di Aldo Moscatelli
da I racconti nel Castello,
antologia della Prima edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
Nell’ottobre del 1943 un uomo fuggiva da Pisino, nel bel mezzo dell’Istria, portando con sé un vecchio fucile e due mele nascoste nelle tasche dei pantaloni.
I capelli neri e arruffati si appiccicavano regolarmente alla fronte madida, le braccia mulinavano avanti e indietro, sempre più rigide. Il respiro corto modellava nuvolette destinate a scomparire dopo pochi secondi, assieme alle sue energie. E a riformarsi altrettanto velocemente assieme alle sue speranze.
Il padre l’aveva svegliato presto, quella mattina. Nemmeno albeggiava. Poi aveva tenuto uno strano discorso: restare qui è diventato pericoloso, quelli del Comitato Popolare rastrellano le abitazioni e fucilano tutti. Senza processi, e soprattutto senza ragioni. Sono pazzi, ti dico. Pazzi. Questa è la bella libertà che ci prospettano. Ragazzo mio, tu hai ventidue anni e del mondo non sai ancora nulla. Sei un po’ ingenuo, ma buono. E hai la salute, le tue gambe possono portarti lontano. Allora fa’ una cosa: prendi il fucile e un paio di mele, corri verso Buzet e cerca la chiesa di San Giorgio. Da lì dovrai percorrere un altro po’ di strada, sali nella direzione della collina e alla fine vedrai il castello di Pietrapelosa. Lo riconoscerai perché ha le mura annerite, per via di un vecchio incendio. Non ci vive nessuno, non darai nell’occhio. Nei pressi ci sono alberi da frutto e un vecchio pozzo. Avrai di che sopravvivere. Resta lì e non muoverti, io proverò a raggiungerti appena possibile. Hai capito bene? È importante che tu segua alla lettera i miei consigli, o per te sarà la fine.
Ulteriori raccomandazioni e un abbraccio più stretto del solito avevano sancito l’addio. Poi il ragazzo ingenuo si era allontanato nella direzione indicata.
Nell’ottobre del 1943 un uomo fuggiva da Rovigno, nell’Istria sud-occidentale, portando con sé un vecchio fucile e nient’altro.
I capelli corti e rossicci erano ormai impregnati di nebbia e sudore, in un miscuglio che bruciava cute, fronte e occhi. Vedeva poco o nulla del paesaggio circostante, ma sapeva di dover correre. Era fuggito la notte precedente assieme a tre amici, percorrendo in compagnia un buon pezzo di strada per poi dividersi nei pressi di un vecchio borgo. Gli altri nutrivano speranza di ottenere ospitalità presso un parente o un conoscente, il ragazzo coi capelli fulvi invece non aveva nessuno, se non il proprio bagaglio di cultura e la propria astuzia.
Sapeva di essere braccato dalla settima divisione tedesca, ma pensava fra sé: “Nessuno conosce meglio del sottoscritto queste zone. Ho letto e studiato, fra breve giungerò nei pressi della chiesa di San Giorgio e da lì al castello di Pietrapelosa. La zona è deserta e il rudere disabitato, nessuno ci mette piede dai tempi dell’incendio. I crucchi non mi avranno mai, quell’idiota del Fuhrer dovrà farsene una ragione.”
Al pensiero di mettere nel sacco un’intera divisione nazista, un tenue sorriso giungeva a infondergli un po’ di conforto, e la nebbia pareva diradarsi per qualche istante.
Fu con questo spirito che proseguì imperterrito in direzione nord-est.
