7 Marzo 2020

Il sorriso del male

di Alessandra Pepino

La fatica e lo spavento le piegavano le gambe. Più correva, più sentiva il fiato ridursi in un soffio beffardo che, a malapena, le sorreggeva il cuore. Emergere dal cunicolo della metropolitana, per ritrovarsi nel gelo della notte cittadina, fu come uscire da una lunga apnea. Le luci degli addobbi la accecarono per qualche secondo, mentre un vago odore di vin brulè le aggredì le narici provocandole un conato. Lo ricacciò dentro, senza essersi nemmeno accorta di averlo fatto. Le poche energie che serbava nelle gambe dovevano aiutarla a scappare in un posto sicuro dove non avrebbero potuto trovarla.
La ferita che le si apriva sulla fronte le pulsava furibonda, a stento anestetizzata dal vento tagliente che soffiava nella sua direzione. Ancora non riusciva a credere di essere riuscita a scappare. L’eco dei suoi passi rimbombava per le strade deserte; se anche avesse tentato di gridare aiuto, la sua voce si sarebbe persa negli anfratti della notte gelida e desolata.
Nelle orecchie si rincorrevano ancora le urla disperate del suo amico: i suoni gutturali della paura le rimanevano conficcate nella mente, come tanti, piccoli chiodi appuntiti.
Mentre fuggiva sulle scale che delimitavano il confine tra la buia vita sotterranea e la città addobbata a festa, si era imbattuta in un uomo di colore, intirizzito dal freddo: aveva provato a fermarlo, farfugliando parole incomprensibili, troncate dall’orrore e dal fiatone; lo aveva supplicato con gli occhi di chi ha visto il male e non sa descriverlo, ma lui si era divincolato dalla presa della sua mano lurida, schivandola come se fosse stata un insetto e aveva proseguito per la sua strada, a capo chino, senza voltarsi.
Si era assuefatta ormai da tempo all’indifferenza della gente, ai mezzi sguardi di pena, misti a riprovazione. Nascosta dentro strati di stracci lerci e maleodoranti, aveva imparato a vivere guardando le persone camminare, entrare e uscire dai vagoni della metro, senza neppure accorgersi di chi, come lei, si aggrappava alla vita come un affamato a un tozzo di pane. Quella notte però tutto era diverso. Lasciandosi sorpassare dall’ombra di quell’uomo dallo sguardo spaurito, aveva toccato con mano l’incapacità umana di prestare attenzione al reale bisogno, alla paura, alla richiesta di un aiuto che non sarebbe mai arrivato.
Le sembrava di non riconoscere nemmeno un angolo di quelle strade che, un tempo, l’avevano accolta amiche. Un’enorme macchia bianca troneggiata da due torri imponenti l’abbagliò, squarciando quella sensazione di smarrimento: strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine e si rese conto di essere arrivata davanti alla cattedrale.
Un brivido gelato le percorse la schiena al solo pensiero di quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che aveva messo piede in una chiesa.
Un taxi la sorpassò con un ruggito che, per qualche secondo, coprì anche i suoi pensieri: quando il silenzio tornò a sommergerla si rese conto di aver esaurito le forze e fu costretta a interrompere la sua sbilenca cavalcata. Aspettò che il respiro tornasse alla normalità ma delle risate sguaiate in lontananza la fecero ripiombare nell’incubo dal quale stava fuggendo. Chiuse gli occhi e inghiottì con decisione: le sembrò di aver mandato giù una cucchiaiata di cemento. Con quel poco di forze rimastele provò a spingere il portale, certa di incontrarne una strenua resistenza. Per poco non cadde quando il suo corpo, sbilanciato, fu strappato ai rumori sinistri della notte minacciosa.
L’odore dell’incenso le investì i sensi, mentre un silenzio inaspettato la avvolse come un lenzuolo, tamponando gli echi degli spettri che la rincorrevano.

