7 Marzo 2020

Il castello di Concordia

di Carlo Alberto Turrini

da I racconti nel Castello,
antologia della Prima edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.

Buttò la vanga rabbioso contro il fauno di marmo. In quel punto, la pianta di alloro proprio non voleva attecchire. Se solo avesse potuto spostarla di alcuni piedi sarebbe cresciuta rigogliosa. Ne era certo. Poco lontano, prosperava una moltitudine di fiori. Ma la castellana era stata categorica. Il posto dove voleva l’alloro era quello e nessun altro. E se non fosse riuscito a soddisfare quel capriccio, la padrona era sicuramente pronta a licenziarlo. Inutile, lo sapeva già, spiegare che ogni pianta ha il suo carattere e le sue preferenze, che può rifiutarsi di attecchire anche se la terra e la posizione sono favorevoli. Sedette all’ombra di un grosso abete centenario e chiuse gli occhi. In fondo, la marchesa di Concordia sarebbe arrivata solo di lì a tre mesi. A lui rimaneva ancora il tempo per provare altre strade. Decise di fare un altro tentativo; cambiare il terreno (che forse era troppo arido) con del terriccio più grasso e fertile. In una corte di campagna vicina prese un carro con le sponde alte. Vi attaccò un asino. Infine si diresse al fiume con l’intenzione di scavare un bel po’ di quel terriccio generoso che aveva già usato con successo per mettere a dimora piante molto delicate. Scavò per tutta la mattinata, finché il carro fu colmo. Poi portò il veicolo fino al giardino e lo scaricò. Tutto ciò gli costò parecchia fatica. Tornò al castello solo al tramonto. Invece di farsi preparare la cena dalla sguattera, preferì mangiare nella sala comune della servitù, seduto al lungo tavolo di quercia dal quale poteva osservare tutti i movimenti di una nuova inserviente di cucina, arrivata da poco. Mentre la guardava piroettare tra i commensali, pensò che era la più bella ragazza del villaggio. Più bella della marchesa stessa (questo pensiero lo nascose subito in fondo al cuore). Data la sua posizione di capo giardiniere, poteva ben sperare che gli si sarebbe concessa, prima o dopo. Subito dopo cena si addormentò, di un sonno duro e pieno, per risvegliarsi sul fare dell’alba. Mentre si lavava il viso nel catino scrutò il cielo terso. Sarebbe stata di certo una giornata abbastanza calda, malgrado si fosse ancora a metà marzo. Aveva la mente fresca e riposata, perciò considerava con ottimismo il problema di un alloro recalcitrante. Oltre a cambiare la terra, poteva sempre aggiungervi un po’ di buon concime. E alla malora le bizze dei padroni… Era già sul posto da una mezz’ora e stava scavando alacremente, quando la vanga rimandò un tonfo sordo quasi in sincronia con lo scampanio di mezzodì. Aroldo Dossi si interruppe, perplesso, poi diede un altro colpo di braccio. Eh, sì. Era proprio il rumore del legno. Curioso. Pensò di aver trovato un albero sotterrato. Ecco dunque la spiegazione per il mancato attecchimento dell’alloro. Ma, dopo aver dato altri colpi di vanga, capì che non si trattava di un albero. Saltò dentro la buca e rimosse la terra con la mano, scoprendo la superficie ben piallata di una bara. Era un cofano funebre di ottimo legno di noce, perciò l’uomo capì subito di essersi imbattuto nella tomba di un patrizio. Uscì dallo scavo e controllò di essere solo; qualcosa gli diceva che stava per scoprire un pericoloso segreto. Prese dal carro il piccone, la mazza e alcuni cunei di legno e si preparò ad aprire la cassa. Dapprima lavorò con la vanga per liberare completamente il coperchio dal terriccio, slargò un lato dello scavo per avere spazio sufficiente, poi mise un cuneo tra cassa e coperchio, martellandolo con forza finché si conficcò quasi del tutto. Ripeté l’operazione con altri quattro pezzi di legno, quindi infilò il piccone per staccare l’asse massiccia. La bara conteneva i poveri resti del marchese, che tutti credevano ucciso in battaglia a La Garde Freynet, circa tre anni prima. All’altezza del cuore era infilzato un piccolo pugnale cesellato, recante le iniziali della marchesa. Si