Il ragazzo ingenuo capì di aver smarrito la strada a cosa fatte, dopo aver seguito la direzione errata per tutta la notte. In mezzo alla boscaglia non vedeva niente, poi tutti quei rumori strani e quelle ombre l’avevano impaurito, così per evitare i primi aveva optato più volte per il giro largo, ma al cospetto di ombre minacciose era tornato indietro dimenticando regolarmente da quale parte fosse giunto. Alle prime luci dell’alba non vide la chiesa di San Giorgio né il castello di Pietrapelosa, e si chiese che fare. Ricordò allora il monito del padre e tornò a correre senza meta, seguendo semplicemente il proprio istinto. Fu soltanto dopo sei ore di cammino che s’imbatté nel torrione più alto di un antico maniero. Non si trattava del castello a lungo cercato però, dal momento che in zona non erano visibili alberi da frutto, pozzi o mura annerite. Soltanto un’antica costruzione collocata sulla cima di un belvedere. In giro non c’era anima viva. Pose le mani sui fianchi, sorrise e la fissò estasiato: poteva andare bene ugualmente.
Il ragazzo fulvo sfidò le ombre e i sussurri della boscaglia, deciso a non indietreggiare per alcun motivo. Aveva un obiettivo e l’avrebbe raggiunto, a tutti i costi. Era stata sempre così la sua vita, da quando – sette anni prima – un manipolo di invasati gli aveva brutalmente ucciso genitori e sorelle, al confine con l’Italia. Da allora non aveva paura di nulla, men che meno di qualche gufo sbraitante.
Eppure a un certo punto comprese di essersi allontanato dalla strada maestra e di brancolare nel buio. Non solo metaforicamente. Decise allora di cercare un riparo e di riposare qualche ora. L’idea di accendere un fuoco per tenere a debita distanza eventuali belve gli sfiorò il pensiero, ma temeva belve d’altra specie, quelle con la croce uncinata. Ignaro del luogo in cui si era smarrito, e della posizione dei suoi inseguitori, preferì dunque approntare un giaciglio e attendere da sveglio le prime luci del sole, col fucile a portata di mano.
Il mattino seguente aprì gli occhi, voltò lo sguardo verso sinistra e sbadigliando rilevò la presenza di un piccolo castello. Non era il castello di Pietrapelosa però, l’aveva rimirato svariate volte in foto e sapeva che non poteva essere quello. Tornò in piedi, compì alcuni passi nella direzione della fortezza e cercò di ricordarne il nome, perché lui aveva letto tanto nella vita e non poteva esistere un castello del quale ignorasse l’esistenza, ma anche osservandola da vicino non gli sovvenne nulla. Compì il giro del perimetro e notò un uomo che, mani sui fianchi, sorrideva beatamente.
Caricò il fucile e lo raggiunse di soppiatto.
Si ritrovarono a tu per tu nel silenzio della radura. L’ingenuo teneva l’arma a tracolla e non osava imbracciarla, il fulvo attendeva di ricevere una risposta. Dopo alcuni attimi ripeté la domanda:
« Chi sei, e che ci fai qui? »
Il ragazzo raccontò brevemente la sua storia, sperando in cuor suo che l’estraneo non premesse il grilletto in preda al nervosismo. Cercò di restare calmo e nonostante qualche balbettio portò a termine il resoconto. L’altro ascoltò tutto senza mai mollare la presa del fucile, studiò l’atteggiamento del giovane e alla fine si convinse di non avere nulla da temere. Chiese soltanto da chi scappava.
« Dal Comitato Popolare. Papà dice che quella è gente cattiva » rispose l’ingenuo.
« Cattiva? Ma quanti anni hai? »
« Ne ho compiuti da poco ventidue. E tu? »
L’uomo ci rifletté un attimo. Dopo aver perso i genitori non aveva più festeggiato il suo compleanno, ragion per cui non gli capitava spesso di dover rammentare la propria età. Ricorse a un breve calcolo mentale prima di rispondergli.
« Ventinove a giugno, se ben ricordo. »
« Ventinove? Io li compirò fra sette anni » osservò l’altro.
Il fulvo sorrise: aveva di fronte un ragazzo sempliciotto ma simpatico, e soprattutto innocuo. La tensione si sciolse e continuarono a parlottare dopo aver poggiato sull’erba i rispettivi fucili, in segno di distensione. Scoprirono così che entrambi avevano cercato invano il medesimo castello, per poi ritrovarsi lì. Allo stesso tempo, nessuno dei due aveva la più pallida idea di quale roccaforte svettasse davanti ai loro occhi. Dopo un breve conciliabolo decisero comunque di cercare una via d’entrata: l’ingenuo avrebbe esplorato il lato est, il fulvo quello ovest.
