7 Marzo 2020

Il rosso

di Cosimo Ugo Paolo Miccoli

da Racconti nella Cattedrale,
antologia della Terza edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.

«Pss…. Nicooolaaa! Psss…. Nicò! »
Inginocchiato alle spalle di Don Donato, che tendeva le braccia al cielo con in mano il corpo di Nostro Signore, mi portai alle labbra l’indice della mano sinistra, chè nella destra avevo il campanello della consacrazione, e battendolo ripetutamente sulla punta del naso feci intendere a Michele che doveva smetterla.
« Psss…. Nicolaaaa! Tocca a me! » disse in quello strano linguaggio da muti che usavamo sull’altare.
Dall’inizio della Santa Messa aveva cominciato a tormentarmi e ogni volta che incrociavo il suo sguardo mi faceva segno che quel giorno custodire il boccaccio sarebbe spettato a lui.
Di rimando gli dicevo di no con la testa. “Era mio!”
Ero stato io a rubarlo alla nonna dalla credenza in cui teneva le conserve per l’inverno ed ero stato sempre io a pulirlo e sgrassarne il vetro.
Nicola sì, mi aveva aiutato a svuotarlo, mangiando tutte le fave sott’olio in esso contenute, e tra l’altro non gli era dispiaciuto salvo il mal di pancia del giorno dopo, ma gli accordi non erano quelli.
“A caccia si va insieme, ma il boccaccio resta da me” gli avevo detto.
« Mistero della Fede » disse Don Donato, mentre per l’ultima volta gli feci cenno di no e cominciai a recitare la preghiera, giurando che fino al termine della Messa non l’avrei più guardato in faccia.
A ricordarmi che stavo servendo messa bastò lo sguardo inquisitorio di Crocetta che, con il suo velo nero e le spesse lenti, scuoteva il capo per dimostrami tutta la sua disapprovazione.
“Siete due cornuti!” ci diceva puntualmente quando ci vedeva giocare a pallone davanti alla Cattedrale, usando una delle entrate laterali come porta da calcio. “A tua madre lo devo dire!”
Aveva un caratteraccio quella strega, vedova da una vita. Da quando ne avevo memoria, l’avevo sempre vista a lutto. L’aveva portato dieci anni per il marito, sette per il fratello e quando stava per separarsene si diceva che le fosse morta la madre. Poiché avrebbe dovuto vestirlo altri dieci anni, decise di non toglierlo più. “Probabilmente perché si era convinta che farlo portava sfortuna” sosteneva Michele.
« Il corpo di Cristo. »
« Ammèn » rispose Crocetta mentre sotto la sua bocca pelosa avevo teso il piattino. “Ammèn” era un rafforzativo di “amen”, mi ero convinto negli anni, o forse una voce del verbo “menare”, con cui intimava anche al prete di far presto e di non perdersi in chiacchiere.
Mi lanciò un’occhiataccia in cui mi profetizzava l’Inferno e cominciò a masticare l’ostia con ampi movimenti della mandibola.
“Hai visto come mastica?” mi aveva detto più volte Michele, disgutato da quella vista. “Ma se non ha denti!” gli avevo sempre risposto. Eppure il dubbio ci era rimasto, nessuno riceveva la comunione in quel modo, neanche il colonnello Ligorio, che invece la dentiera l’aveva davvero e che qualche volta in piazza, davanti al bar, se la toglieva per farla vedere agli amici e dire impettito che l’aveva pagata trecento lire a un medico del capoluogo.
« Allora? » mi chiese mentre stavamo per entrare in sagrestia al seguito di Don Donato. « Dove l’hai messo? »
« Ma vuoi farti scoprire? Smettila! » lo ripresi.
« Dobbiamo fare una volta per uno! »
« Ah sì? E per quale motivo? Il boccaccio è mio! Punto e basta! » risposi. « Se li vuoi portare a casa tua, trovatene un altro e li dividiamo. »
Michele ci pensò un attimo, poi mi tirò per la manica sinistra della cotta.
