6 Marzo 2020

La torre dell’orologio

di Cosimo Buccarella

da I racconti nel Castello,
antologia della Prima edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.

Il tempo è la mia ossessione. Se segna un orario, non c’è display o quadrante che io non individui immediatamente. Non c’è ticchettio di lancette che mi sfugga. So decifrare l’ora dalla posizione del sole e delle stelle, in questo e nell’altro emisfero, con uno scarto di quindici minuti.
Il tempo è l’unica cosa che mi interessi. Sapete quanto ci si impiega per fumare una sigaretta? In media sei minuti. E per soffiarsi il naso? Circa diciassette secondi. Quando accendo la mia fotocamera digitale, è pronta a scattare in un secondo. L’ho scelta apposta perché fosse veloce. Perché il tempo è l’unica cosa che conta.
Non so da dove derivi questa mania. Non so nemmeno se la si possa considerare davvero tale: sono gli altri che la chiamano così. Per me è tutto automatico. Non guardo un orologio consapevole di farlo; succede perché i miei occhi vanno in quella direzione. Forse è nei miei geni che è scritto che debba essere così.
Ricordo che quand’ero bambino osservavo mio padre lavare i piatti, nei pomeriggi silenziosi d’estate. La cucina in penombra era l’unica stanza della casa in cui si poteva trovare un po’ di refrigerio in quelle ore roventi. Mio padre lavava i piatti e io lo osservavo, e nessuno dei due parlava. Poi un giorno mi avvidi che in quel suo stare così assorto non stava soltanto lavando i piatti. Qualcosa nella sua mente viaggiava indipendentemente dal movimento della spugna sulla forchetta. Lo notai dai movimenti della sua mano, che di tanto in tanto teneva sospesa brevemente in aria, muovendo le dita come se suonasse un pianoforte.
« Che cosa fai, papà? » gli chiesi.
« Lavo i piatti, no? »
« Lo so. Ma fai altro? Con le mani, dico. Come adesso. » La sua mano destra, sospesa in aria, si immobilizzò per un attimo. Le dita furono scosse da un leggero tremore. Quindi, come incapaci di restare ferme ancora, ripresero a muoversi.
« Li conto » rispose infine.
« E perché? »
« Così. Li conto e basta. »
Ma per me non era sufficiente. Per nessun bambino lo sarebbe stato. « E quanti sono? » gli domandai ancora.
« Cinque piatti, tre bicchieri, cinque forchette, sei coltelli e due cucchiaini. »
« Allora usiamo più coltelli che altre cose? » chiesi, ansioso di capire il perché di quei conteggi. « E come mai? »
« Non lo so » mi rispose. « Io li conto e basta » e la sua mano tornò a muoversi nell’aria.
Se mio padre mi avesse rivolto domande simili alle mie, avrebbe scoperto che impiegava sei secondi a insaponare un piatto, ma solo quattro per risciacquarlo. E avrebbe scoperto che non sapevo che significato avesse tutto ciò. Sapevo soltanto, già allora, che il tempo passava d io me ne accorgevo.
All’inizio, questa mia caratteristica si è rivelata un vantaggio: non c’è appuntamento a cui io non giunga né in anticipo né in ritardo perché so perfettamente quanto tempo impiegherò per farmi la doccia, per allacciarmi le scarpe o entrare in auto. So quanto durerà il viaggio e quanto tempo trascorrerà tra il momento in cui suonerò il campanello e quello in cui la porta mi verrà aperta.
Nel mio ultimo lavoro ero impiegato in una software house, e le mie stime sui tempi necessari allo sviluppo di un progetto erano sempre precise. Il mio calendario delle attività sempre organizzato. Quando qualcuno mi chiedeva di incontrarmi per discutere di qualcosa, potevo dargli una risposta corretta, così come dovrebbero essere tutte quelle che la gente dà in questi casi: « Ci possiamo vedere tra sette minuti ».