A distanza di quindici minuti il ragazzo più giovane lanciò un urlo per informare il compagno di un’importante scoperta: una porzione di muro presentava uno squarcio attraverso cui, con un po’ di fortuna, era possibile accedere all’interno. Il fulvo constatò che, in effetti, alcuni mattoni erano stati abbattuti, forse da qualche ladro. Si complimentò col ragazzo ed entrò per primo, raccomandandogli di tenere gli occhi aperti. L’ingenuo assentì e pensò che non gli era andata poi così male, dal momento che lo straniero sembrava gentile e ben disposto nei suoi confronti.
Un giro di perlustrazione confermò che il maniero era disabitato e forse più grande di quel che sembrava dall’esterno. Le stanze erano una decina, piuttosto spaziose ma disadorne e in totale stato di abbandono. Un po’ ovunque dominavano ragni e muffe, il puzzo di umidità talvolta lasciava senza fiato. Ma i due uomini non potevano chiedere di meglio. Erano fuggiti dalla guerra e si ritrovavano nella quiete di un luogo apparentemente sconosciuto. Niente urla, niente spari, niente implorazioni. Soltanto silenzio.
In un vecchio armadio reperirono alcune coperte impolverate, che sistemarono alla meglio sugli scheletri di antichi letti. Ognuno scelse la stanza nella quale riposare, erano distrutti e non avevano voglia di preoccuparsi d’altro. Occuparono i rispettivi talami e sprofondarono in un sonno senza sogni.
Riaprirono gli occhi nel pieno della notte. Il primo a svegliarsi fu il ragazzo fulvo, che serbava in una tasca dei fiammiferi e un pacchetto di sigarette. S’avventurò nell’oscurità col favore della luce lunare e raccolse un po’ di sterpaglie, grazie alle quali riuscì ad accendere un piccolo falò nel bel mezzo dell’atrio principale. Fu proprio in quei momenti che il ragazzo ingenuo lo raggiunse. Gli offrì una delle due mele portate da casa, il fulvo si sdebitò con una sigaretta. Restarono seduti sul nudo pavimento per un po’, a gambe incrociate, ascoltando con piacere lo scoppiettare della legna. Il più giovane si dichiarò preoccupato per il padre, che probabilmente già lo attendeva in un altro castello.
« Penserà che mi è successo qualcosa… qualcosa di brutto » ammise con una smorfia.
« Potresti raggiungerlo in seguito » suggerì l’altro.
« Non conosco la zona, e da qui è difficile orientarsi. »
« Nel Diciassette, durante la Grande Guerra, i miei genitori restarono divisi per otto mesi. Alla fine riuscirono comunque a ritrovarsi. Succederà anche a voi due, stai tranquillo. »
L’ingenuo sollevò le spalle e rispose: « Forse per loro era destino. »
Il fulvo rise e osservò: « Destino? No, semplice fortuna. L’unico colpo di fortuna della loro vita. »
« Li stai cercando? » chiese l’ingenuo tenendo fede al suo soprannome.
« I fascisti li hanno ammazzati come cani, sette anni fa. »
L’interlocutore chinò il capo e farfugliò qualcosa, probabilmente delle scuse. Guardò la cenere sul pavimento e disse: « Papà dice che fino a qualche tempo fa qui si stava bene, la gente andava d’accordo. »
« Tuo padre ha ragione, in questa terra si è rotto un equilibrio. »
« Un… equilibrio? » domandò confuso il ragazzo.
« Proprio così. L’ho letto in un libro, ma basta guardarsi attorno per capire quant’è vero. Se piove troppo è un danno, se piove poco è una tragedia. Pochi uccelli proteggono la vigna dagli insetti dannosi, troppi uccelli devastano l’uliveto. Riflettere a lungo denota saggezza, riflettere e basta denota ossessione. Occorre misura, armonia. La pace si basa su questi presupposti, la guerra deriva sempre e soltanto dalla rottura di un equilibrio. »
« E chi è che lo rompe? » domandò candidamente l’ingenuo, dando l’impressione di aver afferrato il senso del discorso altrui.