trattava di una Misericordia: un corto stiletto con il quale i cavalieri usavano dare il colpo di grazia all’avversario ferito mortalmente, evitandogli inutili sofferenze. Nato per uno scopo orrendo, ma nobile, quel pugnale passò in seguito a usi indegni, come omicidi compiuti furtivamente attendendo la vittima dietro un muro. Era facile nasconderlo in una manica, facendo credere di essere disarmati fino al momento in cui la vittima non aveva il tempo di reagire. Dunque, la marchesa aveva ucciso il marito e poi lo aveva sepolto lì, probabilmente facendosi aiutare da qualche scagnozzo. Aroldo Dossi rammentò uno strano episodio avvenuto nei giorni successivi alla presunta partenza del marchese per la guerra. In una stamberga di montagna furono trovati morti quattro marrani, avvelenati mentre giocavano a carte. Come accade sempre in questi casi, il magistrato non si dette pena di cercare il colpevole, giudicando che a uccidere quei disgraziati fosse stato uno della loro stessa stregua. Ma ora il giardiniere conosceva la verità. La marchesa doveva aver chiesto una mano ai quattro lestofanti, ripagandoli, a poco prezzo, con una fiasca di vino avvelenato. Ecco perché aveva preteso che la pianta di alloro venisse piantata proprio in quel punto degli sterminati giardini. Per nascondere definitivamente il suo crimine. Di certo, non immaginava che fosse necessario scavare a una profondità di oltre tre braccia. Aroldo Dossi capì immediatamente che quella scoperta casuale poteva diventare una facile via per conquistare una posizione di prestigio. Gli sarebbe bastato barattare il suo silenzio con un matrimonio di interesse. Certo, sarebbe stato un legame arido e freddo, ma gli avrebbe assicurato un futuro agiato. Ma perché il suo piano avesse successo, non doveva perdere tempo. E doveva farcela da solo. Lavorò alacremente a liberare la bara, dopo di che la agganciò con alcune corde, preparò una specie di carrucola e riuscì così a issarla. Ora bisognava caricare il feretro sul carro; un’operazione per la quale disponeva soltanto delle forza delle braccia. L’intera manovra gli richiese uno sforzo enorme, ma la posta in gioco valeva quella fatica. Nascose il prezioso carico sotto la terra rimossa, infine si stese a terra, esausto. C’erano ancora due ore buone di sole, quando il carro si mosse scricchiolando verso un vecchio casolare del quale il Dossi aveva le chiavi, essendogli stato affidato da un cugino che era entrato nell’esercito di Sua Maestà. Per fortuna, l’edificio si trovava al limitare del bosco, dove la gente preferiva non passare (molte leggende raccontano che la notte, nella foresta, si aggirano mostri avidi di carne umana). Arrivato sotto la barchessa, Aroldo Dossi infilò il carro nella stalla vuota, diede un po’ di biada all’asino e partì, più tranquillo, verso il castello. Malgrado la stanchezza, quella notte rimase sveglio a lungo, ripensando a ogni dettaglio delle sue prossime mosse. Non poteva sbagliare nulla, pena il fallimento e, forse, il capestro. Non si era mai trovato in una situazione simile, ma scoprì che gli piaceva sentirsi pulsare il sangue nelle vene dall’eccitazione. Aveva già dimenticato la servetta che voleva impalmare giusto il giorno innanzi. Per seppellire la bara scelse un luogo appartato, dove i rovi e gli alberi cresciuti spontaneamente avevano creato una specie di sipario naturale. Entrando, fece attenzione a rompere il minor numero di rami possibile, così nessuno avrebbe intuito il suo passaggio. Quando ebbe finito, dissimulò la terra smossa con qualche ramoscello, ricordando di incidere un grosso albero lì vicino con una finta spaccatura (voleva essere certo di ritrovare il posto anche dopo anni). Poi rivolse lo sguardo al cielo e recitò una preghiera per il defunto marchese. Lo aveva risotterrato volutamente dentro i confini della proprietà. Il signore di Concordia avrebbe dormito il sonno eterno insieme ai suoi avi, anche se lontano dal camposanto. Finalmente, la faccenda era sbrigata. Adesso gli restava solo di attendere il ritorno della padrona.