Feci carriera in fretta perché i risultati raggiunti dal mio team erano ineguagliabili. L’estrema precisione e organizzazione dei tempi di lavoro ci portava a consegnare progetti migliori più rapidamente di chiunque altro. Dopo tredici mesi, undici giorni e tre ore dalla mia assunzione mi fu comunicata la promozione a team manager. I colleghi facevano a gara per poter entrare nel mio gruppo.
« La verità è che nessuno ti sopporta » mi disse una volta Vincenzo. Eravamo a pranzo in mensa e io gli avevo fatto notare quanto raramente qualcuno si unisse a noi. Udendo le sue parole un boccone mi andò quasi per traverso.
« Ma che dici? » feci non appena fui in grado di ingoiare. « Tutti vogliono lavorare con me! »
Vincenzo annuì. « Hai detto bene: lavorare. E solo per un po’. Sanno che il tuo team prende i lavori migliori e li consegna in tempo. Sono tutti in cerca di un po’ di visibilità, qua dentro. Poi appena hanno ottenuto il loro scopo, ti mollano, perché lavorare con te è un inferno. »
Rimasi in silenzio. Sotto al vociare dei colleghi udivo il ticchettio del mio orologio da polso, e fra di essi qualche risata. Quante erano rivolte a me? Percorsi la sala con lo sguardo. Ero il tipo strambo che sopportavi finché ti faceva fare carriera. Quello di cui sparli con gli altri colleghi. Immaginavo i discorsi di quelle persone ridanciane sedute in gruppetti ai tavoli della mensa: « Una volta ero seduto accanto a lui per parlare di una cosa e guardai il suo monitor: era pieno di pop-up che spuntavano fuori e gli ricordavano gli appuntamenti: tra cinque minuti questo, tra dodici quest’altro… ». « Quel tipo è tutto matto. A me una volta chiese di alzarmi e andar via perché avevamo già parlato trenta secondi in più del preventivato! ». « No, per come lavora è geniale, però ti immagini a stare insieme a uno così? Mentre stai facendo l’amore ti dice: “è ora che tu abbia l’orgasmo, amore, i sei minuti di sesso stanno per passare” ».
Riposizionai lo sguardo sul mio commensale. « Davvero pensano questo? » gli chiesi con un filo di voce.
« Beh, che fai? Ci resti male? Non ti sopportano, e allora? A te che te ne frega? Tanto tra un po’ ti faranno Direttore Esecutivo, e allora strisceranno di nuovo ai tuoi piedi. A proposito, quando accadrà ricordati dell’unico che ti è stato sempre amico, qui dentro. »
Già, pensai, che me ne importa di loro? Sono persino così stupidi da non capire l’importanza del tempo. Io invece il tempo lo controllo. Anche se non ho nessuno con cui condividerlo.
Trascorsi diciotto mesi, venti giorni e diciannove ore da quella conversazione, l’Amministratore Delegato della società mi convocò.
Quella era per me una giornata fitta di impegni. Avevo potuto lasciare soltanto un buco di trenta minuti per mangiare un panino, bere una coca cola e leggere il giornale. Fui costretto a sacrificarlo, poiché da tempo le voci di corridoio davano conferma di quanto previsto da Vincenzo: volevano nominarmi Direttore Esecutivo e quel colloquio avrebbe con tutta probabilità sancito la mia promozione. « Ci possiamo vedere alle tredici e quattro minuti » dissi al telefono all’Amministratore Delegato, calcolando istantaneamente il tempo necessario a recarmi nel suo ufficio, al sesto piano.
All’orario stabilito bussai alla porta, giusto sotto la targa che recava la scritta: “Ing. Domenico Paolini – Amministratore Delegato”. Nessuno rispose. Guardai il mio orologio d’acciaio: mi restavano ventiquattro minuti. Bussai ancora. Niente. Presi a dondolarmi da una gamba all’altra, i piedi irrequieti sul tappeto che copriva il pavimento dell’intero corridoio. Nemmeno il pensiero che pochi giorni dopo avrei potuto stabilire il mio ufficio in quel piano, dove tutto era più silenzioso, pulito e profumato, riusciva a placare la mia irrequietezza.
