di Marina Mastrangelo
da I racconti nel Castello,
antologia della Prima edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
Caterina preferì lasciare lo scooter nel parcheggio all’imboccatura del molo e percorrere a piedi quell’ultimo tratto del lungomare. La luce gentile e chiara del tardo pomeriggio di quel giorno di aprile rendeva tremula la linea dell’orizzonte, dove cielo e mare si raccontano di vita e di morte, e di spazi che sono oltre.
Caterina camminava lentamente nelle sue scarpe di tela. Le mani strette a pugno, sprofondate nelle tasche di un giubbetto di pelle che le si avvitava intorno al corpo sottile. I lunghi capelli neri che i vai e i vieni del maestrale rendevano irrimediabilmente arruffati e profumati di sale e di sole. Silenzio nei pensieri e dentro il cuore.
Lungo il marciapiedi, all’ombra delle palme, con il lento sciabordio dell’acqua che si frangeva e poi ritraeva dagli scogli appena sotto di lei, la pace intatta di quel luogo così familiare parve a Caterina troppo pesante. Insostenibile. Perché la bellezza della sua terra ne era, talvolta, anche la condanna. Come se la benedizione di Dio, che aveva regalato un mare pescoso e deliziose primizie, potesse bastare per l’eternità. Come se i segni del passato, le storie raccontate dalla pietra e quelle scritte dall’arte fossero sufficienti perché il presente ancora ne godesse e il futuro non fosse un pensiero di cui farsi carico.
Caterina aveva ventisette anni, una manciata di sogni e una laurea a pieni voti che non aveva voluto appendere nel salotto di casa. E di questa bellezza antica e sacra e immobile, ormai non sapeva davvero cosa farsene. Un tempo sperava di poterla scoprire e raccontare, come esperta d’arte o direttrice museale, ma ora si sarebbe accontentata di un lavoro, uno qualsiasi. Eppure ai giovani come lei, nati in questa terra terribilmente aspra e seducente, sarebbe bastata solo un’occasione. L’opportunità di fare, di avere un progetto per sé, di lasciare un segno, o almeno di provarci. Sentire la propria origine come un motivo di orgoglio e non come una condanna. Ma, il più delle volte, era così difficile…
E alla fine si faceva largo quella che sembrava l’unica idea possibile. Riempire una valigia di vestiti e nostalgia, e ciao a tutti. Addio. Ciao… Ciao agli amici di una vita, quelli ancora qui e quelli già andati via, quelli rassegnati e stanchi e quelli inguaribilmente ottimisti. Quanta vita insieme, quanta strada, quante ciliegie mangiate all’ombra del Castello, quante scorrazzate in bicicletta fin sotto il fossato, quanti sogni mancati, come i tiri di cerbottana attraverso le feritoie nelle mura… Ciao al mare che li aveva visti crescere chiassosi e arrabbiati, mentre imparavano a nuotare, mentre davano il primo bacio, mentre suonavano la chitarra e cantavano Ligabue e bevevano birra davanti al falò, la notte dopo la maturità… Ciao alla terra assetata eppure feconda, che a costo di tanto sudore almeno restituiva tavole imbandite di sapori buoni. E ciao al Castello, che per secoli era stato il primo baluardo, l’ultimo rifugio. Ora… ora, chissà.
Quando era ancora una ragazzina, Caterina pensava che lei non sarebbe stata una di quelli che mollano, costretti ad andare via per coltivare il sogno semplice di una vita serena e onesta. Ma dopo infinite porte trovate chiuse, e « no, grazie » sputati addosso con indifferenza, e « le faremo sapere » che, nella loro ambiguità, sapevano di definitivo, si era convinta di non avere scelta neppure lei.
Ciao, addio. Ciao. E senza neppure troppi rimpianti, alla fine.
Poi aveva letto l’annuncio e si era concessa quell’ultima chance. In palio un posto come responsabile delle attività culturali e delle iniziative turistiche relative al celebre Castello della città. Aveva telefonato al numero indicato sul giornale e una voce di donna troppo squillante, dall’altra parte del filo, le aveva detto di presentarsi in ufficio alle diciotto di quello stesso giorno.
