi precedenti, se dovesse davvero costruire un tempio per conto dei cristiani, come vorrebbe il buon Vescovo, un coltello non ci metterebbe molto a raggiungere la sua gola, o quella dei suoi familiari rimasti laggiù. Il suo progetto è stato solo una sfida a se stesso, alle sue capacità di architetto, un capriccio insomma, dettato dalla nostalgia del mestiere. Un jeu, un jeu seulement.
Mentre lui parla, il Vescovo pensa: magari si potesse realizzarlo, quel progetto! Sarebbe il più bel modo di travolgere, in nome di Dio, gli dei meschini e sanguinari fabbricati dagli uomini a propria immagine e somiglianza.
« Può essere che Dio non voglia rivelarsi ancora del tutto agli uomini » osserva dopo qualche momento di silenzio il Vescovo, poco convinto e con voce rassegnata e smorta.
« Peut être que les hommes soient encore sourds et aveugles » lo corregge serafico il pizzaiolo.

Nonostante le cautele di don Angelo, in Città la notizia si è diffusa ugualmente. Prima fra i preti, ben presto fra tutti gli altri che si sono subito ricordati a quale religione appartenevano. E non ci ha messo molto, la notizia, a diventare una valanga di melma e livore.
Il Comitato ha cambiato nome, è diventato Comitato per la difesa dell’Integrità Culturale e Religiosa. Ha organizzato una rumorosa protesta sotto le finestre del palazzo diocesano, dalle quali il Vescovo può sentire facilmente gli slogan gridati dalla piazza e leggere gli striscioni, guardando fra le stecche delle persiane chiuse. “Giù le mani dalla Cattedrale”; “Cattedrali sì, moschee no!”; “Vattene da dove sei venuto”. Quest’ultimo invito non si capisce bene a chi sia rivolto, se al pizzaiolo tunisino sedicente architetto, o al cocciuto Vescovo piemontese, oppure a tutti e due.
Per giorni e giorni il Prelato è costretto a ricevere politici locali, pezzi grossi venuti apposta dalla Capitale, delegazioni cittadine di riguardo, intellettuali cattolici, famiglie timoratediddio, scolaresche guidate da maestre devote.
A tutti è costretto a spiegare e rispiegare ogni volta, con sovrumana sopportazione e pazienza cristiana, che l’architetto tunisino non potrà costruire la Cattedrale. E tutti si sentono rassicurati.
Ma poi il Vescovo non può trattenersi dall’aggiungere ciò che, inevitabilmente, li manda in bestia: questo, egli precisa, succede a causa dell’odio integralista, dato che l’architetto-pizzaiolo rischia la vita, propria e dei familiari. Quindi è il progettista stesso che, costretto, rifiuta. Se così non fosse, lui, il Vescovo, si batterebbe con tutte le sue forze per realizzare proprio quel progetto. L’unico capace di rendere visibile il Sacro.
Mai l’avesse detto! Ha offeso tutti: i Valori dell’Occidente Cristiano, il Papa, i Vescovi, la Fede Cattolica Romana, la Patria, la Tradizione, i Cittadini, le Radici Culturali della Nazione, la Storia d’Europa, il Tricolore, l’Ordine costituito, l’Amministrazione Comunale, nonché mezza dozzina di Albi Professionali, gli Architetti, gli Ingegneri, le Maestranze, il Capitolo Diocesano, le Confraternite, le Bizzoche, i Sagrestani.
Molto più lunga e dettagliata risulterà la lista dei suoi errori nella lettera indirizzatagli da Santa Madre Curia Romana, insieme col sollecito invito a tornare nel suo amato Piemonte per godersi il meritato riposo della pensione.
È disteso nel lettino d’ospedale col corpo perforato di aghi e tubi.
Il pallore giallastro del volto spicca sul biancore immacolato delle coltri. Intorno a lui ronzano infermiere come candide api. L’ischemia cerebrale non è uno scherzo, è cosa lunga e incerta. Anche per i prelati santi.
È vero che non ha portato a termine il suo compito, ma la Cattedrale la faranno lo stesso, sulla base del progetto che piace di più a don Angelo. Anzi, sono già cominciati i lavori. Son venuti a sputarglielo nell’orecchio, sperando che la notizia penetri nel suo cervello e vi sciolga l’edema, o quello che è. Nessuno pensa che, invece, gli annunciano una sconfitta, non tanto sua, quanto dello Spirito. Non è lui che ha perso, ha vinto il conformismo.
Una mattina la porta della stanza d’ospedale si apre. Il viso bruno e angoloso di Alì, solcato dal sorriso sfottente, che adesso però sembra una profonda ferita, s’affaccia e lo saluta con un gesto ingenuo, da bambino. Ciaociào. È venuto á lui dire adieu. Lo hanno licenziato dalla pizzeria, perché il padrone ha molti clienti e non vuole des ennuis avec ses concitoyens. Lo hanno mandato via anche dalla sua chambre. Mais c’est rien. Troverà un’altra stanza, un altro lavoro, un’altra ville. Mais il ne sait pas se troverà un altro Evesquovo pareil.
Alì parla a precipizio, col suo italiano approssimativo, gli hanno detto che il malato è in coma e non può capire nulla. Ma lui continua a fissarlo e s’accorge che le sue labbra tremano appena, come per rispondere a quel fiume di parole.
Al suo richiamo un nugolo di dottori, di infermieri e infermiere riempie la stanza. Spingono via Alì per un braccio, gli dicono di andarsene fuori dai piedi.
« Capisce cosa dice? » domanda il Primario a un giovane dottore chino con l’orecchio sulle labbra del Vescovo.
« No, Professore, credo che stia pregando in latino. »
Alì non è ancora arrivato sulla soglia, si gira e spiega gentilmente a tutti quanti.
« L’Evesquovo dice: lo Spirito soffia dove vuole. C’est lui qui me l’a appris. »