Continuò per qualche settimana a curare il parco e gli immensi giardini. Poi si risolse a mettere in atto la seconda parte del suo piano. Alzandosi di buon mattino, andò dal sovraintendente e gli raccontò di aver bisogno di nuovi attrezzi, chiedendogli licenza per l’intera giornata (il viaggio fino a Mantova era piuttosto lungo). Il funzionario fu dapprima titubante, poi cambiò repentinamente idea: « Se vi servono questi attrezzi, non ho motivo di negarvi il mio consenso. Ma al bisogno mi tornerete la cortesia. »
Aroldo ringraziò il suo superiore, indossò panni puliti, attaccò il cavallo e si preparò a un viaggio non privo di rischi. Per sicurezza, nascose la borsa di pelle con cinque pezzi d’oro sotto il carro. Ma di briganti non ne vide nemmeno uno. Alle porte della città dei Gonzaga pagò il modesto balzello e si diresse senza indugio alla solita bottega, dove acquistò un falcetto, un forcone e alcune trappole. Il brusio del mercato gli dava noia. Abituato a lavorare in compagnia di grilli e uccelli, mal sopportava il vuoto chiacchiericcio dei perdigiorno. Aveva un amico a Mantova di cui poteva fidarsi ciecamente. Quest’uomo si chiamava Paride Ardenzi e sapeva scrivere. Perciò Aroldo Dossi aveva bisogno di lui. Lo aspettò più di un’ora, sentendosi addosso gli occhi curiosi di ogni passante.
« Ohilà, Aroldo. Che ti porta alla mia modesta magione? »
A sentirlo, il giardiniere si intimorì: « Non qui. Dopo ti spiego tutto. »
La casetta dello scrivano era in perfetto ordine. Sulla credenza c’era una bella alzata di Novi colma di frutta. Sedendosi, Aroldo Dossi si sentì sollevato. Il carattere e le abitudini dell’amico gli garantivano una discrezione assoluta. Anche se avesse deciso di non aiutarlo.
« Devo dettarti una lettera, ma promettimi fin d’ora che non mi farai domande in merito, oltre a ciò che ti dirò di scrivere. »
Paride lo scrutò con affettuosa preoccupazione: « Non te lo domanderò. Aspetta che prendo l’occorrente. »
Tornò quasi subito, con la penna d’oca, alcuni fogli di carta giallastra e un calamaio veneziano in vetro. « Sono pronto. »
Il Dossi si schiarì la voce: « Addì ventidue Marzo millesettecentotré io, Aroldo Dossi, di professione giardiniere, dichiaro quanto segue: una settimana or sono, mentre mettevo a dimora una pianta di alloro nel parco del castello di Concordia mi accadde di rinvenire la bara del marchese di Concordia, che tutti credono morto sul suolo di Franza. Il cadavere aveva un coltello Misericordia infilato nel cuore che recava le iniziali BM, dal che lo riconobbi come appartenente alla marchesa Bianca Maria, vedova del predetto marchese. Allo scopo di prevenire la rimozione del feretro da parte di chicchessia, mi sono permesso di spostarlo in altro loco più sicuro, cioè laddove il bosco si stende vicino al fiume Tartaro, al confine meridionale delle terre castellane. Dichiaro e confermo altresì di aver lasciato intatto il contenuto del cofano, il quale solo apersi, avendo reputata sospetta tale sepoltura, affatto lontana dalla chiesa marchionale. Quanto affermato e scritto, lo affido al notaro Davide Giusti, sotto forma di lettera sigillata recante il mio medesimo nome. »
Paride lo guardò allibito. Voleva chiedergli perché faceva tutto ciò, rischiando di passare per un complice, anziché scegliere la diritta via della giustizia. Ma aveva promesso. La sua bocca rimase sigillata come, di lì a poco, sarebbe stata sigillata la busta con la confessione che aveva trascritto. Aroldo voleva compensarlo per il disturbo, ma Paride gli indicò la porta e il giardiniere capì che il loro legame era rimasto ferito da quella faccenda. Si augurò di avere modo di rinsaldare l’amicizia negli anni a venire e disse: « Non preoccuparti per me. So quel che faccio e presto comprenderai ogni cosa. »