« Qualcuno ti farebbe nomi e cognomi, io credo invece che in questi casi inizia una persona e gli altri si accodano. Vengono incoraggiati a nutrire timori e dubbi di ogni specie. E allora seguono la corrente. Per paura. Per sospetto. Poi c’è l’eventualità di ottenere un vantaggio, che giustifica tutto e legittima tutti. Ma da queste premesse non può nascere nulla di buono. »
L’ingenuo tentò di comprendere il senso di quelle frasi, e così facendo si chiuse in un silenzio meditabondo. La conversazione languiva, quindi il fulvo domandò a sua volta:
« A te hanno mai ammazzato un familiare? »
L’altro scosse la testa energicamente, dal momento che la sola idea lo terrorizzava. Aggiunse: « Hanno portato via la mamma, però. Due giorni fa. »
« Per quale motivo? »
« Non lo sappiamo. Sono uomini cattivi, papà li chiama i rossi. E dice che i rossi non hanno bisogno di un buon motivo per ucciderti. »
Il fulvo lo guardò negli occhi, pensieroso.
« E se ti dicessi che sono anch’io un rosso? » domandò.
L’ingenuo rimase in silenzio per alcuni secondi, la fronte aggrottata lasciava trasparire un flusso di pensieri senza voce. Poi si grattò la nuca e rispose:
« Tu sei bravo, non puoi essere rosso. Al massimo arancione. »
L’altro rise istintivamente e ammise: « Forse è vero, sono arancione ».
Spensero all’unisono le loro sigarette e infine andarono a dormire.
Nei giorni successivi l’ingenuo manifestò più volte la volontà di allontanarsi per cercare il castello di Pietrapelosa e quindi il padre. Il fulvo lo riportò ogni volta alla ragione, avvertendolo dei rischi cui andava incontro e consigliandogli di seguire il monito dell’anziano genitore. Per lui era evidente che il padre aveva soltanto espresso un desiderio: quello di sapere il figlio al sicuro, lontano dalla guerra. Forse perché consapevole che a lui, invece, la guerra avrebbe strappato una moglie e finanche la sua stessa vita.
In qualche modo iniziò a sentirsi responsabile della vita dell’ingenuo.
La sopravvivenza dei due ragazzi fu garantita da un fiumiciattolo che scorreva nei pressi del rifugio, nonché da piante commestibili e alberi da frutto rinvenuti al di là dell’argine. Non si spostarono mai per più di un chilometro, nel timore di imbattersi in qualche nemico. Rosso o nero non importava.
Il fulvo tentò in tutti i modi di comprendere in quale zona dell’Istria fossero andati a finire, ma nei suoi calcoli quel castello non doveva trovarsi lì, e così il fiume.
Il fiume poteva essere un affluente del Quieto, oppure della Dragogna, e tuttavia la posizione, il percorso e le dimensioni sembravano smentire ogni ipotesi. Era l’atteggiamento dello studioso a reclamare precisazioni in merito, ma alla lunga lasciò perdere tutta quella smania di risposte e tornò a comportarsi come un normale fuggitivo.
L’ingenuo non pensava che al padre, pregando per lui ogni sera nel chiuso della sua stanza. Proveniva da una famiglia di ferventi cattolici e spesso nutriva il dubbio che fosse quella la colpa dei suoi genitori, agli occhi dei rossi. Anche lui però preferì accantonare presto le inquietudini che lo tormentavano, ricordando le parole del saggio padre: tu del mondo non sai ancora nulla.