Diciotto minuti. La situazione stava sfuggendo al mio controllo: per un colloquio ci si impiega in media dai venti ai quarantacinque minuti. Ero già fuori tempo massimo. Bussai di nuovo, più forte. Una porta alle mie spalle, poco distante, si aprì piano. Vi fece capolino un viso di mezz’età che mi chiese cosa desiderassi.
« Ho un appuntamento con l’ingegnere » dissi, « ma non risponde. »
L’altro si strinse nelle spalle. « Sarà ancora a pranzo. Se vuole aspettarlo, prego, non faccia rumore » e richiuse la porta.
Avrei voluto urlargli: « Mi dispiace, non volevo disturbare il suo pisolino! », ma mi limitai a bofonchiare sottovoce.
La frequenza con cui i miei occhi cadevano sul quadrante dell’orologio da polso si intensificò esponenzialmente. Dodici minuti. Controllavo l’ora ormai ogni dieci secondi. Cinque minuti. L’ascensore emise un dlin! e mi volsi a guardarlo. Ne fuoriuscì l’ingegner Paolini che mi guardò e mi sorrise, venendomi incontro.
« Manfredi! » esclamò. « Sempre puntualissimo, eh? »
Gli strinsi la mano in silenzio, incapace di proferire verbo, strozzato dalla rabbia e dalla tensione.
« Mi scusi per il ritardo » proseguì l’Amministratore Delegato. « Un impegno andato per le lunghe. »
« Gli impegni non possono andare per le lunghe » sibilai.
L’ingegnere rimase un po’ interdetto: « Cos…? Ah! » esclamò poi riprendendosi. « Per uno come lei, certo, ma io sono un semplice essere umano. » Sorrise cercando un mio qualsiasi ghigno di risposta. Non vedendolo, si schiarì la voce e continuò come se nulla fosse: « Vogliamo entrare e parlare un po’? »
Un po’. Che significato può avere l’espressione un po’?
« No » gli risposi.
« Mi scusi? »
« Dobbiamo rinviare. Se corro, in tre minuti riesco a essere al mio posto in tempo per riprendere le mie attività. Mi dispiace ma io l’ho aspettata sinora, e adesso non c’è più tempo. »
« Via, via », fece lui con voce più dura. « Le sue attività possono aspettare qualche minuto. Le conviene, mi dia retta. Dobbiamo parlare della sua carriera. »
« Ho detto che non ho tempo » ribattei alzando la voce. « Per colpa della sua inettitudine sarò in ritardo per rispondere a un’e-mail! »
« Inettitudine? Ma come si permette? » Anche Paolini stava quasi gridando. Udii un paio di porte aprirsi. Sotto il loro cigolio, il ticchettio dei secondi.
« Mi permetto perché lei non ha alcun rispetto per gli altri. Non ho altro tempo da perdere con lei! » e così dicendo feci per allontanarmi.
Non so se fu la presenza dei colleghi spioni o l’orgoglio ferito che spinsero l’Amministratore Delegato a seguirmi. Mi afferrò per una spalla e mi costrinse a girarmi. Quindi mi urlò in faccia: « Non me ne frega niente del suo tempo! Se io dico che dobbiamo parlare, parliamo e basta, chiaro? Il suo tempo per me non ha alcuna importanza! »
« Il tempo ha sempre importanza » ringhiai. « E se non ve lo mettete in testa, ce lo farò entrare io! » Fui un lampo: sfilai l’orologio dal polso e mi avvolsi le nocche con il cinturino, indossandolo come una cazzottiera. Mi lanciai sull’ingegnere e lo colpii due volte alla fronte. Cadde urlando, le mani sul volto, e immediatamente si scatenò una bagarre. Tutte le porte si aprirono e mentre qualcuno si chinava a soccorrere la vittima, fui circondato da persone che cercavano di bloccarmi. E il mio orologio era rotto. E il tempo passava. E tutta la mia programmazione del giorno era saltata. Svenni.