Caterina arrivò con qualche minuto di anticipo davanti al passaggio di pietra su archi che sostituiva il vecchio ponte levatoio e, per la prima volta da quando era scesa dal motorino, lasciò che la poderosa mole del Castello le riempisse violentemente lo sguardo. Pietre su pietre messe su già dai Normanni, e poi rimodellate sotto la dominazione angioina e ancora aragonese, e infine passate nelle mani di famiglie aristocratiche dai destini spesso bizzarri o foschi, finché il Comune non si era deciso ad acquistare il maniero. La ragazza superò il ponte e, attraverso un grande portale sovrastato da stemmi nobiliari, entrò in un ampio androne. Su un lato, la porticina serrata di quella che era stata la cappella dove venivano sepolti i castellani. Sull’altro, l’accesso ai vani dove un tempo stazionava il corpo di guardia in attesa del nemico, ora adibiti a biglietteria, desktop informazioni ed uffici.
In quella stagione il Castello era ancora chiuso al pubblico. Vi regnavano il silenzio e la frescura, e l’eco muta di storie che non sarebbero state più raccontate.
« C’è nessuno? » chiese ad alta voce.
« Avanti! » le gridò qualcuno dalla stanza in fondo. Dietro una scrivania dell’Ikea, una signora sui cinquanta con le unghie laccate di rosso e i capelli freschi di parrucchiere stava sfogliando con indolenza una rivista di gossip. « Che cosa desidera? » domandò senza alzare lo sguardo, quando avvertì la presenza di Caterina che nel frattempo le era andata incontro. La ragazza avrebbe voluto voltarle le spalle, correre a perdifiato, saltare in sella al suo scooter e sfrecciare verso un mondo dove, quando si parla, la gente si guarda e si sorride. Solo per il piacere di riconoscersi e di regalarsi del tempo. Tuttavia Caterina non era certa che un mondo così esistesse davvero, per cui finì col rimanere.
« Ho un appuntamento con la signora Ranieri. È per quel posto da responsabile… »
« Ah. Bene. La signora Ranieri sono io. » La donna finalmente le rivolse un’occhiata, che non era spazientita o annoiata o brusca. Era solo carica di niente. Come se non valesse la pena dedicare troppo tempo a quella ragazza con gli occhi neri e ardenti che le si era parata dinanzi, perché tanto non sarebbe stata lei la sua futura collaboratrice. « Prego, si accomodi su quel tavolino e compili questo modulo » disse allungando a Caterina un foglio prestampato. « Indichi dati anagrafici, titolo di studio, conoscenza delle lingue, altre esperienze nel settore… Insomma, tutto quello che pensa possa essere utile. »
« Io pensavo di dover sostenere un colloquio » obiettò Caterina dopo un attimo di esitazione.
« Ma no, non ce n’è bisogno, signorina bella… Come dicevano i latini? Verba volant, scripta manent! » La donna mise su un sorriso compiaciuto del proprio sfoggio di erudizione. « E poi con questo prestampato risparmiamo tempo, serve solo per farsi un’idea del suo profilo. Tanto il verdetto definitivo verrà fuori dalla prova che tutti i concorrenti contemporaneamente sosterranno fra una settimana. Bisognerà comporre un elaborato, un bel temino insomma… L’argomento è il Castello, chiaramente, ma la traccia precisa, quella, non gliela posso proprio dire! » La signora Ranieri aveva parlato con un’enfasi esasperante e affettata che a Caterina aveva dato sui nervi. Ostentava una partecipazione ai casi della sua vita che era finta come il castello del luna-park vicino al centro commerciale.
« Si dà il caso che la traccia precisa, quella, non gliel’ho proprio chiesta. » Caterina dedicò meno di un paio di minuti alla compilazione del modulo, lo lasciò sulla scrivania e salutò quando già era fuori dalla stanza.
