di Giovanni Di Iacovo
Prova a ricordare com’era il tuo volto prima di nascere. Non ti è possibile, vero? Allo stesso modo, io non riesco a ricordare come fosse la mia vita prima dell’inizio di questa guerra. Perché da noi, in una forma o in un’altra, la guerra esiste da quando esiste la vita.
Rifletto così mentre osservo mio figlio Srecko che, dopo essersi legato i capelli con l’elastico nero che gli fungeva da braccialetto, prepara una sigaretta per sé e una per Ivan. In casa abbiamo una gran quantità di tabacco, razziata i giorni successivi agli scontri che hanno distrutto la Marlboro in città. I miei figli se n’erano riempite le tasche, le mani e poi tutti gli zaini e le buste gialle e verdi dell’emporio. Niente cartine, però, quindi Srecko rolla le sigarette con ritagli di giornale o con le pagine dei suoi vecchi libri di fisica.
Non troverete su queste sigarette alcun severo monito sui rischi per la salute, ma potrete ripassare i principi della termodinamica o conoscere la cifra approssimativa delle donne stuprate tra le macerie dello studentato.
C’è chi racconta che se le sigarette fossero mancate completamente la nostra città si sarebbe arresa già ai primi giorni di febbraio.
Victor non fumava, ma ha resistito fino alla fine.
In piedi davanti alla Cattedrale.
« Questi sono gli ultimi sei. Noi siamo quattro. Come li dividiamo, mamma? »
« Uno per te, uno per Liebe, due per Ivan e due per me. »
Guardo i proiettili sul palmo della mia mano. Scelgo quale sparerò per ultimo. I miei figli sono intenti a sistemare le loro armi sul tavolaccio della cucina mentre io, lentamente, porto un proiettile alla bocca.
L’ultimo sarai tu.
Questo proiettile sarà l’ultimo salmo intonato al maledetto corteo funebre che stiamo conducendo da quattro giorni.
Bacio il proiettile e chiudo gli occhi. Sento la consueta partitura di rumori metallici che le nervose mani dei miei figli eseguono montando, smontando, pulendo e rimontando le loro armi.
Mani delle mie mani.
Quelle mani che aprirono con forza il portone arrugginito di casa nostra il giorno in cui bussarono gli attori. Erano in quattro, dritti sotto un martirio di pioggia chimica. Sotto ai cappottacci buttati sulle spalle indossavano ancora gli abiti di scena neri e rossi. Erano scuri in volto. Una donna aspettava distante, sulla strada bagnata. Il trucco lacrimato via svelava una lunga cicatrice che le attraversava due labbra rosse e sottili.
Gli attori avevano obbedito alle sue ultime volontà: Riportatemi da mia moglie.
Ivan ora pulisce con un panno di feltro e del fil di ferro l’interno della canna del suo fucile.
Ci mette forza, una forza nervosa.
Ci mise forza, il mattino dopo, una forza nervosa per cancellare la cupa striscia del sangue di suo padre dal nostro cortile.
Le curve nere tracciate sulla pietra erano ampie come i seni del fiume Miljacka.
A due passi dal ponte che dominava quel fiume, Victor, senza alcuna divisa, aveva difeso la Cattedrale di Szetendre.
Anche se nessun prete, né pope né mullah officiava più nulla lì dentro, la Cattedrale viveva ancora perché al suo interno si tenevano rappresentazioni di teatro e musica classica.
Per tutti noi, poterci ritrovare insieme per ascoltare violini invece che bombardamenti era qualcosa che ci teneva in vita.
Che ci aiutava a resistere.
In questi ultimi due mesi, dal lunedì al venerdì, dopo il tramonto, una piccola compagnia di attori si ostina a mettere in scena La Morte e la Fanciulla. Ogni sabato mattina gli attori devono lasciare il palco pulito e in ordine perché il sabato la Cattedrale ospita le esecuzioni pubbliche degli oppositori politici. La domenica, invece, è utilizzata per la proiezione collettiva della trasmissione Kanal S: un talk show all’occidentale condotto dal brillante Mlado Petric, fedelissimo del presidente Tudjman.
Ricordo una delle peggiori gaffe del brillante Petric: le immagini mostrano i corpi di cinque nostri fratelli croati fatti a pezzi come cani. Domani la commissione per l’identificazione si metterà al lavoro. Come faceva a sapere che quelle vittime erano croate se l’identificazione sarebbe avvenuta il giorno seguente?