« Solo per oggi! Dai! »
Scossi di nuovo la testa.
« Dai! Domani te lo riporto! È mio fratello che li vuole vedere…. non ci crede! Ti do una gomma americana, se me lo fai tenere » rilanciò.
L’offerta era buona. Gli feci un sorriso e, dopo esserci tolti la veste, rimesso a posto quell’affare per l’incenso e assicurati che Don Donato fosse andato nell’altra stanza col sagrestano a contare le offerte, allontanai l’inginocchiatoio dall’armadio, quanto bastava per accedere a un incavo della parete in cui prima della messa avevo posato il boccaccio.
« Sono quindici con quelli di oggi eh? » disse Michele, gli occhi puntati su quelle strane creature che all’interno del vetro avevano cominciato a muoversi e camminare le une sulle altre.
« No, sono sedici, con l’ultimo che ho preso io! » gli indicai uno dei ragni. « Lo vedi? È rosso, più peloso degli altri. »
Le palpebre di Michele si allargarono non appena vide quello che d’ora in poi chiamerò “il rosso”. Da quando andavamo a caccia di ragni, uno di quel colore non l’avevamo mai visto. Era un pò più piccolo degli altri, ma il suo aspetto faceva decisamente paura.
« E dove l’hai trovato? In un buco come al solito? »
« Certo! Solo che la sua tana stava vicino alla casa diroccata, dietro i fichi d’India » gli risposi con orgoglio, mostrando il mio braccio graffiato e pieno di spine.
Catturare ragni non era semplice, ma la nostra tecnica era ormai infallibile. Intorno alla vecchia Masseria avevamo trovato tante piccole buche nel terreno. Era lì dentro che stavano nascosti. Bastava infilarci un rametto e cominciare a muoverlo finché il “padrone di casa” non ne aveva a sufficienza per arrampicarvisi. Serviva attenzione, perché quei ragni incazzosi risalivano veloci e per non farsi mordere occorreva prendere l’altra estremità del bastoncino con la mano sinistra e far cadere dentro il boccaccio il malcapitato. Uno di noi faceva solitamente da assistente nell’aprire e chiudere l’“allevamento”. Non si doveva perdere tempo, pena la fuga di qualche esemplare più intraprendente.
« Dev’essere più velenoso degli altri » ipotizzò Michele che già tentava di mettere le mani sul vetro.
« Già, il morso di quelli rossi vale dieci di quelli normali. »
« E tu che ne sai? È il primo rosso che troviamo! » obiettò il mio amico.
Non sapendo come giustificare quella stima, ma non volendo ammettere che non ne sapevo nulla, dissi che me l’aveva detto mio padre, che a caccia di ragni c’era andato prima di noi.
Se quei ragni fossero davvero velenosi non lo sapevamo.
In paese però si raccontavano storie strane, di donne che erano state morsicate e avevano ballato tre giorni e tre notti. Minguccio, il figlio di “tranciaferro” aveva passato quattro giorni a letto con il braccio gonfio dopo una di quelle morsicature. Non aveva ballato, forse perché non era una femmina, ma alla fine nessuno gli aveva nemmeno creduto, data la sua notoria capacità di saltare giorni di scuola con qualsiasi pretesto.
« Allora…. dai! Dammelo! »
« Prima fammi vedere se hai la gomma americana! »
Michele la tirò fuori dalle tasche dei suoi sudici pantaloncini. La carta argentata in cui era avvolta e in bella mostra sul palmo della sua mano destra ebbe il potere di farmi perdere la lucidità necessaria a terminare la trattativa.
« Va bene…. ma solo per oggi » dissi allungandogli il boccaccio.
Il bastardo, non appena lo prese, con un gesto rapidissimo della mano lo assicurò sotto l’ascella sinistra, scartò la gomma e se la infilò in bocca. Mi aveva fregato.
« Lascialo! » adesso ero io che cercavo di portarglielo via.