Prima di uscire, tuttavia, si affacciò furtivamente nel cortile interno a pianta quadrata, al centro del quale sorgeva il mastio, la torre più imponente del Castello: destinata a ospitare e proteggere i castellani in caso di attacco nemico, accoglieva anche le stanze private e gli ambienti di rappresentanza del signore, oltre ad alcuni locali di servizio e un singolare scriptorium di corte. Sulla destra, invece, una stretta scala a cielo aperto conduceva al ballatoio che circondava la corte sui quattro lati e seguiva il perimetro delle mura. Caterina immaginò guardie impettite che camminavano su e giù con lo sguardo vigile verso la costa e ancora oltre, fino alla linea dell’orizzonte, pronte a scorgere il profilo minaccioso di una nave araba o delle rapide imbarcazioni dei pirati illirici. Immaginò arcieri e balestrieri intenti a scoccare il colpo attraverso le strette feritoie, quando l’attacco veniva da terra. Immaginò la concitazione di quei momenti, le urla degli uomini addetti ad alzare il ponte levatoio per impedire al nemico di entrare nel Castello, mentre qualcun altro si preparava a lanciare attraverso le caditoie acqua bollente o calce viva. Sotto le mura, invece, si levavano le grida violente e strozzate di chi, dopo aver riempito il fossato usando botti, fanghiglia o pietre, sbatteva furiosamente la testa dell’ariete contro il portone per sfondarlo e guadagnarsi una via d’accesso all’interno.
Scene di vita strappate dai libri e forse infinitamente lontane dalla realtà, fotogrammi che pure Caterina cercava di ricreare con gli occhi della fantasia, con la speranza di sentire quel posto un po’ più suo. Avrebbe voluto riprovare quell’orgoglio che la prendeva da bambina, quando doveva raccontare della sua città e del suo Castello: luoghi dell’anima che adesso, invece, sembrava non avessero più nulla da dirle.
« Signorina! »
Caterina riconobbe, alle sue spalle, la voce stridula della donna con la quale aveva parlato poco prima. Temette che fosse sopraggiunta per rimproverarla di essersi attardata nel cortile, invece si accorse che aveva in mano alcuni fogli che sventolava con foga.
« È ancora qui! Per fortuna, altrimenti mi sarebbe toccato telefonarle… » disse quando le fu vicina. « Avevo dimenticato di darle questi. Qui trova l’elenco dei testi sui quali suggeriamo di studiare per la prova della settimana prossima. Sono tutti disponibili nella biblioteca comunale. »
Quando notò l’espressione perplessa di Caterina, la donna si affrettò a rassicurarla: « C’è scritto tutto, stia tranquilla! » E allargò le braccia come a voler dire che, se mai il concorso non fosse andato bene, non sarebbe stata certo colpa sua. « Beh… buon studio, allora. »
La ragazza restò a guardarla mentre tornava a rintanarsi nel suo ufficio per immergersi nella lettura delle intricate vicende di calciatori e veline. Lì sotto il naso aveva il titolo di più di venti libri che, secondo la signora Ranieri, avrebbe dovuto spulciare e studiare approfonditamente nel giro di una settimana. Caterina si chiese a chi fosse destinato quel posto da responsabile, ma il parentado degli amministratori comunali era troppo nutrito perché potesse venire a capo della questione. E con la rassegnata consapevolezza che sarebbe stato l’ennesimo buco nell’acqua, decise di passare a salutare sua nonna.
Nonna Ada era una vanitosa ottantasettenne dotata di una straordinaria dose di umorismo e curiosità. A costo di risparmiare tutta la settimana, non c’era sabato che non andasse dalla parrucchiera per farsi mettere in piega i suoi vaporosi capelli d’argento e, come regali di compleanno, non chiedeva pantofole di feltro o una sciarpa di lana: reclamava piuttosto una borsetta elegante o un paio di orecchini di corallo. Nonna Ada non era di quelle vecchine tutte uncinetto e torta di mele, ma un vulcano di ricordi e racconti e saggezza di cui Caterina non era mai sazia. Da giovane era stata una maestra anticonformista e originale e aveva l’unico rimpianto di non essere riuscita a laurearsi in filosofia. La guerra, infatti, aveva prodotto bisogni troppo grandi che né Schopenhauer né Spinoza potevano aiutarla a soddisfare. E ancora adesso Ada non si risparmiava, tenendo gratuitamente lezioni di italiano a famiglie di senegalesi, a giovani tunisini, a badanti venute dall’est che vivevano nel suo quartiere.