Nella cella priva di finestre il tempo si era fermato. Senza il mio orologio, senza il sole a guidarmi, pensavo che sarei impazzito. Ma forse lo ero già. Quando mi rilasciarono fui stupito dall’apprendere che erano passati soltanto tre giorni. L’ingegner Paolini aveva sporto denuncia. Mi diedero gli arresti domiciliari in attesa del processo, con l’obbligo di recarmi ogni due giorni da uno psichiatra. Nel mio intontimento, di quelle parole non capii quasi nulla, se non che ero libero di correre a comprarmi un altro orologio.

La dottoressa era giovane e abbastanza carina. I capelli neri corti, il viso a forma di cuore, il camice leggermente aperto sul petto. Indossava al polso un orologio costoso. Un modello molto preciso. Una buona scelta. A un tratto smise di scrivere. « Mi sta fissando il seno? », mi chiese intercettando la direzione del mio sguardo. Gli psicanalisti pensano che dietro ogni fissazione ci sia il sesso.
« No » risposi. « Mi scusi, la prego. Guardavo il suo orologio. »
« Lo trova interessante? »
« Sì. È… » Mi umettai le labbra. « È indietro di cinque minuti. »
« Lo so. »
« Lo sa? Ma allora perché non lo rimette a posto? »
Si strinse nelle spalle. « Pigrizia » rispose. Ma non era pigrizia.
« È indietro di cinque minuti esatti. Voglio dire, i secondi sono perfettamente sincronizzati con quelli del mio orologio. E il mio li segna correttamente. Cinque minuti esatti non sono un caso. »
« E invece lo sono. Ma siamo qui per parlare di lei. »

A casa continuai a pensare a quei cinque minuti. Qual era il motivo di quella particolare impostazione dell’orologio? Un gesto scaramantico? Una provocazione ai miei danni? Forse un segnale per mantenere le distanze da me, per rimarcare l’estraneità alla mia mania? O forse anche la dottoressa era ossessionata dal tempo? Quei cinque minuti esatti di ritardo erano forse un segno di riconoscimento per quelli come me. Dovevo saperlo! Ma in ambulatorio la dottoressa non me l’avrebbe mai detto. Si sentiva troppo sicura di sé, là dentro: lei era il medico e io il pazzo. No, dovevo parlarle in un altro luogo, che azzerasse queste differenze e ci rendesse due individui sullo stesso piano. Allora ricercai il nome della psichiatra su Google. Non aveva un telefono fisso, o quantomeno non era sull’elenco. Trovai un suo account su Flickr, un sito web per la condivisione di fotografie, e ne scaricai una foto che ritraeva il giardino di quella che poteva essere la sua abitazione. Scoprii che la fotocamera con cui era stata scattata aveva la funzionalità di geotagging: poteva, cioè, marchiare la foto con le coordinate GPS corrispondenti al luogo dello scatto. Molto probabilmente la psichiatra non lo sapeva, chiunque avesse scattato la foto non l’aveva avvisata. Presi le coordinate e le inserii nel mio navigatore. Trovai così quello che probabilmente era il suo indirizzo. Cancellai tutti i programmi per il giorno seguente.