Nonostante non si fossero mai spogliati del cappuccio e del passamontagna, il ragazzo si chiedeva se qualcuno avrebbe potuto riconoscerli. Non era paura la sua: semplicemente un filo di inquietudine, misto a una impagabile sensazione di onnipotenza. I patti, all’inizio, erano stati altri. Avrebbero dovuto semplicemente divertirsi un po’, dando una lezione a quei due vecchi pidocchiosi che occupavano abusivamente le panchine della metropolitana. Era da giorni che li seguivano, ne spiavano i movimenti, le abitudini più schifose, come quella di svestirsi dei loro abiti cenciosi per trascorrere la notte negli anfratti della città sotterranea. Il vecchio aveva un cane, un sacco di pulci tarchiato, che lo seguiva passo passo; la donna invece era un’ubriacona, con la pelle screpolata e i capelli sudici. Puzzavano come due cadaveri in decomposizione, erano molesti per il solo fatto di esistere e respirare la loro stessa aria. Avrebbero dovuto mettergli paura, fargli capire che era arrivato il momento di togliersi dai piedi.
Una coppia di fidanzati, unici avventori della notte buia, vedendoli arrivare col viso coperto e armati di spranghe, si era affrettata a salire sul primo vagone disponibile, lasciandosi alle spalle lo scomodo presagio di una tragedia.
La donna, rannicchiata nel suo lurido sacco a pelo e stretta alla sua bottiglia di vodka, aveva ignorato le loro provocazioni e i loro insulti: si era limitata a gemere quando il ragazzo le aveva sferrato un calcio dritto nella pancia. Il vecchio straccione invece aveva reagito, si era messo a urlare, sferrando improperi e calci nel vuoto, supportato dal maledetto cane che aveva cominciato a ringhiare e ad abbaiare come un ossesso: sfondargli la testa a calci era stata tra le cose più eccitanti che gli fosse mai capitata in diciassette anni di vita. Non avrebbe saputo spiegare come, ma ad un tratto, le cose erano cominciate a sfuggirgli di mano: il vecchio, pazzo di dolore di fronte a quel che restava del suo fedele compagno, si era scagliato contro di lui e l’aveva aggredito, addentandogli un lembo di collo sfuggito alla stoffa.
Gli altri due ragazzi erano accorsi in suo aiuto, colpendo il vecchio con una ferocia inaudita prima alle gambe, poi sulla schiena. Mentre il barbone agonizzava sotto i colpi ciechi delle spranghe, il ragazzo era riuscito a liberarsi giusto in tempo per accorgersi della donna che scappava su per le scale, con un’agilità che non avrebbe mai creduto possibile, vista la sua mole.
Le era corso dietro, tamponandosi come poteva la ferita aperta sul collo. L’aveva raggiunta e agguantata per la casacca insudiciata. La donna era rovinata a terra e lui ne aveva approfittato per sferrarle un pugno che l’aveva fatta sbattere contro un estintore, provocandole una ferita superficiale sulla fronte. Quando lei si era rimessa in piedi e aveva ripreso la sua corsa disperata, il ragazzo era inciampato nei lacci sciolti delle scarpe da ginnastica, finendo in ginocchio sugli scalini. Le grida dei suoi compari lo avevano fatto tornare alla realtà. « Lo hai ammazzato », continuava a ripetere uno all’altro, « porca puttana ti rendi conto che lo hai ammazzato? » Quando si era riscosso da quella sorta di incantesimo nero, della vecchia barbona non c’era ormai più traccia.

Il giovane sacerdote era raccolto in preghiera ai piedi dell’altare. Gli dolevano le ginocchia: non sapeva quanto tempo fosse passato da quando si era prostrato, con il capo tra le mani, davanti all’immagine del Signore. Anche quella notte il sonno si prendeva gioco di lui, impedendo al suo corpo e alla sua mente di trovare la giusta requie. Mancavano meno di due giorni al venticinque dicembre, una manciata di ore lo dividevano dal dover celebrare la sua prima messa di Natale da quando era stato nominato vescovo. Il pensiero di quel momento, di quella folla di occhi e orecchie radunata per ascoltare la sua omelia, in una notte tanto importante, lo costrinse a stringere le mani in un gesto di preghiera disperato.
Non c’era mai stato il minimo tentennamento nel suo cammino di fede, prima di allora. Aveva deciso di prendere i voti senza mai chiedersi se per lui fosse stata vagliata, dall’alto, una qualche alternativa. L’amore di Dio l’aveva condotto fieramente fino a quel punto e, adesso che aveva raggiunto uno status tanto importante, alla soglia dei quaranta anni, lo stava mettendo alla prova insinuandogli nel cuore i primi, fatidici dubbi. Non era più così sicuro di essere all’altezza di quel compito che aveva abbracciato come una scelta di vita consapevole. Si sentiva piccolo e inesperto, un fragile baluardo attorno cui avrebbero dovuto stringersi i suoi fedeli per affrontare, insieme, le difficoltà della vita. Il dolore delle persone che gli chiedevano coraggio non era più uno sprone ma lo metteva a disagio, lo confondeva. Ripensò agli occhi di quel ragazzino che, qualche ora prima, si era recato da lui trascinandosi dietro una busta piena di giocattoli, chiedendogli di regalarli per Natale a qualche bambino bisognoso: la trasparenza di quello sguardo lo costrinse a immaginare la sua vita senza la possibilità di vedere la stessa luce negli occhi di un figlio tutto suo. Un pensiero impercettibile, fugace come un respiro, in grado di fargli saltare un battito del cuore.
Un rumore improvviso lo distolse dalle sue riflessioni, costringendolo a voltarsi di scatto. Una donna di una certa età, ricoperta di vestiti logori e fin troppo leggeri, si reggeva trafelata al manico del portale. Sulla fronte le si apriva una ferita frastagliata dal sangue rappreso; nei suoi occhi si rincorrevano frenetici la paura, la solitudine, lo spaesamento.