Trascorsero i giorni, in una quiete monotona e quindi irreale. Non si udivano spari, vicini o lontani, e nessun soldato transitava mai da quelle parti. I ragazzi passavano il tempo chiacchierando del più e del meno, sebbene uno dei due non fosse particolarmente aduso alle lunghe conversazioni, e spesso esploravano il castello in cerca di passaggi segreti e leggendari tesori. Favoleggiavano per non annoiarsi, ovviamente, ma in effetti qualcosa trovarono, sebbene per puro caso: un piccolo scrigno, delle dimensioni di una pagnotta, rinvenuto dall’ingenuo nel cassetto di un comò ormai divorato dalle tarme. Il mobile fatiscente si trovava però nella stanza del fulvo, era stato lui a chiedergli di rovistare in giro mentre andava in cerca di bacche commestibili. Non fu possibile stabilire se contenesse o meno qualche oggetto di valore, era chiuso a chiave e la chiave non c’era. Agitandolo non emetteva alcun rumore. Provarono a forzarlo in parecchi modi, ma senza esito. Persino una fucilata da corta distanza non sortì effetti.
Fu a quel punto che il fulvo, infastidito dai continui fallimenti, affermò che l’avrebbe forzato a tempo debito, magari dopo aver varcato il confine. L’ingenuo fece presente che era stato lui a trovare lo scrigno, l’altro precisò che il ritrovamento era avvenuto nella sua camera da letto.
« Quella stanza non è tua, ci dormi soltanto » osservò l’ingenuo. L’interlocutore sorrise e gli spiegò che probabilmente quella cassetta non conteneva alcunché.
« Lasciala a me allora, sono io che l’ho trovata » ribadì il ragazzo.
Al fulvo tutte quelle rimostranze non piacquero, così ripose lo scrigno nel mobile e dichiarò che non l’avrebbe avuto nessuno. L’ingenuo non disse nulla, ma si allontanò accigliato. Andarono a dormire senza rivolgersi la parola. L’ingenuo si addormentò pensando di avere a che fare con un avido doppiogiochista, forse si trattava davvero di un rosso. Il fulvo pensò che nessuno avrebbe mai chiuso in quel modo uno scrigno vuoto, e a lui un qualche oggetto di valore poteva far comodo sul serio, ben più che a un ragazzetto di campagna. Dopotutto, chi era l’orfano fra i due?
Nel pieno della notte il castello scricchiolò. I dormienti non si accorsero di nulla, da svegli avrebbero pensato a un terremoto o a un cedimento strutturale. In verità non furono soltanto le fondamenta a incrinarsi, ma l’intera costruzione: i soffitti, le mura, le volte, tutto.
L’equilibrio era stato infranto.
Il mattino seguente si comportarono come al solito, fingendo spudoratamente di non nutrire alcun risentimento per la discussione della sera passata. Il fulvo si allontanò come sempre per andarsi a lavare nell’acqua gelida del fiume, ma al ritorno aprì subito il cassetto del comò per essere certo che lo scrigno non fosse stato rubato. E in effetti era lì. Ignorava però che in sua assenza il ragazzo ingenuo aveva compiuto la medesima ricognizione, tirando un sospiro di sollievo nel vedere la cassetta di ferro al suo posto.
Quel che preoccupò maggiormente l’uomo coi capelli fulvi, al ritorno dal fiume, fu invece una bizzarra constatazione: il castello sembrava leggermente più piccolo. Bastava osservarlo dall’esterno per rendersene conto. Un abbaglio? Uno scherzo giocato dalla distanza e dall’angolazione? Senz’altro, si disse. Ridacchiò della propria stupidità e tornò nella sua camera.
Il giorno successivo i due uomini seguirono il medesimo iter. Non si fidavano, e mascheravano questa diffidenza nel peggiore dei modi: blaterando di comportamenti errati e amicizia sincera, e prospettando addirittura l’equa ripartizione dell’introito ottenuto con un’eventuale vendita dello scrigno e del suo contenuto, ormai chiodo fisso nelle loro esistenze.
Il fulvo nel frattempo continuava a notare strani giochi prospettici, nella settimana che seguì colse piccole ma significative riduzioni nella larghezza e nell’altezza delle mura. Pochi centimetri al giorno. Un pomeriggio chiamò l’ingenuo e glielo fece notare. L’ingenuo pensò che il suo compagno fosse sul punto di impazzire, o forse desiderava spaventarlo con uno scherzo di cattivo gusto.