Era sabato mattina e facevo jogging all’ombra degli oleandri che incorniciavano la via segnalata dal mio GPS. La dottoressa uscì di casa alle nove meno dieci. Si recò alla fermata del bus e lì attese, con altre persone. Salì sul numero tredici e scomparve. Mi portai alla fermata e guardai il tabellino degli orari. Quel bus andava nella zona commerciale. Ed era passato con cinque minuti di ritardo.
Per i tre appuntamenti seguenti evitai di parlare alla psichiatra del suo orologio. Sapevo che sarebbe stato inutile. Il sabato successivo montai sul bus numero tredici alla fermata precedente la sua. Era quasi colmo di persone che andavano a fare la spesa negli ipermercati in periferia. Avevo con me un paio di sporte e nonostante ci fosse qualche posto vacante restai in piedi. Arrivammo alla fermata con cinque minuti di ritardo e la dottoressa entrò. Dovette per forza passarmi accanto.
« Dottoressa! » la chiamai. Ero certo di aver capito perché il suo orologio era indietro. Era ossessionata dal tempo. Era come me.
Lei sgranò gli occhi. « Che ci fa qui? »
« La spesa! » Le sorrisi mostrandole le sporte.
« Ma lei non vive da queste parti. »
« Sono a casa di un amico. Faccio la spesa per lui. »
Dall’espressione che fece fui certo che pensasse: « Tu sei ai domiciliari. E non hai amici! » senza avere il coraggio di pronunciare ad alta voce. « Mi scusi » si limitò a dire. « Vorrei sedermi. »
Mi feci da parte per farla passare. Attesi che altra gente montasse sul bus e mi spingesse indietro. Mi fermai vicino al suo sedile. « Questo autobus viaggia sempre con cinque minuti di ritardo, vero? » domandai.
« Non saprei… » rispose.
« Ma sì », la incalzai. « Non è per questo che ha l’orologio cinque minuti indietro? Così può prenderlo alle nove precise! »
« Ancora con questa storia? » ma il suo tono era diverso da quello che usava nello studio. Sembrava intimidita.
« È che non ho potuto fare a meno di notarlo. Sono un fissato, ricorda? » Le rivolsi il più amabile dei sorrisi finti, ma lei si volse in avanti e non mi guardò.
La raggiunsi di nuovo nel parcheggio del centro commerciale. Era gigantesco, quasi vuoto. Nero di bitume e grigio di cemento, graffiato dalle strisce bianche entro cui collocare le auto. Presi a camminare di fianco a lei e le chiesi: « Perché non me lo dice? »
« Mio Dio, che cosa? »
« Il perché di quei cinque minuti. »
« Ma è davvero così importante? »
« Certo che lo è! Se è come penso io, saprò che non sarò solo. Che c’è qualcun altro come me che dà importanza al tempo anche per il suo aspetto più banale. »
La dottoressa si fermò e mi fissò. « Mi ascolti, so che il trascorrere dei minuti ha più importanza per lei che per chiunque altro. So che questo la fa sentire incompreso e solo, come se fosse l’unico esponente di una razza diversa. Ma non è così. Ogni persona ha le sue particolarità, e lei ha questa. Tutto qui. E scoprire il motivo per cui il mio orologio segna l’ora sbagliata non l’aiuterà a sentirsi meglio. Starà bene soltanto se saprà accettarsi così com’è e scoprirà che nella vita c’è anche altro. Che il tempo fa parte della vita e non viceversa! »
Restai quattro secondi in silenzio a meditare su quelle parole. Poi esclamai. « Va bene, va bene! Ma adesso mi dica perché ha spostato l’orologio indietro di cinque minuti. »
La psichiatra scosse il capo e rispose: « Non c’è un motivo. È così per caso. Guardi » continuò abbassando lo sguardo verso il proprio polso, « lo rimetto avanti, vede? » Armeggiò con il controllo delle lancette, senza sollevare gli occhi. « Non ha nessuna importanz… »
La colpii alla tempia senza nemmeno rendermi conto che la mia mano si stesse muovendo. La dottoressa cadde su un fianco. La mia ombra la copriva. « Non si azzardi a toccarlo, capito? » le urlai. Mi chinai e la presi per i capelli per costringerla a guardarmi. Il sangue che colava la ferita le inondava un occhio. « Il suo orologio deve restare com’è! Lei è come me! Io e lei siamo di una razza a parte! »
Poi qualcuno mi saltò addosso e fui bloccato sull’asfalto caldo e puzzolente.

Da quando sono in questo ospedale l’unico altro degente degno di nota mi sembra Osvaldo. È un ragazzone strano, molto robusto, con gli occhi un po’ da asiatico. Se ne sta seduto al tavolino della sala comune e costruisce qualcosa con i Lego. Sono qui dentro da dieci giorni e ancora quella cosa non ha forma. Quasi ogni volta che incastra un mattoncino ne smonta un altro. Non sopporto più una simile perdita di tempo. Devo parlargli.
Vado a sedermi al suo tavolo. Mentre mi siedo non mi guarda: sta scegliendo da due minuti un pezzo dal secchiello accanto alla sua sedia. Deve trattarsi di uno importante. Ecco, l’ha trovato! No, no, falso allarme: lo confronta con la sede su cui incastonarlo e poi lo scarta. Era un mattoncino come tanti altri. Non resisto oltre: « Che cosa stai facendo? » gli chiedo.
« Un castello » risponde senza guardarmi.
« Un castello… e da quant’è che lo stai montando? »
« Boh! »
« Ho capito, lo fai per passare il tempo. » Guardo il mio orologio. Dopo molte insistenze gli infermieri hanno acconsentito a farmelo indossare quando non sono chiuso in stanza. Hanno capito che senza di esso impazzirei sul serio. « Il tempo non passa mai qua dentro » osservo ad alta voce.
« Lo faccio perché mi va di farlo » dice Osvaldo. Non capisco subito a cosa si riferisca, poi comprendo che sta rispondendo alla mia domanda di prima.
« Già » mi affretto a dire. « Ma quanto… tra quanto pensi di finire? »
« Boh! L’importante è farlo, non farlo in fretta » risponde.