Mira al giallo, mira al rosso, mira al giallo, mira al giallo…. bang bang bang, brava!
Ricordo il petto nudo di Victor contro la mia schiena, e il suo braccio magro, scuro, innervato che mi guidava nel prendere la mira, dopo avermi illustrato con dolcezza come impugnare un Fn-Fal, l’inclinazione che doveva assumere il mio collo, i muscoli che potevo tenere rilassati e la gamba che, invece, andava inchiodata a terra.
Nel caso tu sia a casa con i ragazzi, quando io non ci sono, e arrivi brutta gente.
Sparavamo alla facciata anteriore di Disneyland, com’era soprannominata la vecchia casa di riposo per anziani dove nonno Dragan aveva trascorso i suoi ultimi giorni. Un trionfo di kitsch totalitario dai chiassosi colori del socialismo reale.
Mira al rosso, mira al giallo, mira al rosso, mira al giallo…. bang bang bang, brava.
Nonno Dragan diceva che la rivoluzione era il parto cesareo di un mondo migliore.
Per ora io ho visto solo aborti.
Mira al rosso, mira al giallo, bang bang bang!
Srecko continua a rollare sigarette. Il suo viso è liscio come il vetro, lustrato dal dolore, levigato e luccicante.
Srecko dipinge.
Dipinge sempre e solo gatti.
Gatti da incubo.
Gatti impossibili.
Gatti che conoscono verità negate all’uomo.
Gatti a volte troppo grandi per essere gatti, o con sguardi troppo maligni per essere creature di Dio.
A volte dipinge solo un particolare: una zampa, un occhio, una schiena inarcata che si staglia contro la tempesta, illuminata dai lampi oppure una coda che guizza in una camera da letto del futuro, lucente d’acciaio e fredda nelle geometrie.
La sua piccola personale alla galleria Sutjesca, vicino alla caserma, a metà dello scorso dicembre, ha avuto un gran successo. Questo iniettato nella malinconia di mio figlio, finalmente, la luce di un po’ di fiducia in se stesso e nella propria arte. Da allora, ogni giorno, Srecko passa almeno cinque o sei ore a dipingere. Divora i cataloghi d’arte contemporanea, adora Warhol e Giger e il pomeriggio frequenta un circolo di artisti anarcoidi.
Mai la sera.
La sera si resta in famiglia.
La sera si resta in famiglia per pianificare la vendetta.
Non saprò mai se mio figlio Srecko sia un artista infettato dal buio fino alla radice, un sadico con talento d’artista o, semplicemente, un ragazzo disperato che combatte, come tutti noi, una guerra personale. La signora Lena, invidiosa del suo successo, ha detto che la gente è accorsa numerosa solo perché si era sparsa la voce che offrivamo tazze di tè caldo ai visitatori. Quel tè, effettivamente, è stato un piccolo ma piacevole evento, in un inverno interminabile, gelido e immobile, che non ci ha mai concesso il sollievo di un sorso di sole.
Tranne che in un’occasione.
Mentre tutto moriva o sparava o entrambe le cose, nella Cattedrale di Szetendre andava in scena, per cinque giorni di fila, La Morte e la Fanciulla che tratta dei desaparecidos. La bellezza dell’attrice dalle labbra sottili che interpretava il personaggio di Pauline aveva fatto chiudere un occhio alle autorità sulle possibili implicazioni di quelle denunce.
Victor difendeva la Cattedrale.
Victor fu ucciso di pomeriggio.
Era un pomeriggio totalmente di sole.
L’ideale per un cecchino.
Victor voleva essere cremato, lo aveva ribadito tante volte. Noi lo abbiamo fatto cremare, gliel’avevamo promesso.
Non voleva né pope né preti né mullah.
Non voleva medaglie, non ne avrebbe mai avute. Lui difendeva la Cattedrale.
I pirati vogliono che le proprie ceneri siano gettate in mare, noi abbiamo scelto per lui un diverso ultimo approdo.
Siamo pronti per l’ultima battuta di caccia. La notte ha sempre lo stesso colore, sempre lo stesso rosso Sarajevo.
Senza luci elettriche, solo qualche soros sulle colline, fiamme e fuochi sparsi macchiano leggermente il cielo. A volte un razzo di segnalazione o un proiettile tracciante prende il posto delle lucciole per rischiarare due o tre attimi di tenebra.
Prende il posto delle lucciole che da piccoli ammiravamo nell’orto di nonno Dragan.