La donna non si accorse immediatamente della presenza del sacerdote. I suoi occhi furono investiti da un turbinio di immagini che le provocarono le vertigini: la profondità della navata, la bellezza dell’abside, la maestosità dei rosoni che si aprivano sulle facciate del transetto, la riempirono di una meraviglia lontana nel tempo. L’odore delle matite spezzate e dei libri universitari appena comprati le tornò alla mente facendo sparire, per un attimo, il fetore dei suoi capelli, delle sue vesti, del suo presente.
Il giovane prete le si fece incontro, come una visione. Avrebbe voluto scappare ancora ma non aveva più forze. Le lacrime le salirono in gola, prima ancora che negli occhi, e cercò di ricordare l’ultima volta che aveva concesso a se stessa di piangere. Le mani del sacerdote le si offrirono come un appiglio nella tempesta: ci si aggrappò, le strinse, incapace di credere che esistesse ancora qualcuno al mondo capace di toccarla. Singhiozzava, mangiandosi le parole, nel tentativo di spiegare il sollievo per non essere stata ammazzata come un animale e il senso di colpa per essere sopravvissuta a chi non l’aveva lasciata da sola negli ultimi anni. Alle spalle del giovane prete si ergeva, in tutta la sua imponenza, il crocifisso col Cristo morente: lo stesso che, per quasi una vita, l’aveva ignorata abbandonandola alla sua solitudine e che, proprio quella notte, senza un apparente motivo, si era ricordato di lei e della sua miserabile esistenza.
Il sacerdote offrì il suo composto silenzio alle lacrime della donna. Nelle sue mani tremanti e infreddolite, nella vaghezza delle sue pupille, riconobbe la diffidenza di chi non accetta l’abbraccio di Dio. A fatica, cercò di concentrarsi su qualcosa che non fosse l’immondo tanfo di alcol che proveniva dalle sue carni e dai suoi poveri abiti. Ne ebbe un’enorme pena. L’aiutò a sedersi su una panca e, sempre in silenzio, raccolse il suo pianto e il racconto smorzato dell’orribile e immotivata aggressione: si fece carico di tutto quel dolore, riempiendosi di un male infinito che, almeno per quella notte, avrebbe preferito evitare. Si disse che era per persone sfortunate come lei che avrebbe dovuto farsi coraggio e non lasciarsi sopraffare dalle umane debolezze.
Quando i singhiozzi si furono placati e il suo respiro fu tornato regolare il sacerdote le accarezzò la schiena, chiedendole di aspettarlo per qualche istante, il tempo necessario per trovare qualcosa con cui medicarle la ferita sulla fronte. Il suo pensiero più accorato era tutto per quel povero disgraziato, riempito di botte, a pochi metri da loro. Si chiese se non fosse il caso di chiamare la polizia. Forse quell’uomo era ancora vivo o, forse, quella donna si era inventata ogni cosa, non c’era stato nessun pestaggio se non nella sua mente.
Si allontanò per un minuto, al massimo due: quando fece ritorno sulla panca di legno non c’era nessuno ad attenderlo. Nell’aria stagnava soltanto un odore compatto di lacrime e rassegnazione, mentre una recente folata di vento gelido si disperdeva come polline nell’enorme cattedrale.