Il notaio prese in consegna la lettera, la sigillò con la ceralacca marrone (quella rossa era riservata ai clienti più facoltosi) indi la ripose in un forziere. Chiese tre soldi d’oro e non fece domande. Sulla strada del ritorno, Dossi quasi sfiancò il cavallo per la fretta di tornare al castello. Stava scendendo di sella quando fu informato dal sovraintendente che la marchesa sarebbe arrivata soltanto all’inizio dell’Estate. Ciò gli dava modo di rimeditare a lungo sul suo progetto. Anche se aveva già approntato tutto, poteva ancora lasciar perdere. Non farne nulla e continuare a vivere come sempre. Forse, il mondo dorato della nobiltà non era fatto per lui. In fondo, il suo unico desiderio era davvero quello di occuparsi di alberi e fiori. Intanto, dovette ricambiare il favore fattogli; tre giornate a sgobbare nel giardino privato del funzionario in cambio dell’unica giornata trascorsa in città. Questo ennesimo sopruso fece pendere l’ago della bilancia verso la decisione di continuare nei suoi intenti ricattatori, se non altro per potersi vendicare, prima o dopo, di tutte le angherie subite dai patrizi. Nel frattempo, la pianta di alloro aveva finalmente attecchito e l’erba aveva nascosto completamente la nuova sepoltura del marchese. Anche il parco del castello era rigoglioso. Le siepi del labirinto crescevano a vista d’occhio e Aroldo ripensò alle tante coppie di amanti che vi aveva visto nascondersi negli afosi pomeriggi estivi, quando i legittimi consorti si concedevano una pennichella dopopranzo. Quelle vicende clandestine sarebbero state eccellenti storie da raccontare davanti al camino dell’osteria, ma Aroldo Dossi era troppo discreto per parlarne con chicchessia. Talvolta si rammaricava di non avere amici né compagni di bevute. Era solo. Ma nella sua solitudine sapeva godere di molte cose belle, che gli recavano un onesto piacere. La vista di un paesaggio o di una raffinata porcellana, la lettura di una poesia, la musica che risuonava in certe occasioni mondane nei salotti aristocratici… tutto questo gli dava un sollievo speciale perché, pensava, se il bello esiste, allora gli esseri umani non possono essere davvero cattivi. Ora, grazie a una fortunata serie di circostanze, poteva aspirare a qualcosa di meglio che la semplice contemplazione. Non mancava molto, ormai. In effetti, la marchesa tornò il sabato successivo. Come ogni anno, aveva fatto chiudere il palazzo di Este, per riaprirlo in autunno. Aroldo Dossi stava riordinando le due stanze al castello che abitava da quasi quindici anni. Sentire il corteo avvicinarsi dal viale principale gli fece venire subito un nodo in gola. Il tempo delle incertezze era giunto al termine. La campanella della servitù si mise a squillare ben presto, e il giardiniere capì che la marchesa si era insediata al suo comodo posto di comando, nell’appartamento al piano nobile. Insieme a lei arrivarono vari dignitari, alti prelati e cicisbei, che riempirono vociando ogni ambiente del castello. Era una scena che si ripeteva ogni anno, seppur con personaggi sempre diversi. La marchesa aveva un carattere spigoloso e incostante. A parte qualche intimo di vecchia data, rinnovava le sue amicizie con la stessa frequenza del guardaroba. A fare le spese di una tale folla di ospiti erano i maggiordomi, i servi, gli stallieri, che si vedevano bersagliati dalle richieste più strampalate, come quella di fare il bagno in acqua di rose o di mangiare pesce di mare freschissimo a oltre duecento miglia dal porto più vicino. E il giardiniere non faceva eccezione. Spesso, gli toccava far da cicerone a vecchie dame imbellettate e gentiluomini azzimati, spiegando le caratteristiche delle piante più rare e preziose. La marchesa passò varie volte dal giardino con il suo nuovo amante, senza degnarlo di uno sguardo. Ma erano trascorsi appena quattro giorni quando il Dossi fu convocato dalla donna. Stavolta, le splendide opere d’arte che affollavano il salone non gli fecero alcun effetto. Aroldo Dossi si sentiva sul punto di essere scaraventato a destra e a manca da eventi più grandi di lui.