Per Caterina questa nonna atipica e insostituibile era l’abbraccio in cui correre quando intorno tutto vacillava: la speranza, la fiducia, persino l’allegria. Grazie alle sue storie curiose e matte, la cui dose di verità sfumava nel favoloso, e alla sua capacità di trovare sempre la parola giusta, l’inquietudine si scioglieva, si smussava, si addolciva un po’.
« Nonna! » le urlò nel citofono quando fu sotto casa sua. Nonna Ada abitava in una palazzina piuttosto malandata appena fuori il centro città. Era una costruzione degli anni Sessanta, ormai popolata da anziani soli o famiglie di immigrati. Le pareti esterne avevano bisogno di una mano d’intonaco, mentre la ruggine si stava mangiando a poco a poco tutte le ringhiere. Però nonna Ada non se ne lamentava mai, anzi diceva che le piaceva stare lì. Dalle finestre della sua abitazione al terzo piano si vedevano il mare, l’ampia insenatura del porto sempre in febbrile movimento, e soprattutto il profilo imponente ed elegante del Castello, verso sud, isolato sulla linea di costa e lambito direttamente dall’acqua. Era ancora più bello il Castello, visto da lassù. Si distinguevano il mastio centrale e le quattro torri quadrangolari, quelle verso il mare più alte di quelle verso la terraferma, mentre la mole di un quinto bastione a punta di lancia, più basso degli altri, si poteva soltanto intuire: staccato dalla cinta muraria, proteso nell’acqua, s’incuneava verso il nemico svolgendo il ruolo di punta di difesa più avanzata della città e contrastando l’impeto delle onde con la sua forma spigolosa.
Nonna Ada si affacciò al balcone, agitò le braccia e corse dentro ad aprire il portone. Quando fu nell’angusta cucina, la cui atmosfera era resa ancora più dolente e dimessa dalla luce fredda di un vecchio neon, Caterina fu sopraffatta da un moto di amarezza e di rifiuto. Le carte napoletane sul tavolo per una mano di scopone con le amiche, ogni tanto, la sera. La caffettiera sempre pronta sul fornello. Macchie di umido agli angoli del soffitto. Una rivista lasciata aperta sul divano. E il mare, in lontananza, oltre la finestra. Caterina avrebbe voluto avere la stessa forza di sua nonna per farsi bastare tutto questo o poco più.
« Piccola della nonna, siediti, dai! Cos’è quella faccia? » Mentre aspettava una risposta, la signora Ada tirò fuori dalla credenza un piatto leggermente sbeccato coperto con un foglio di alluminio. « Ecco, prendi un pezzo di focaccia. Me l’ha portata Giovanna stamattina. È buona, con le olive, il pomodoro e l’origano, come piace a te! »
Caterina non se lo fece dire due volte. Addentò il capolavoro di Giovanna, una vedova con una valanga di nipoti incontenibili che abitava sullo stesso pianerottolo di sua nonna, e finalmente pensò che aveva fatto bene a venire.
Prima di riprendere a parlare, la donna aspettò che finisse di mangiare. « Allora? Il colloquio è andato male? »
Caterina fece spallucce, poi le raccontò della signora Ranieri, della prova di lì a una settimana e anche, senza girarci troppo intorno, del fatto che quel posto di responsabile delle iniziative culturali non sarebbe toccato a lei.
Nonna Ada la lasciò parlare, senza mascherare tuttavia un sorriso pieno che le era salito alle labbra. Aveva la pelle raggrinzita e flaccida ma, quando rideva, a Caterina sembrava che si illuminasse di salute e vigore.