Michele non solo mi allontanò, ma aprì anche la bocca per farmi vedere la gomma impastata dalla sua saliva. Sapeva che adesso non avrei mai accettato di mangiarla e questo aumentò a dismisura il mio senso di frustrazione e il suo orgoglio di canaglia.
« Mollalo! Mollalo! Ladro! » mi fiondai con tutte e due le mani su di lui e afferrai il vasetto di vetro.
Ne nacque un tira e molla che durò più di un minuto, rotolati sul pavimento della sagrestia finché, dopo aver abbondantemente tirato in ballo le rispettive sorelle, “tac” ci ritrovammo separati, io con in mano il coperchio e lui con il resto del recipiente. La molla di ferro aveva ceduto. I “piccolini” volarono qua e là sul pavimento e in un batter d’occhio li vedemmo allontanarsi, due sotto l’armadio, tre sotto gli abiti di Don Donato, altri a grande velocità in direzione della porta d’ingresso che conduceva nella navata laterale della Cattedrale.
« Allora? Delinquenti! » Vito, il sagrestano si affacciò dall’ufficio di Don Donato. « Si può sapere che combinate? »
Michele, affannato e rosso in viso, come dovevo essere anch’io, mi fissava carico di rancore e allo stesso tempo incerto sulla giustificazione che avremmo fornito a quel ficcanaso di Vito.
« Che avete in mano? » riprese quello.
« Niente, Vito…. » fui io a parlare. « Non è nulla, solo un boccaccio di mia nonna. C’erano quattro fichi secchi e…. »
« E? »
« E quel…. quello str…. Michele me li ha fregati mentre mi stavo cambiando. »
Non avrei di certo potuto dire che sedici tarantole giravano allegre per la sua sagrestia e forse anche per questo il sagrestano continuava a fissarci con aria interrogativa, finché non ci disse di smetterla e filare via, ché altrimenti lo avrebbe detto a Don Donato e, per quattro fichi con le mandorle, addio prima comunione fino all’anno dopo.
« E adesso? » mi chiese Michele non appena fummo fuori dalla Cattedrale, rompendo il silenzio in cui si era usciti.
Non gli avrei più detto una parola, lo avevo giurato passando davanti alla cappella di Sant’Antonio, ma come mille altre volte fu la voglia di parlare che poté più della rabbia e delle promesse.
« Facciamo pace! Non l’ho fatto apposta! » ripeté mentre ormai avevo preso la direzione di casa.
« Non l’hai fatto apposta, eh? Ormai siamo “scompagnati a morte” » mi girai verso di lui disegnando una X con gli indici.
“Scompagnati a morte” era una minaccia seria, non c’era da scherzare. Michele diventò pallido.
« Ne troveremo altri! »
« Altri? E il rosso? Chi me lo ridà il rosso? » obiettai.
« Giuro…. il primo rosso che trovo…. te lo do » mi fece Michele che aveva allungato il mignolo destro.
« Allora? Pace? »
« Pace! Però ridammi il boccaccio, quello lo riporto a mia nonna. »
Arrivammo a casa mia. Giusto per dimenticare in fretta quella storia Michele continuò a parlare di ragni.
« Chissà dove sono andati a finire! » diceva. « Poveretti…. »
Gli feci notare che la Cattedrale era piena di buchi, soprattutto la sagrestia e quindi in un modo o nell’altro quelle bestiacce si sarebbero “rifatte una vita”.
« E il rosso? Dici che ne troveremo un altro così? »
« Come? Se lo troveremo? Ma se hai appena detto che sarai tu a trovarne un altro e a restituirmelo! » Dimenticava presto i debiti e quasi mi pentii di averlo perdonato, quando, dopo esserci salutati, lo vidi allontanarsi e continuare a masticare quella maledetta gomma.

« Santa Vergine! Che disgrazia! Ma com’è stato? » Era domenica mattina e nel dormiveglia riconobbi la voce di mia madre.