Dopo aver sentito i due amici accusarsi a vicenda della morte dello straccione, il ragazzo aveva avuto la prontezza di sfilarsi il passamontagna, annodarselo al collo, come fosse una sciarpa, e correre via con le mani sporche di sangue nelle tasche, quanto più è possibile lontano da quel teatro degli orrori. Aveva assistito defilato in un vicolo all’arrivo della polizia, sorridendo tra sé della naturalezza con cui era riuscito a togliersi da quell’enorme impiccio. Sapeva che quei due idioti dei suoi complici non avrebbero mai fatto il suo nome: tra loro vigeva un codice di fratellanza più forte degli sbirri, degli avvocati e dei giudici. Senza contare che erano tutti minorenni e incensurati e che le ripercussioni di quella storia non avrebbero tardato a perdersi, alla lunga, come echi in una grotta. Dopo che i suoi amici furono condotti, in manette, nella camionetta della polizia e che il corpo martoriato del vecchio barbone fu riportato in superficie, coperto da un telo bianco, il ragazzo poté ritenersi soddisfatto e avviarsi verso casa, attento a non dare nell’occhio per nessuna ragione. Si sentiva stanco e infreddolito e non vedeva l’ora di darsi una ripulita e di infilarsi sotto le coperte: il giorno dopo sarebbe stata la vigilia di Natale e, visto che la scuola era chiusa per le festività, aveva promesso a suo padre che sarebbe andato a dare una mano alla mensa organizzata dalla chiesa per il tradizionale pranzo di Natale, imbandito in favore dei senzatetto.
Se solo avesse immaginato quello che era successo, se solo avesse vagamente intuito i sentimenti d’odio radicato che suo figlio nutriva nei confronti di quei disgraziati, quel famoso magistrato impegnato nel sociale avrebbe di certo impedito che quell’ennesima beffa, dai raccapriccianti risvolti, fosse messa in atto.

Passarono poche ore prima che la notizia facesse il giro dei principali telegiornali del paese. Il clochard che la notte prima era stato selvaggiamente assassinato, insieme al suo cane, all’interno della metropolitana, si chiamava Pierre e aveva sessantasette anni. L’atmosfera natalizia che da giorni imperversava per le strade della città, subì una brusca inversione di marcia: lo spettro della violenza più bruta e immotivata si abbatté come una scure sulle coscienze dei cittadini.
La polizia aveva fermato due minorenni, figli di buona famiglia, grazie alla segnalazione di un uomo che, avendo assistito al pestaggio da un vagone della metropolitana, aveva subito allertato l’autorità competente. I due indagati non avevano smentito le accuse al loro carico e, anzi, avevano rivendicato la loro buona fede nel non avere mai avuto intenzione di commettere un omicidio, ma nell’aver semplicemente cercato di ripulire la città da un pericoloso parassita, lanciando un avvertimento verso chi stava osando deturpare un servizio pubblico come la metropolitana.
Il giovane vescovo apprese la notizia senza alcuna sorpresa, mentre un nodo gli si formava all’attaccatura dell’anima. Fino all’ultimo, aveva sperato che il racconto di quella donna ferita fosse solo il frutto della sua contorta immaginazione. Non faceva che chiedersi dove potesse essere finita, perché era scappata via in quel modo, come avrebbe mai potuto ritrovarla e offrirle ancora il suo aiuto.
Sapeva di avere davanti a sé una lunga e intensa giornata e avrebbe voluto scacciare via, con un soffio, tutti i cattivi pensieri. Doveva, per prima cosa, raggiungere la mensa e aiutare il parroco a coordinare al meglio il pranzo di Natale da offrire a coloro che non avevano una casa o una famiglia con cui festeggiare. Senza contare il pensiero della messa che avrebbe dovuto officiare quella stessa notte e che continuava a ronzargli in testa, con tutto il suo carico di responsabilità.
Il sonno accumulato nelle ultime ore di angoscia si mescolava a quel senso di ingiustizia e di impotenza che gli si era conficcato nel petto come una lama.