« Bimba mia, forse non riuscirai a studiare tutti quei libri in così poco tempo, è vero, ma alla fine poco importa… Ci sono tante storie di quel Castello che non troverai certo nei testi di storia o di arte o di tattica militare. Lì al massimo compaiono i nomi di Federico II, di Carlo I d’Angiò, di Alfonso IV d’Aragona e di suo figlio Ferrante, ma al Castello ci ha vissuto e lavorato tantissima gente di cui non leggerai mai. Gente che ha lasciato un segno nella storia. Nella nostra storia, almeno. » Mentre parlava, nonna Ada, trascinando un po’ i piedi, si avvicinò alla finestra e scostò la tenda. Ormai si era fatto buio, là fuori, e le luci della città cominciavano a occhieggiare disordinate e tremule. Ma, in quell’oscurità vellutata, la nuvola di chiarore alimentato dai fari collocati lungo le mura restituiva nitidezza e forza al profilo austero del Castello. Come se vigilasse ancora la costa, di là, e di qui la collina…
Lentamente la voce di nonna Ada accompagnò Caterina in racconti che avevano il tempo della fiaba ma la concretezza del dolore. Nel passato di una terra che aveva saputo difendere strenuamente la propria libertà, il proprio diritto a esistere. Come quando un feudatario caduto in rovina fu tentato da un prezioso forziere offertogli da alcuni marinai dalmati in cambio della terra e del Castello. La popolazione del borgo era insorta con veemenza, senza imbracciare le lance e senza versare sangue, semplicemente smettendo di andare a lavorare nei campi, di uscire in mare per pescare, di cucire abiti e di macinare il grano, di lavorare il legno o di portare gli animali a pascolare. Uno sciopero ante litteram che aveva convinto il signore a desistere dai suoi propositi e, anzi, a ricompensare la sua gente per quell’atto coraggioso e fiero con la costruzione di un nuovo pozzo a disposizione del villaggio.
Caterina sentì di pirati respinti lontano dalla costa con il lancio di frecce e torce in fiamme, di saraceni sbarcati per rapire giovani vergini da condurre nell’harem del Sultano e uccisi nel letto della duchessa e delle dame di corte dopo esservi stati attratti con ingannevoli lusinghe. Ascoltò di quando era arrivata la peste e di come la gente fosse riuscita a non farsi sopraffare dalla disperazione, trovando nuove risorse nella terra e nel mare, ma soprattutto dentro di sé. Seppe di quando il signore della città sudò insieme ai suoi sudditi per la bonifica delle zone paludose intorno al Castello e al borgo.
E se anche quei racconti erano ormai carichi di un’aura di leggenda che rendeva difficile ricostruirli storicamente, Caterina sapeva che esisteva un nocciolo di verità indiscutibile: il coraggio e l’orgoglio della sua gente, quelli, avrebbe saputo rintracciarli e riconoscerli in ogni storia. Rimpianse che a lei non fossero toccati nemici veri da combattere. Non la libertà, né la pace, né il benessere da rivendicare per sé e per gli altri. Una vita apparentemente facile, alla quale però mancava un senso, una ragione. Se solo i giovani come lei avessero trovato una nuova battaglia da affrontare… Chiese a sua nonna di continuare. Chiuse gli occhi, sperando che la donna non si accorgesse che piangeva.
Fu allora che nonna Ada le raccontò di Erminia. « Perché quando si parla delle donne celebri del Medioevo, si ricordano sovrane come Eleonora d’Aquitania o Isabella di Castiglia, o nobildonne come Matilde di Canossa… Ma chi ha sentito mai parlare di Erminia di Rienzo? Soltanto i medievisti e gli appassionati sanno chi è. E invece lei è nata qui, ha vissuto al Castello e ha illuminato questo luogo di consapevolezza, cultura e speranza. »
Caterina ricordò di aver letto un’iscrizione nella cappella del Castello nella quale compariva quel nome femminile dal suono deciso ed elegante. E quella sera, grazie alle parole appassionate di nonna Ada, scoprì la storia di una sua conterranea che aveva saputo dimostrare come nella società medievale, essenzialmente maschilista, guerriera e mercantile, nella quale il destino delle donne prevedeva due sole varianti, sottomessa allo sposo come moglie oppure a Dio come monaca, fosse possibile fare una scelta diversa. Vivere da protagonista, da artefice del proprio destino. Tutto questo in un tempo e in un Meridione nei quali la Storia – quella con l’iniziale maiuscola – era difficile da capire e da interpretare, ed era scritta da case regnanti che da questi luoghi spesso strappavano la vitalità, le risorse e l’energia.