A distanza di dieci giorni dal loro primo incontro, l’ingenuo poggiò il fucile su una parete della sua stanza e poi andò a dormire. Al mattino trovò il fucile adagiato sul pavimento. Chiese spiegazioni al fulvo nella convinzione che fosse stato lui a prenderlo. Quest’ultimo lo rassicurò in tutte le maniere possibili, ma non ci fu verso di convincerlo: l’ingenuo iniziò a temere per la propria vita, pensava che il compagno sabotasse di nascosto la sua arma, quindi prese a dormire col fucile stretto fra le mani. La condotta paranoica del ragazzo destò grande preoccupazione nel fulvo, che parimenti iniziò a dormire col fucile stretto tra le mani. Si giustificò tirando in ballo un presunto buonsenso.
Due settimane dopo l’ingenuo riuscì con notevole sforzo ad attraversare la crepa che, diversi giorni addietro, aveva consentito a lui e al suo compagno di entrare nel maniero. Adesso sembrava più piccola, lo dimostravano le maniche strappate all’altezza dei gomiti. Decise però di non dire nulla al fulvo. Evitava di parlargli, anche perché aveva notato che il comò con lo scrigno era stato spostato di un buon metro rispetto alla posizione originale. Forse aveva provato a trascinarlo al di fuori del castello, per fargliela sotto il naso. Teoria insensata che paradossalmente aveva colpito anche la fantasia del fulvo, sicuro com’era che la scarsa intelligenza avrebbe portato il ragazzo più giovane a compiere qualche gesto scriteriato, prima o poi.
Un mese più in là l’ingenuo capì che il fulvo non scherzava: il castello stava diventando più piccolo, senza alcun dubbio. Bastava sollevare un braccio per sfiorare arcate un tempo distanti. Si recò nella stanza dell’uomo, che ormai non usciva dal castello da un’intera settimana, e lo sorprese a spostare il comò. Chiese immediatamente spiegazioni, ma il fulvo lo aggredì per primo sostenendo che durante la notte qualcuno si era divertito a trascinare il mobile verso l’uscita, nonostante lui dormisse a pochi metri di distanza. L’ingenuo chiese dove fosse il baule, il fulvo aprì spazientito il cassetto e mostrò l’oggetto della contesa. Tranquillizzato da quella visione, ricordò il motivo che l’aveva spinto a recarsi da lui e prese a parlare delle incredibili modificazioni in atto nella struttura del castello. Il fulvo pensò che il ragazzo volesse utilizzare a proprio vantaggio una constatazione altrui. Per incutergli paura, e obbligarlo così ad abbandonare il castello. Sofismi da due soldi, decretò sorridendo. Allora lo sfidò ad abbandonare per primo quella stanza e, se voleva, pure il castello. L’ingenuo capì il giochetto del fulvo e gli disse che da lì non si sarebbe mosso. Benissimo, rispose l’altro. Avvicinò una vecchia sedia, ci si accasciò sopra e pose il bauletto ai suoi piedi, specificando che lui avrebbe fatto altrettanto. L’ingenuo prese posto su un’altra sedia e incrociò le braccia.
Da quel momento in poi lo spazio circostante iniziò ad alterarsi più velocemente, seguendo regole proprie.
A distanza di tre ore la camera aveva cambiato conformazione, restringendosi in maniera proporzionale: le pareti risultavano più corte in larghezza e in altezza, il soffitto distava ormai pochi centimetri dalle teste dei due uomini. Che però non si mossero.