Subito dopo sentii la porta di casa richiudersi e il rumore di una lambretta che si allontanava nella strada. Doveva essere zio Arcangelo. Quando in paese succedeva qualcosa era lui che sapeva divulgare le notizie. In fondo bastava riferirle a due o tre donne, quelle giuste. Mia madre era una di loro.
Dovevano essere ancora le otto del mattino. La sentii entrare inella mia camera e chiamare nonna Maria.
« Svegghiate, mà! È morto lu prevete! »
« Uuuuh Madonn! E com’è stet? »
Dopo una serie infinita di lamentazioni, in cui quasi tutto il paradiso fu invocato, mia madre iniziò a bassa voce a raccontare la storia, non accorgendosi che anch’io mi ero svegliato e, con gli occhi spalancati, l’ascoltavo mentre stava seduta sul letto della nonna.
Avevano trovato Don Donato per terra, “lungo lungo” sul pavimento della sagrestia. Aveva indosso la veste per dir messa, quindi doveva essere successo a mattina presto, poco prima della funzione.
« Stava ccussì bell! » disse la nonna.
In effetti era vero, Don Donato era un omaccione alto come pochi in paese, con una chioma di capelli bianchi e due gote rosse come melograni in qualsiasi stagione. Tutta la sua figura ispirava salute.
« Sta la polizia in Chiesa, ancora non si capisce » chiuse mia madre. « Pace all’anima sua! »
Se fino ad allora ero stato solo pallido e frastornato, come sempre quando venivo svegliato di soprassalto, cominciai a sudar freddo non appena mi attraversò una preoccupazione: “I ragni”.
“E se fossero stati loro?” La domanda al ritmo della mia tachicardia diventò una certezza. Erano stati loro. Anzi, ne ero sicuro, era stato “il rosso”.
La sera prima tre di quei mostriciattoli si erano infilati sotto la veste di Don Donato, prima che Vito ci costringesse ad abbandonare in fretta la sagrestia.
Quella mattina il povero prete si era messo l’abito e “zac” era stato morso dal “rosso”. Doveva esser morto subito, “il morso di un rosso vale dieci di quelli normali” continuavo a ripetermi, non ricordandomi che me l’ero inventato per fare il sapientone con Michele. “Avevamo ucciso un prete”. Forse se si fosse trattato di una suora ce la saremmo cavata.
“Un prete no!”. Ci attendeva l’inferno.
“E la polizia?” mi domandai subito dopo. Se gli agenti avessero trovato i ragni nella cotta di Don Donato, avrebbero capito tutto. Mi venne in testa quella spia del sagrestano e ripensai anche a Crocetta. La bigotta avrebbe testimoniato contro di noi, dopo che per tutta la messa ci aveva visto confabulare sull’altare.
Prima dell’inferno, la galera si materializzò davanti ai miei occhi come una minaccia ancora peggiore. “Devo scappare”, anzi, dovevamo scappare, e per prima cosa avrei dovuto avvisare l’altro ricercato, Michele.
Rimasi nel letto un’altra mezz’ora architettando la fuga e alla fine mi decisi.
Scesi al pian terreno e, nonostante lo stomaco chiuso, mi imposi di far colazione e riempirmi più del solito. Forse saremmo rimasti giorni senza mangiare. Servivano nervi d’acciaio come quelli di Tex. Non sarei diventato molto diverso dal capo supremo di tutte le tribù Navajos. Ormai ero un “tizzone d’inferno”.
Mi presentai a casa di Michele che quella bestia ancora dormiva e chiesi a sua madre di svegliarlo con una scusa.
« Zia Filomena ci dà tre lire se l’aiutiamo a tagliare l’insalata. »
« Oggi? » mi rinfacciò dubbiosa la donna. « Di domenica? E la messa? »
« Abbiamo fatto da chierichetti ieri sera » risposi sollevato che lì la notizia non fosse ancora arrivata. « Oggi lavoriamo. »
La madre di Michele non parve molto covinta, ma andò lo stesso a chiamarlo. Dopo dieci minuti il disgraziato, che non si lavava la faccia neanche il giorno di Pasqua, si presentò in quell’ambiente che faceva da ingresso, cucina e sala da pranzo.