Erminia era la figlia del copista privato del barone. Orfana di madre sin da bambina, era cresciuta al fianco di suo padre fra le mura del Castello, all’ombra dei merli, sgattaiolando nei suoi giochi solitari fra il pozzo e i granai. Lì ai piedi del mastio, infatti, aveva sede lo scriptorium con le ampie finestre orientate a mezzogiorno, nel quale l’uomo esercitava la sua attività di amanuense. Quando scendeva l’oscurità e, alla luce delle candele, il buon Filippo si attardava al lavoro intingendo il pennino in boccette d’inchiostro denso e gelatinoso e vergando con la sua scrittura elegante i fogli di pergamena, Erminia gli era accanto e lo osservava con curiosità e ammirazione. Suo padre ricopiava tutti i testi che arrivavano in prestito al Castello dai monasteri del Regno, per volontà del duca De Loia, un uomo piuttosto burbero e solitario, ma appassionato di arte e di letteratura, il quale coltivava l’ambizione di creare nel suo piccolo feudo una biblioteca più ricca e prestigiosa di quella esistente nella capitale del Regno, Napoli. Filippo miniava riccamente ogni volume, lo impreziosiva con lo stemma nobiliare del duca e talvolta lasciava ai margini del foglio delle annotazioni personali.
Fu così che Erminia imparò a leggere e a scrivere, non solo il volgare ma anche il latino. Fu così che apprese di storia e di arte, di filosofia classica e di poesia, di leggi e di diritto. E fu così che maturò un’idea nuova del suo essere donna, assai lontana dall’immagine della dama raccontata nei poemi, o della maga, o dell’avventuriera o dell’amazzone: voleva essere una donna libera, in grado di assegnare un’impronta personalissima alla sua vita, di correre rischi e mettersi in gioco.
Erminia stava crescendo serena, bella e fiera, quando un giorno d’autunno che profumava di vendemmia suo padre morì. Ma, nonostante il dolore e la minaccia della povertà, non si perse d’animo: bussò alla porta del duca e gli chiese di poter fare l’unica cosa che sapesse fare. Insegnare alla gente del borgo, specie le donne, a leggere e a scrivere. Il duca De Loia, nonostante la sua cultura, non era un tipo particolarmente ardimentoso e aperto alle novità, ma non seppe dire di no a quella ragazza che aveva visto crescere nel maniero, che lo aveva accompagnato nelle sue passeggiate lungo le mura, che gli aveva raccontato con toni fiabeschi le vicende di Carlo Magno e del cavaliere Orlando. Accadde quindi che in questo remoto feudo in Terra di Bari, un tempo prestigiosa testa di ponte fra l’entroterra e l’Oriente ma oramai stremato dal progressivo impoverimento del territorio e dalle vessazioni fiscali imposte dal re angioino, sorse una scuola pubblica gestita da una donna intraprendente e coraggiosa. Erminia sapeva che solo la conoscenza consente agli uomini di interrogarsi sulle cose, di avere un’opinione e di saperla esprimere e sperava che, proprio attraverso la cultura, la sua gente diventasse consapevole dei propri diritti, della necessità di leggi giuste, della possibilità di godere dei frutti del proprio lavoro. Fu un viaggio faticoso e al contempo affascinante quello intrapreso da Erminia al fianco della sua gente, ma con quanta emozione vide quelle grafie grossolane e goffe diventare sempre più composte ed eleganti, quei testi prima zeppi di errori di ortografia e di punteggiatura farsi sempre più puliti e corretti. Con quanta fierezza ascoltò sillabazioni stentate che diventavano via via letture fluide e appassionate. Con quanto orgoglio rispose a domande, sciolse dubbi, esaudì curiosità…
Intanto la vita nel feudo era sempre più aspra e difficile. Gli Angioini non avevano a cuore i territori pugliesi, messi ai margini dalla loro politica. La pressione fiscale regia si acuì e al contempo vi fu una brusca diminuzione dei commerci, monopolizzati dai mercanti stranieri o controllati dalla Repubblica di Venezia, sempre più attiva anche nel basso Adriatico. A questa fosca situazione si aggiunse una grave siccità che arse le campagne e impoverì i raccolti. Gli uomini del feudo facevano quello che potevano, ma per lo più piangevano la loro povertà. E lo stesso duca De Loia, inerte e muto, si mise alla finestra aspettando che la gramigna divorasse il suo Castello.