Sei ore dopo il comò era già scivolato fuori dalla stanza in seguito ai mutamenti silenziosi del castello, il letto invece cominciava a scricchiolare sotto la spinta della parete di sinistra. I due uomini non si mossero. Erano affamati e assetati, faceva un caldo incredibile e la carenza di ossigeno li obbligava a chiudere gli occhi per lunghi minuti, ma resistevano stoicamente. In quei frangenti l’ingenuo pensò che il fulvo fosse uno stregone o qualcosa del genere. Il fulvo era ormai certo che il castello sorgesse su un terreno attraversato da scosse telluriche, e che presto sarebbe crollato seppellendoli. Un po’ d’aria fresca avrebbe reso entrambi meno irrazionali. L’ingenuo aveva paura degli stregoni ma era pronto a dare battaglia per entrare in possesso dello scrigno. Il fulvo aveva paura dei terremoti ma era pronto a dare battaglia per una questione di principio: non poteva mettere nel sacco una divisione nazista e lasciarsi fregare da un ritardato.
Trascorse dodici ore i due si videro costretti ad abbandonare le sedie, perché il soffitto adesso era alto non più di un metro e mezzo e bisognava adeguarsi.
Diciotto ore dopo i due uomini si ritrovarono stesi per terra, sotto il letto. Lo scrigno era sempre lì, davanti ai loro occhi. Non sembravano intenzionati a mollare, lo sguardo si posava alternativamente sul viso dell’avversario e sulla superficie lucida della scatola. Chiedersi il senso di tutta quella situazione equivaleva a ristabilire un ordine mentale che non potevano concedersi.
L’indomani dovettero assumere la posizione fetale, perché le pareti laterali convergevano verso il centro e rischiavano di restarne schiacciati.
Dopo trentasei ore la stanza del fulvo era ridotta a un rettangolo di due metri per tre. Il soffitto premeva contro le loro facce, quando cercavano di ruotare la testa in cerca d’aria avvertivano il tanfo dell’umidità.
Quarantotto ore più tardi si aprì una grossa fessura nel pavimento e i due uomini vennero inghiottiti senza opporre resistenza, poiché l’antica camera da letto non esisteva più, e nemmeno il castello. Persero i sensi quasi immediatamente, per via della disidratazione e del poco ossigeno.
Si risvegliarono in contemporanea un mattino. Il fulvo riuscì a sollevare lo sguardo e capì che i loro corpi erano scivolati sempre più in basso. Si trovavano all’interno di una cavità strettissima, a forma d’imbuto irregolare. Le pareti erano fatte di roccia, probabilmente carsica. Poteva cogliere la luce del sole, un raggio lo accecava e con le forze residue stimò la profondità in circa cinque metri. L’ingenuo lo guardò e chiese debolmente dove fosse andato a finire lo scrigno. Ce l’hai davanti agli occhi, gli rispose il fulvo. Ma l’ingenuo non vedeva più nulla.
Fu il primo a smettere di respirare. Il compagno non lo capì nemmeno. Convinto che dormisse, cercò di trascinarsi in superficie portando con sé lo scrigno, ma aveva un piede incastrato e nonostante i vari tentativi non gli fu possibile risalire di un solo centimetro. All’improvviso il raggio di sole che lo abbagliava scomparve. Pensò a una nuvola di passaggio, sollevò lo sguardo e l’ultima cosa che vide fu il corpo di una donna che precipitava dall’alto, investendolo in pieno.
Che quelle cavità si chiamassero foibe lo sapevano entrambi da sempre.
Il modo in cui sarebbero state utilizzate lo avrebbe rivelato la Storia.
Gli scheletri dei due uomini e della donna furono rinvenuti solamente quarant’anni più tardi.
Della donna si seppe che era stata scaraventata già morta nella fenditura rocciosa, giustiziata dai volenterosi carnefici di Tito. Degli uomini non si riuscì a scoprire l’identità. L’analisi della struttura ossea rivelò l’assenza di traumi o ferite mortali, ragion per cui nessuno comprese mai come fossero caduti – per spinta, per volontà o per un semplice incidente – all’interno della foiba.
Fu però rinvenuto uno scrigno di dubbia origine, collocato fra i corpi dei tre. Non era chiuso a chiave, per aprirlo fu sufficiente sollevare il coperchio.
Dopo un’attenta osservazione risultò vuoto.