« Tua zia che? » mi domandò
« L’insalata! …. non ti ricordi? » ammiccai per fargli intendere che si trattava di un prestesto, mentre la madre aveva ripreso a cucinare il sugo di maiale.
« Insomma! Sbrigati! » Lo presi per mano e lo trascinai fuori, non senza che la donna ci facesse le solite raccomandazioni prima di richiudere la porta di casa.
Dopo una cinquantina di metri, durante i quali l’avevo tirato come si fa con un asino, Michele si liberò dalla presa.
« Mi vuoi dire che succede? A raccogliere la verdura di domenica non ci vengo! » si lamentò con gli occhi ancora pieni di muco.
« Dobbiamo scappare! » tagliai corto. « Invece di ringraziarmi, ché sono venuto qui a salvarti! »
« Scappare? E perché? »
« Don Donato è morto, è stato morso dai ragni! »
Michele non credeva alle storie normali, ma a quelle strane sì. Gli raccontai tutto e alla fine diventò ancora più preoccupato di me. Anche secondo lui la morte del prete aveva un unico responsabile: “Il rosso”.
« Vedrai, adesso ammazzerà anche qualche poliziotto che sta ispezionando il corpo del prete » mi disse moltiplicando le mie paure. Fatto sta che gli assassini, come ormai eravamo, tornano sempre sul luogo del delitto e anche noi finimmo per passare davanti alla Cattedrale.
Ci bastò vedere le tre Moto Guzzi della Polizia e una fiammante Giulietta 1300 color amaranto per darcela a gambe. Cinque agenti tenevano lontano i curiosi, che si accalcavano ai due lati del portale della Cattedrale e tra quelli c’era anche Crocetta. La sensazione che c’avesse visto aumentò la nostra ansia e, al termine di una corsa di mezz’ora, ci ritrovammo in aperta campagna.
« E ora? » mi chiese Michele, quando ormai avevamo superato la strada statale.
« Andremo verso il mare » dissi sicuro. « Lì troveremo una nave su cui imbarcarci. »
« Ma non possiamo fermarci? » cominciò a lamentarsi il mio amico che in effetti aveva la pancia vuota.
« Fermarci ora? Ma non l’hai capito che ci stanno cercando? »
« Nascondiamoci da qualche parte! » propose il mio compagno. « Aspettiamo che non ci cerchino più e poi fuggiamo con calma. »
“Diavolo d’un Michele!” pensai “Perché non c’ero arrivato io?”.
Ci riposammo sotto un vigneto a tendone. Era Agosto e l’uva regina già matura: il problema del pranzo era risolto.
« Se necessario mangeremo uva per un mese » a parlare era l’entusiasmo di Michele, che infilandosi a tre a tre gli acini in bocca aveva perso il senso della ragione.
« Chissà…. » dissi. « A casa saranno preoccupati? »
L’altro ricercato allontanò da me quei pensieri. Di sicuro a casa nostra era già piombata la Polizia, argomentava, e i nostri genitori avrebbero compreso la situazione. Meglio fuggiaschi che galeotti.
Avevamo le idee talmente chiare su cosa fare e dove andare che alla fine rimanemmo sotto il tendone fino a sera e forse ci avremmo trascorso anche la notte, se a un tratto non avessimo sentito in lontananza il rumore delle moto della Polizia che si avvicinavano. Nascosti dietro un piccolo muretto a secco li sentimmo discutere. Parlavano del prete, era chiaro, e più volte sentimmo pronunciare la parola ricercato.
“Ricercato? Ma se a scappare eravamo in due!” Forse tutte le colpe erano state attribuite a me, pensai. In fondo il boccaccio era mio. Oppure la Polizia aveva capito che la vera canaglia era il mio amico, perchè senza la frode della gomma americana di sicuro non saremmo arrivati a quel punto.
I dubbi erano tanti, la soluzione solo una. Continuare a fuggire.