Ancora una volta Erminia bussò alla sua porta, chiedendogli di poter riaprire lo scriptorium paterno per intraprendere un’attività di ricopiatura da destinare alla vendita. Il duca accettò e fu così che, mentre gli uomini si dedicavano alle loro consuete attività, Erminia insegnò il mestiere alle donne del borgo. Filatrici e mugnaie, contadine e fruttivendole, cuoche e mungitrici ben presto cominciarono a essere famose nel circondario e poi in tutto il Regno. Ricevettero un numero sempre crescente di commissioni e i volumi realizzati nel loro laboratorio, arricchiti con iniziali decorate e piccole illustrazioni dipinte con inchiostri colorati o sottili lamine d’oro, finirono sugli scaffali di numerose biblioteche pubbliche e private.
Nelle case del borgo tornarono i sorrisi, mentre il duca De Loia non poté che acconsentire alla richiesta di suo figlio di sposare la bella Erminia. Una straordinaria e combattiva donna del sud che seppe vivere da protagonista del proprio tempo e dei propri luoghi, seminando nel cuore altrui il germe del dubbio, il desiderio dell’affermazione di sé, la consapevolezza di poter impartire la rotta al proprio destino.
« E non rimpianse mai di esser nata in questa terra che avrebbe dovuto faticare ancora a lungo prima di riuscire ad alzare la testa, perché altrove, forse, non avrebbe avuto modo di comprendere quanto fosse importante leggere e scrivere, farsi domande e lottare. » La voce di nonna Ada si era fatta quasi un sussurro. L’anziana donna poggiò la testa sulla spalliera del divano e si lasciò scivolare nel sonno.
« Buonanotte, nonna. E grazie… » Caterina le posò un bacio sulla fronte e, prima di andar via, gettò uno sguardo oltre la finestra. Fuori, il Castello brillava ancora nel buio.
Appena due giorni dopo la prova concorsuale, fu affisso l’esito nella bacheca accanto al desktop informazioni. Annamaria Rossiello, fidanzata del nipote dell’assessore ai lavori pubblici, era la nuova responsabile delle attività culturali e turistiche del Castello. Nonostante la sua laurea in Beni Culturali, Caterina scoprì di essersi piazzata soltanto seconda.
Sorrise, senza amarezza. Saltò in sella al suo scooter e imboccò la litoranea. Guidò vuota di pensieri per un po’, finché non raggiunse un’insenatura circondata da bassi cespugli di mirto e di ginepro. Scese dal motorino, si stiracchiò, si sfilò le scarpe e si sedette a gambe incrociate sulla sabbia umida.
In lontananza intravedeva le mura merlate del Castello, la possente mole dei torrioni, il profilo del bastione che con un atteggiamento di sfida si insinuava nel mare. Caterina rivolse uno sguardo nuovo a quel luogo mitico e quasi mistico, difeso e ostentato e amato. Sapeva cosa fare, adesso. Rimanere. Il suo posto era lì, all’ombra delle mura, per provare a restituire una voce alla sua terra, al suo passato. Voleva raccontare le storie del Castello, far conoscere Erminia e tanti altri silenziosi eroi di quella terra, svelare antiche vicende di cui andare orgogliosi e fieri.
Caterina aveva scoperto che per ritrovare la strada, quando ci si perde, basta ricordarsi da dove si è venuti. Il futuro, a volte, ha radici di pietra.