Il ragazzo che non aveva ucciso con le sue mani il barbone in metropolitana, ma che aveva pianificato la sua aggressione nei minimi dettagli, aveva dormito placidamente fino alle undici del mattino successivo. Dopo aver fatto una svogliata ricerca su internet e aver appreso cosa ne era stato, fino a quel momento, dei suoi complici, aveva deciso di non deludere le aspettative di suo padre e di andare a fare presenza alla mensa di quei mentecatti. Infilò dei jeans a vita bassa e un maglione bianco di lana grossa e col collo alto, stando attento che la ferita, incerottata, fosse ben coperta.
Si tuffò in un nugolo di strade spruzzate dal nevischio, facendo lo slalom tra la folla concitata dei ritardatari cronici, alle prese con gli ultimi regali. Una sensazione poco piacevole gli si rimestava nello stomaco, come un malessere sotterraneo e infido. L’idea di non poter condividere con nessuno il suo segreto gli dava sui nervi, così come mal tollerava il fatto che i suoi amici si fossero accollati il merito di quell’azione punitiva, senza che nessuno sapesse che la mente ideatrice del tutto era la sua. Più ci pensava, più il fatto che quel rifiuto umano ci avesse rimesso la vita gli appariva come la conclusione più giusta di quello che era iniziato come un semplice gioco. Mentre si rincantucciava nel suo piccolo ma insopportabile disagio, si accorse di essere arrivato a pochi passi dalla cattedrale: un’idea estemporanea gli attraversò la mente mentre un ghigno inconsapevole gli disegnò una parabola zoppa sulle labbra.

Il giovane vescovo aveva appena finito di abbottonare il soprabito e si stava apprestando a lasciare la chiesa dal portale secondario quando un adolescente dall’aria familiare, con la faccia pulita e gli occhi indecifrabili, gli si parò di fronte, sorridendogli con cordialità.
Non appena lo ebbe salutato, il prete ricordò di averlo incontrato qualche domenica a messa. Il ragazzo si presentò, spiegandogli di essere uno dei volontari della parrocchia del quartiere e di essere diretto alla mensa dei poveri per dare una mano con il pranzo. Si scambiarono dei convenevoli e gli auguri anticipati di un sereno Natale, prima che il ragazzo gli confidasse di aver bisogno di parlare con qualcuno di fidato di qualcosa che gli pesava sul petto come un macigno.
Il prete si disse disponibile a dedicargli tutto il tempo necessario nel pomeriggio, a meno che non avessero fatto il tragitto verso la mensa insieme, approfittando di quel tempo a disposizione per affrontare la questione. Il ragazzo dagli occhi inquietanti si mostrò entusiasta dell’idea e, solo dopo essersi sincerato del fatto che l’informalità della situazione non avrebbe in nessun modo compromesso il segreto della confessione, iniziò a raccontare una storia strana, a tratti lacunosa, con la quale più che dire desiderava lasciare intendere.
Il vescovo si lasciò condurre, suo malgrado, sul terreno dissestato di un segreto che puzzava di marcio: gli fu raccontato di un’azione violenta in cui era rimasto ucciso qualcuno, una spedizione punitiva di cui il ragazzo non si era macchiato direttamente ma in cui era invischiato fino al collo. I tasselli di quel puzzle incompleto e angosciante venivano lanciati sul tavolo a casaccio, senza trovare collocazione né una ragionevole spiegazione. Il sacerdote ascoltava in silenzio quel crescendo delirante di dettagli apparentemente incongruenti senza fare domande, cercando di tenere a bada la sensazione di disagio, sempre più nitida, che gli si gonfiava dentro come una cisti maligna. Non c’era contrizione nel tono di voce di quel ragazzino con il sorriso arrogante di chi non prova paura: in ogni parola non detta, in ogni pausa studiata, rimbalzava una tacita sfida, la voglia di mietere incubi.
Arrivarono davanti alla mensa mentre da nuvole cariche di grigiore cominciavano a spuntare timidi fiocchi silenziosi. I lembi dei due drammi, cui il neo vescovo aveva prestato orecchio nelle ultime ore della sua vita, cominciavano a trovare senso in un incontro sempre più probabile per essere ignorato.
Il ragazzo ringraziò il sacerdote per averlo ascoltato senza interromperlo, astenendosi dal giudicarlo. Sul suo viso era rimasto impresso, come una maschera deforme, un sorriso malevolo che non lasciava scampo. Il ministro di Dio non trovò le parole per trattenere quel cucciolo di uomo dall’animo infernale. Lo vide scomparire all’interno dell’edificio e non gli restò null’altro se non seguirlo a ruota, con la mente svuotata da ogni pensiero.