Ivan è l’unico dei miei figli che sa montare una pistola da zero, cambiarne il tamburo e migliorarne le prestazioni con vari trucchetti. Ha una grande passione sia per la meccanica che per l’elettronica. Pochi mesi dopo che gli avevano regalato il baracchino conobbe Nina, una ragazza di Zara che si paga il corso da infermiera facendo i tarocchi. Per anni, ogni sera, Ivan si è stretto la testa tra due grosse cuffie nere a vivere la sua stagione d’amore in onde medie.
Quando mi riportarono l’urna con le ceneri di Victor, erano in due: uno con la divisa verde scuro, il fucile a tracolla e un ciuffo di documenti in carta bollata che fuoriusciva spiegazzato dalla tasca; l’altro col cappello in mano, rasati a zero, con una data tatuata all’altezza delle tempie. Poggiai l’urna sul tavolo. Liscia, scura, piccola, asettica, muta.
Incredibile pensare che un’intera vita, una vita come quella di Victor, possa ridursi in una cosetta così anonima.
Quando andarono via, mi sedetti nella morbida luce del primo pomeriggio. Fissavo quell’urna come a volerla guardare negli occhi, con aria di sfida.
Liscia, scura, piccola, asettica, muta.
I miei ragazzi erano in piedi agli angoli della stanza.
Victor, perché eri lì a morire davanti alla Cattedrale?
A notte inoltrata mi alzai dal tavolo. Il viso dei miei figli era spettralmente bagnato dalle scarne luci di fuori.
Prendemmo la decisione.
L’arma di mio marito era un Ak47. I proiettili di un Ak47 erano compatibili con le armi dei miei figli.
Dopo aver svitato con interminabile lentezza il coperchio dell’urna con le ceneri di Victor, i miei figli iniziarono ad aprire i bossoli, tenendoli fermi con le pinze e facendo leva sull’incastro a metà con un piccolo coltello da campo. Dolcemente, affinché si potessero poi richiudere alla perfezione.
Imboccavo quei proiettili con lo stesso amore con il quale, tanti anni prima, avevo imboccato Ivan, il mio piccolo Pierrot appena nato, adagiato tra le mie braccia con i suoi liquidi occhioni azzurri, durante gli ultimi giorni di pace.
Imboccavo quei proiettili con lo stesso amore con il quale versavo lo zucchero nel buio del caffè mentre Victor mi cingeva il seno nudo, afferrandomi alle spalle nel pigro tepore del mattino. Amanti persi in una camera nella città vecchia di Split, dove si respirava la luce dell’Adriatico.
Con lo stesso identico amore, versai con cura ogni singolo sorso di cenere di Victor nei bossoli.
Ottenni diciannove proiettili.
Neanche un solo granello andò perso.
Neanche un solo granello delle ceneri dell’uomo che amo.
Dell’uomo che ho deciso di amare oltre la morte.
Caricammo i fucili e le pistole. Il giovedì successivo scovammo tre serbi ubriachi davanti alla birreria di Verb e li facemmo secchi.
La tua morte, Victor, mieterà diciannove morti. Il tuo cadavere, Victor, scorrerà in diciannove cortei funebri. Diciannove proiettili gravidi dei tuoi resti voleranno a spezzare diciannove cuori.
La tua Annika ti ama.
La tua famiglia ti ama.
Non mancheremo un colpo.
Venerdì scorso vidi un gruppo dei nostri assalire una camionetta serba, ucciderne qualcuno, farne prigionieri altri. Quello che sembrava dare ordini lo riconobbi, aveva una data tatuata sulle tempie. Anche lui ci riconobbe e, dopo una breve discussione, accettò di portare al campo cinque prigionieri di meno.
Bang bang bang bang bang, bravi ragazzi, brava mamma, siamo a tredici.
Così, oggi siamo a tredici. Ci rimangono sei proiettili. Fino ad ora non abbiamo mancato un colpo. Stanotte tutto deve finire.
Voglio che l’alba sia l’amen conclusivo di questa infinita messa funebre.
La Cattedrale di Szetendre ha una facciata anteriore con un ampio portone, colonne a spirale e un maestoso rosone. I vetri colorati formano lo stemma della casata dei Kormavic, e gli conferiscono una solenne identità gotico-romanica. All’interno, un parquet come una bocca cariata, e un salone ampio e gelido.
Le travi di legno del soffitto s’incrociano tra loro per poi perdersi nelle complesse volute.
Solo una decina di persone a serata, ma la rappresentazione de La Morte e la Fanciulla è proseguita fino ad oggi.