« Andiamo di là » mi fece Michele non appena quelli si furono allontanati.
« Di là dove? »
« Di là, c’è casa di tua zia! » replicò il compare che quei posti li conosceva meglio di un gatto.
Lo seguii e in effetti dopo un quarto d’ora di cammino tra vigne, ulivi e alberi di fico, arrivammo dalla zia, scavalcammo il recinto e andammo a sdraiarci in una specie di fienile accanto a Buck. Il vecchio bracco mi riconobbe e accettò scondinzolando che passassimo la notte abbracciati a lui.

La verità è che in paese ci cercavano tutti e la morte del prete non aveva fatto altro che caricare d’ansia la fuga di due deficienti, come tante altre se ne verificavano ogni anno tra i ragazzini della nostra età.
Ma la notte non ci portò consiglio, anzi all’alba, quando ci rimettemmo in cammino per non essere scoperti da zia Filomena, a fuggire eravamo in tre, perché il cane decise di seguirci e a nulla valsero le minacce di Michele, che più volte fece finta di tirargli dei sassi.
« Lascialo venire con noi! » gli dissi non potendone più. « In fondo il cane potrebbe difenderci. »
« Quello lì? » obiettò il mio compagno. « Ma non lo vedi? Non ha più la forza di addentare un biscotto! »
« Vuol dire che quando si sarà stancato tornerà a casa da solo » ammisi guardandolo mentre con la lingua da fuori ci scortava in quella che si preannunciava una caldissima giornata d’Agosto.
Il concerto di cicale, il profumo della terra arida e degli alberi di fico cotti dal sole erano capaci di stordire chiunque si fosse avventurato in quelle terre dopo le undici del mattino. Non fu tanto la lontananza da casa quanto la fatica a spingerci verso un luogo che già conoscevamo.
Quasi senza volerlo ci eravamo riavvicinati al paese e ci sentimmo a casa quando approdammo all’ombra della vecchia Masseria. Era lì che cacciavamo i ragni e, in fondo, se gli animaletti avevano colonizzato quel terreno un motivo doveva esserci. Lì non passava mai nessuno e nessuno ci avrebbe cercati.
« Beh vado a far visita a qualcuno » disse Michele, dopo aver mangiato come me una decina di fichi. Aveva già un legnetto in mano.
« Ma possibile? Anche adesso pensi ai ragni? » gli contestai seduto all’ombra di quel vecchio edificio con accanto il bracco che ansimava. « E poi dove li metti? »
« È solo per vedere se a quest’ora sono in casa » rispose un pò imbronciato il matto. « E poi devo restituirti il rosso, ricordi? »
Gli feci un cenno con la mano per dirgli che non mi interessava e che se voleva ci sarebbe andato da solo. Il cacciatore si allontanò in preda a quello che, manifestandosi a quell’ora e in tali circostanze, si sarebbe potuto definire un vizio.
Scomparve dietro l’angolo della costruzione diroccata per recarsi nel cortile retrostante. Lì, vicino ai fichi d’india e a un piccolo locale ormai fatiscente, un vecchio ripostiglio per zappe e picconi, c’era il maggior numero di tane. Mi pentii di avergli detto che il rosso l’avevo trovato lì. I posti migliori voleva la prassi che restassero segreti, ma in fondo la nostra vita futura sarebbe stata lontana dal paese, dalla Cattedrale, dalla masseria e dai ragni. Il respiro ritmato del cane e la calma che mi trasmise tenere la mano sulla sua testa mi aiutarono ad assopirmi e a dimenticare dove mi trovassi.
Non ricordo quanto dormii, di sicuro non più di un quarto d’ora, perché a stanarmi come un ragno da quel rifugio della coscienza furono le grida del mio sventurato compagno.
« Nicola! Nicola! Aiuto! Aiuto! »
Corsi come un folle sul retro della masseria a una velocità che il povero Buck non poteva sostenere e non appena i miei occhi si adattarono alla prepotenza della luce del sole che si rifletteva in quel cortile polveroso, inquadrai Michele e la figura di un uomo che lo tratteneva tenendogli il braccio destro torto dietro la schiena.