È passato un altro mese e Osvaldo è ancora alle prese con il suo castello, che nel frattempo è cresciuto. Sono spuntate delle guglie e al centro dell’ampio cortile ha costruito delle stalle e anche qualcosa che sembra una mangiatoia. La costruzione centrale si innalza maestosa in un lato delle mura esagonali, incomplete. Ogni giorno mi fermo con lui a parlare e a osservare la sua costruzione completarsi. La sua lentezza mi rende sempre inquieto, ma ho imparato a sopportarlo.
« Certo che se quelli che costruivano i castelli veri ci avessero messo tutto questo tempo » osservo, « i nemici li avrebbero spazzati via. »
« Che vuoi dire? » chiede senza alzare gli occhi dalla sua creazione.
« Beh, erano fortezze, no? Difendevano dai nemici. Ma se fossero stati così lenti a innalzare le mura i nemici sarebbero arrivati prima che fossero completate. »
« Perché, tu pensi che costruivano i castelli in un giorno? »
« No, ma… »
« E allora vuol dire che i nemici li aspettavano. »
« In che senso? »
Sbuffa. È stufo che io non capisca. « I nemici aspettavano finché non finivano il castello, e poi lo attaccavano. »
« Ma non ha senso! » esclamo. « Perché avrebbero dovuto comportarsi così, scusa? »
« Perché il castello deve essere terminato. »
Decido di lasciar perdere. « Dovresti costruirci un villaggio, all’interno delle mura » gli suggerisco per cambiar discorso.
Osvaldo tace per due minuti, poi mi chiede: « Perché non mi aiuti a farlo? »
« Ma no, non voglio… » mi schernisco. Ma ha ragione: anch’io voglio costruire quel castello. Allora gli dico: « Passami un tetto, va’ »
« Dritto o ad angolo? »
« Dritto. »

Sono trascorsi altri due mesi e abbiamo quasi completato il castello. Anzi, lo abbiamo addirittura ampliato, allargando le mura e costruendo al centro del cortile un villaggio di bellissime casette.
« Ma chi abita in tutte queste case? » mi chiede Osvaldo.
« Ci vivono i contadini che lavorano le terre intorno. »
« Ma anche nei castelli che costruivano prima c’erano le case? »
« In alcuni sì. Fuori dalle mura del castello gli abitanti sarebbero stati alla mercé delle scorribande nemiche. Allora chiudevano il villaggio nelle mura perché fosse protetto. »
« Stavano rinchiusi per poter vivere tranquilli » osserva Osvaldo. « Come noi. » Tace per due minuti e poi mi chiede: « Tu ne hai, di nemici? »
« Io? » Sbuffo continuando a lavorare sulla cinta muraria. Davanti agli occhi mi passano decine di volti: compagni di scuola, colleghi, donne. « Qualcuno. »
« Il tuo peggior nemico sei tu. »
Alzo gli occhi e lo fisso. Sta innalzando una torre e non mi guarda. « Che vuoi dire? » gli chiedo.
Si stringe nelle spalle. « Me lo diceva sempre mia madre », risponde. « Diceva che sono stato sfortunato, ma che potevo vivere come tutti gli altri se lo volevo. Solo che io non volevo. » Poi mi guarda e continua: « Sai? Quando lo avremo finito, il nostro castello ci proteggerà dai nemici. »
Non so cosa ribattere. Alla sommità della torre, Osvaldo sta lasciando un grande foro.
« Che cos’è che stai costruendo? » gli domando.
« La torre dell’orologio. »
L’orologio! Da quanto tempo non lo guardo? Mi accorgo di non saperlo. Io non so quanto tempo è passato da quando mi sono seduto qui. Non so da quanto sto costruendo queste mura, quanto tempo ci ho impiegato per ogni singola casetta e quanto ne ha impiegato Osvaldo. Mi manca l’aria. La vista mi si sdoppia. Abbasso lo sguardo sul polso e inquadro il mio orologio. La lancetta dei secondi scorre. Il tempo esiste ancora. Ne seguo il ritmo e ritrovo il respiro. Ho ancora il mio orologio. Ritorno in me.
Non guardo la torre. Non voglio vedere quel buco nero tra i mattoncini rossi. Mi terrorizza. Ritorno a lavorare sulle mura.
« Ho finito! » annuncio.
« Io quasi » mi fa eco Osvaldo. Alzo a fatica lo sguardo e vedo che sta ponendo il tetto alla torre. E quel foro è ancora lì.
Mi alzo in piedi di scatto. Il rumore della sedia spostata bruscamente attira gli sguardi di due infermieri. « Bene! » esclamo battendo le mani. « Finito! Bello, eh? »
Osvaldo si stringe nelle spalle.