La voce della cameriera lo riscosse: « Entri, presto. La marchesa è in studio. »
Contrariamente al solito, l’attesa era durata meno di mezz’ora.
« Egregio giardiniere, ha pensato alla festa del mio compleanno? »
« Si, signora marchesa. Farò un trionfo di fiori da collocare tra l’ingresso della sala da ballo e la fontana. Inoltre, farò intrecciare cento ghirlande che metterò sul viale maestro… » non riuscì a finire la frase, perché la donna lo interruppe.
« E che mi dice di quella pianta d’alloro cui tengo tanto? »
« È a dimora, esattamente nel luogo che lei mi indicò. »
La nobildonna si alzò. « Vorrei andare a vedere se l’effetto è come avevo immaginato. Naturalmente, dovrà accompagnarmi… »
« Quando? »
« Adesso. Ho giusto un paio di ore libere prima che arrivi Sua Eccellenza il Cardinale… »
Spiazzato, il giardiniere non poté far altro che rispondere: « Come Sua Signoria desidera. »
Fu chiamato il cocchiere, che li condusse vicino alla statua del fauno. La marchesa lo licenziò, chiedendogli di tornare dopo un’ora. Questo mise in agitazione il Dossi. Perché aveva mandato via la carrozza? Per controllare che l’impianto dell’alloro fosse stato eseguito con successo bastavano pochi minuti. Solo allora, Aroldo realizzò di essere lo scomodo testimone di uno strano capriccio. Se la cosa fosse stata risaputa, poteva far nascere voci, illazioni, o addirittura sospetti. Camminando a rispettosa distanza dietro la sua padrona, l’uomo intuì di non aver scelta. Più che di un ricatto, si trattava di aver salva la vita.
« Sì. Mi sembra ben attecchita. Lo sa, Aroldo, perché ho voluto un alloro proprio qui? Perché è una pianta sacra, cara agli dei, e protegge chi le rende il dovuto omaggio. A Roma, solo gli eroi e gli imperatori potevano fregiarsi della corona di alloro… »
Il giardiniere non ebbe dubbi. Quella donna maligna stava tramando qualcosa. Con la coda dell’occhio percepì un vago movimento; dal bosco stavano arrivando due o tre uomini armati. Certo, dovevano essere stati chiamati per chiudergli definitivamente la bocca. Doveva agire in fretta.
« Non si preoccupi, signora. Il suo segreto è al sicuro. Non c’è bisogno che ammazzi anche me. Al contrario. Se dovesse accadermi qualcosa, una certa lettera partirebbe per Milano dove i cugini del suo defunto marito saprebbero trarne le debite conclusioni. »
A quelle parole, la donna sbiancò. Il suo delitto era stato scoperto. Doveva cambiare subito i suoi piani. Nel frattempo, i tre gaglioffi si erano fatti appresso alla coppia.
« Signori. Non ho bisogno di scorta » disse, fingendo di averli chiamati a proteggerla.