« Ah disgraziato, ci sei anche tu! » gli sentii dire quando fui tanto vicino da riconoscerne la figura. Era Vito, il sagrestano.
« Non siamo stati noi! » mi venne istintivamente. « Sono stati i ragni! » dissi convinto che quello spione ci stesse braccando per l’omicidio di Don Donato.
« Se non vuoi che stacchi il braccio al tuo compare, avvicinati e sta’ zitto! Questa faccenda la risolveremo subito…. »
Michele continuava a dimenarsi, ma i calci e i pestoni di un ragazzino di otto anni non potevano nulla contro la determinazione di quell’uomo che mi intimò di seguirlo verso un’estremità del cortile, lì dove sapevo che c’era la vecchia cisterna.
« Mi fai male! Lasciami! Nicola, chiama qualcuno! » continuava a ripetere tra le lacrime l’amico, ma le paure fino ad allora legate all’idea che quell’uomo ci avrebbe consegnato agli sbirri, divennero di tutt’altro “calibro” quando vidi nei pantaloni di Vito una pistola.
Mentre ero rassegnato a seguirlo vidi sbucare dall’altro angolo del cortile il cane.
Forse richiamato dai lamenti di Michele, cominciò ad avvicinarsi di soppiatto come avrebbe fatto con una quaglia o un fagiano. Non so dove il vecchio Buck avesse trovato le forze, ma prima che quel delinquente si fosse accorto del suo arrivo, gli piombò addosso e lo azzannò.
« Ahi! Maledetto! » Vito cominciò a urlare e a scuotere il braccio sinistro. « Via! Via! Brutto bastardo! » Il vecchio “leone” gli rimaneva incollato e, preso coraggio, ringhiava e dimenava la testa come fanno i cani da caccia quando recuperano la preda.
Dai pantaloni dell’aguzzino fuoriuscì un bel mazzo di banconote da cinquanta lire.
« Bravo bello! Non lo mollare! » lo incitò Michele, che liberatosi non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione di sferrare un calcio di rigore in bocca al sagrestano, ridotto a terra dall’animale.
Fortuna volle che alle urla dell’uomo e al ringhio di Buck si sovrappose il rumore rassicurante di una lambretta. Zio Arcangelo, che dal giorno prima continuava a perlustrare le campagne alla nostra ricerca, sistemò le cose da bravo guardiano qual era. Mise un bel piedone su quel vigliaccio e lo colpì con il calcio della sua doppietta.

Riportati a casa, ci fu tutto chiaro. Il vero ricercato, ladro di elemosine e assassino, aveva incrociato il percorso di due cialtroni come noi, cui non mancarono punizioni e ceffoni per lo spavento procurato a tutti.
Nel 1966, quando ero al secondo anno di Biologia dell’Università di Bari, scoprii altre tre cose: che la Lycosa tarentula non ha un morso mortale, che Minguccio il figlio di “tranciaferro” forse era stato morso davvero, che i ragni rossi non sono più pericolosi di quelli neri.
Tuttavia un dubbio mi è rimasto. Non era trascorso nemmeno un mese dalla nostra fuga.
Tesi il piattino sotto le fauci di Crocetta, al fianco di Don Saverio, da poco nuovo arciprete della Cattedrale.
« Ammèn! » rispose la donna.
La prospettiva offertami dalla mia bassa statura mi fece fece notare sotto il corpo di Cristo uno strano passeggero.
“Il rosso. Ecco dov’era finito!” La donna come sempre mi fulminò con lo sguardo e iniziò a masticare più tenacemente del solito, in preda a una fame liturgica, in cui il ragnetto, dopo aver già subito la transustanzazione, stava conoscendo anche la digestione.
Due giorni dopo io e Michele tremavamo di nuovo quando, accanto a Don Saverio e con Crocetta in un letto, fummo chiamati per dispensarle l’estrema unzione.