La mensa era gremita di anime sole in cerca di un piatto caldo e di un sorriso da condividere. Il profumo dell’arrosto e delle patate col rosmarino si spalmava sulle pareti; la neve che scendeva fitta, al di fuori, avvolgeva il resto. Uomini e donne, bambini e anziani consumavano il loro Natale in una cucchiaiata di brodo bollente, seduti vicini a un tavolaccio apparecchiato con attenzione e dignità. Il giovane vescovo girava per la grande sala, dispensando una parola affettuosa verso ogni volto desolato in cerca d’attenzione. Nutriva un profondo rispetto per la vergogna di chi non sa esprimersi ma è in grado di dire grazie anche senza parole, con un semplice cenno del capo, con uno sguardo non distolto.
I suoi occhi scavavano, inquieti, tra la folla alla ricerca di un maglione bianco a collo alto, che si confondeva tra gli altri. Le parole di quel ragazzo dai modi educati e dal sorriso di pietra continuavano a rimbombargli dentro come una deflagrazione. Lo avvistò mentre serviva un piatto di brodo a un padre dagli occhi bassi, col suo bambino abbarbicato sulle spalle: ne osservò i movimenti, la gittata dello sguardo, e non vide che un giovane volenteroso che si prodigava per il prossimo. Per un attimo sentì ancora qualcosa vacillare dentro di sé. Si chiese quanto fosse lucido e se fosse ancora capace di scindere la realtà dalle sue suggestioni.
Fu la visione di una sagoma vagamente familiare, in quel nido di volti sconosciuti, a restituirgli l’esatta percezione della terribile verità cui non poteva più sfuggire. Come in una mano di dadi spettrale e inconsapevole, i destini delle due figure che popolavano i suoi incubi più recenti finirono per fondersi davanti ai suoi occhi. Si chiese come avesse potuto non accorgersene prima: la donna era già in fila da qualche minuto, in attesa del suo turno per accaparrarsi la sua razione di cibo. Fu la ferita sulla fronte, appena visibile sotto un cappello di lana troppo largo per poterla riscaldare, a rendergli familiare quel viso grigio come tanti altri. Il sollievo di vederla lì, in carne e ossa, dopo averla perduta di vista in quel modo, non ebbe il tempo di riempirgli lo stomaco. Misurò ogni centimetro che separava la donna dal banco dove i volontari stavano servendo da mangiare, con il cuore che gli martellava in petto come impazzito. Li vide fronteggiarsi in un muto e involontario faccia a faccia, separati soltanto da una timida barriera umana, fatta di due affamati col diritto di precedenza. Non perse di vista, neppure per un attimo, le contrazioni del volto del ragazzo col maglione bianco quando si ritrovò di fronte la vecchia barbona con la ferita coperta dal cappello. Registrò l’indifferenza con la quale la donna accolse il volto del giovane che le riempiva il piatto e non si lasciò sfuggire il lampo di sorpresa che, per un attimo, costrinse lui a rimanere con il mestolo a mezz’aria.
La gratitudine con cui lei accettò la scodella di brodo si tradusse in un sorriso sincero e in una quasi impercettibile carezza sulla mano del suo benefattore. Il fremito di repulsione che attraversò lo sguardo del volontario nel venire ancora a contatto con quella pelle lercia che, solo qualche ora prima, aveva tentato di lacerare a suon di botte, si disperse nell’aria come un sospiro.
Il sorriso di risposta, che avrebbe dovuto nascere spontaneamente sul suo viso, precipitò nel buco nero che ne aveva risucchiato l’anima, stirandosi in un ghigno oscuro. La sorpresa lasciò spazio a un nuovo vortice di sentimenti, prorompente nella sua brutalità. L’intima felicità che lo invase nel tenere in trappola lo sguardo inconsapevole della sua vittima lo riconciliò con se stesso e con il mondo. Quando i suoi occhi inciamparono in quelli del giovane sacerdote, pietrificato a pochi metri da lui, capì di aver vinto la partita.
Servì l’ultima scodella di minestra e si allontanò dalla sua postazione fischiettando, rendendo intimamente grazie al Signore per quel regalo di Natale inaspettato. S’incamminò verso casa, sentendosi leggero come non mai: i suoi passi, attutiti dal candore della neve, lasciavano impronte ordinate, crateri profondi come segreti che nessuno avrebbe potuto dissotterrare.