Oggi io e Osvaldo non parliamo. Nel castello non c’è più niente da costruire e lui sembra abbacchiato. Ho cercato una conversazione, ma me l’ha negata. È rimasto tutto il tempo seduto com’è ora, con le spalle ricurve a guardare la nostra creazione. Arriva l’ora di cena e poi l’infermiere mi accompagna alla mia stanza.
« L’orologio, Manfredi » mi intima tendendo una mano.
Annuisco e sorrido. « Me n’ero scordato » gli dico porgendoglielo.
« Sì, come se potessi. »
Non gli rispondo. Si infila l’oggetto nella tasca del camice e armeggia con la serratura della porta, che non si vuole aprire. Non si è accorto che è il mio piede che la tiene bloccata. Adesso è distratto al punto giusto. Infilo la mano nella tasca del camice e, come se giocassi all’allegro chirurgo, ne estraggo l’orologio. Lascio andare la porta allontanandone il piede e l’infermiere se la dà sul muso. Inviperito, mi spinge dentro bestemmiando e richiude la porta.
Nella mia stanza non ci sono oggetti metallici, taglienti o contundenti. Non ci posso portare niente e non posso usare niente che non sia previsto dalla dotazione della camera. Hanno paura che possa farmi del male volontariamente. Ammetto che non hanno tutti i torti.
Siedo sul letto con i gomiti poggiati sulle cosce. Nelle mani a coppa reggo il mio orologio d’acciaio. È fatto di tante piccole parti montate con cura. Piccole parti che prese a sé non hanno forma né utilità. Esattamente come accade per un castello. Alcuni pezzi sono taglienti, altri sottili come spilli. Scendo dal letto e mi metto in ginocchio ai suoi piedi. Poso l’orologio sul materasso e comincio a smontarlo.

Oggi, mentre vado al tavolo su cui io e Osvaldo abbiamo costruito il nostro castello, ho qualche unghia rotta e qualche dito scorticato. Lui è seduto con la solita aria afflitta di questi ultimi due giorni. Siedo anch’io.
« Ho qualcosa per te » gli dico.
Lui alza la testa e mi guarda. Sfilo dalla tasca l’orologio a cui ho smontato il cinturino. Non è stato per niente facile, e non solo per la mancanza di attrezzi. Lo sollevo abbastanza perché Osvaldo lo veda. Nella mia mano pesa come una montagna.
« Il tuo orologio » dice Osvaldo.
Mi tendo verso il castello e lo infilo nel foro della torre. Non mi stupisce constatare che vi si incastra perfettamente. « L’orologio della torre » lo correggo con soddisfazione.
Osvaldo sorride, guardandomi come se fossi un bambino a cui spiegare le cose più elementari. Poi stacca l’orologio dalla torre, lo capovolge e lo rimette nel foro, a testa in giù.
« Ma così non si capisce che ora è! » esclamo.
« E che t’importa? »
Ci penso su qualche secondo, non so quanti. Il nostro castello è terminato. « Lo sai? » dico al mio amico. « Non me ne importa niente. »