Tu difendevi la Cattedrale, Victor, ma il tuo posto era nel mio letto.
Nonno Dragan diceva che le deviazioni nel percorso degli scarabei indicano un aumento nella violenza della natura. Se così fosse, stanotte Sarajevo dovrebbe essere ricoperta da scarabei impaz-ziti.
La ruota della bicicletta continua a girare per qualche altro istante, mentre noi siamo immobili, con le orecchie tese.
Morto anche questo.
Aveva un viso che pareva tutto raggrumato attorno al naso.
Ora ce ne rimangono cinque.
Nello stesso istante in cui ha incrociato il mio sguardo, Liebe gli aveva già centrato il collo.
Attraversiamo il vecchio parcheggio, tempestato di lattine schiacciate.
Quei tre sono di spalle, stanno alzando infastiditi una saracinesca incastrata.
É quasi l’alba.
Uno!
Due!
E tre!
Srecko trema ma i bersagli sono facili. Dovrebbe fumare di meno, avrebbe i nervi più saldi.
Fissa come ipnotizzato la saracinesca schizzata di sangue e di piccoli brandelli di carne e capelli. Non voglio pensare a quale ispirazione lui stia traendo da questo orrore.
Un silenzio come se l’intera città stesse trattenendo il respiro.
Tra due piccoli edifici, panni stesi come gabbiani.
Poi una raffica di mitra, un lampo di sangue nell’aria e la mano di Srecko, strappata dal polso, vola a terra come una colomba ferita a morte. Urlando, il soldato si precipita verso di noi continuando a sparare. Io lo centro immediatamente al viso, Liebe gli fa esplodere il petto.
Srecko rovina a terra con il volto lacerato da una muta smorfia di dolore.
Il suo corpo magro ossuto, i suoi capelli neri crollati sulla
fronte.
« Fa male, madre! Che cazzo mi hai fatto fare, madre! Io non voglio fare il macellaio! Io voglio essere il nuovo Basquiat. Guarda come cazzo sono ridotto adesso. Guardami, senza la mano! Che cazzo di futuro ci stai offrendo, madre? Questa è la tua vendetta personale, noi non c’entriamo un cazzo! »
La sua voce era come una spugna imbevuta di alcool e lacrime.
Liebe e Ivan si gettano su di lui per arrestare l’emorragia con un brandello di stoffa strappato non so da dove.
Il mio è rimasto l’ultimo proiettile.
Solo questo conta, adesso.
I miei figli mi strillano di correre via.
Dei vetri scricchiolano sotto i miei anfibi.
Anche la mia gola, il mio stomaco… sono come colmi di pezzi di vetro.
L’aria è tinta di polvere da sparo.
L’ultimo proiettile con le ceneri di Victor è nel mio fucile.
Victor, perché difendevi la Cattedrale? Il tuo posto era nel mio letto.
Accenno a seguirli, poi lascio proseguire i miei figli oltre l’Elektropriveda, in direzione della nostra casa sulla collina.
Mi volto e mi dirigo verso la Cattedrale di Szetendre.
Nell’aria si diffonde un buon odore di pane, i fornai sono tornati al lavoro.
È meglio che i miei figli non sappiano la verità.
È meglio che ricordino il padre come un eroe.
Victor, tu difendevi gli attori, ma il tuo posto era nel mio letto. Guarda come ci hai lasciati.
È l’alba, non mi rimane che uccidere l’attrice.
L’ultimo proiettile è per lei.
Se invece di difendere quella donna fossi rimasto nel mio letto, ora saresti vivo. Srecko avrebbe ancora la sua mano e io avrei insegnato ai nostri figli a leggere e scrivere invece che a sparare alle spalle.
Se tu fossi rimasto nel mio letto, ma l’amore per quella donna ti ha dato il coraggio di esporti al fuoco dei cecchini giorno dopo giorno.
So bene che non sei un eroe, so bene che non sei un martire della Cattedrale, so bene che non sei morto per difendere arte e cultura.
La tua era solo una sporca questione privata.
Così come la mia non è un’eroica vendetta ma solo un’altra sporca questione privata messa in scena sul palco di questa infinita tragedia il cui copione non prevede eroi.
Solo gente che muore o che spara.
O entrambe le cose.
Io e te non abbiamo fatto nulla di eroico.
Solo questioni private.
L’ultimo proiettile è per l’attrice.
Riposerai dentro di lei.
Riposerai nel suo grembo.
Nel mio letto non c’è più posto per te.
Addio, Victor.
Addio.