« Ma, marchesa, è stata lei a convocarci. »
« Dovete esservi sbagliati. Comunque, la vostra paga non è in questione. Andatevene. Alla mia incolumità sa badare anche il mio giardiniere. »
I tre mangiarono la foglia. Salutarono con deferenza e se andarono.
« Che vuole in cambio della sua discrezione? Oro? Quanto? O preferisce una buona rendita? Parli, su, che non intendo dedicare più che un attimo a questa faccenda. »
« Voglio un matrimonio. Un matrimonio d’interesse. »
E lei: « Solo questo? Non ha che da dirmi chi ha scelto… »
« Il fatto è che voglio sposare lei, signora marchesa. »
Seguì un lungo silenzio. Ciò che Aroldo Dossi chiedeva, andava al di là di ogni ragionevolezza. Anche volendo accettare, la donna immaginava già i commenti sussurrati a mezza voce al castello. Decise di prendere tempo, dichiarandosi disponibile, in linea di massima, ma a certe condizioni. In realtà, stava già pensando al modo per venire in possesso della maledetta lettera che la accusava. Tolta di mezzo quella e l’omuncolo che aveva davanti, quel contrattempo sarebbe stato definitivamente risolto. Dal canto suo, il Dossi accettò l’attesa di buon grado, consapevole di quanto fosse esorbitante il compenso richiesto. Tornati al castello, si separarono al ponte levatoio. Aroldo Dossi tornò alle sue occupazioni floreali, la marchesa invece convocò d’urgenza il soprintendente. Voleva sapere se e quando il giardiniere si fosse allontanato dal castello, seguendone le tracce fino alla preziosa lettera. Ma il funzionario, che aveva barattato una giornata con parecchio lavoro svolto per suo tornaconto, si guardò bene dal raccontarlo. Così, alla donna non restò altro che cercare la lettera nel castello o nelle case rurali dei dintorni. Avviò serrate indagini, cercando di mantenere la massima riservatezza e minacciando di licenziamento chiunque avesse rivelato ad altri le domande che gli erano state fatte. Ma non venne a capo di nulla. Quel piccolo zappaterra era più furbo di quanto sembrasse. Lui intanto continuava ad andare su e giù per il parco e i giardini, perché gli piaceva trarre dalla natura i suoi più bei gioielli. Perciò non escludeva di occuparsi personalmente della tenuta anche nel nuovo ruolo di marchese. Inoltre non aveva alcuna fretta, e aspettò la risposta della marchesa con la stessa pazienza che metteva nel sorvegliare il progresso di una fragile pianticella esotica. Poi arrivò il freddo. Mancava poco al Santo Natale quando, finalmente, la vedova si risolse a comunicare al giardiniere che era disposta a fare quanto richiestole, ma solo alla condizione di avere in mano la lettera il giorno stesso delle nozze. L’uomo ci pensò un po’ su, poi rispose che la cosa era fuori discussione. Che considerava la lettera come una garanzia di lealtà da parte della sposa. Mancando quella… Insomma, forse gliel’avrebbe resa, sì, ma più avanti negli anni. La marchesa, che non poteva tergiversare oltre, acconsentì a fissare la data del matrimonio per la Pasqua seguente. Durante il lungo inverno, i due ebbero l’accortezza di farsi vedere spesso in giro, allo scopo voluto di far nascere qualche pettegolezzo intorno alla loro relazione. Dunque, quando le nozze furono annunciate ufficialmente, nessuno se ne stupì. Aroldo Dossi, nel frattempo, aveva ben impiegato i giorni di ozio per apprendere le regole di corte e di galateo: come ci si comporta a tavola e nelle occasioni mondane, come si deve accogliere un ospite di riguardo e quali vesti indossare per recarsi a corte o a una battuta di caccia. Pur continuando a odiarlo, la marchesa non poté fare a meno di notare con quanto impegno il suo futuro compagno volesse adeguarsi al ruolo di marchese di Concordia. Ebbe inoltre modo di constatare che Aroldo Dossi dimostrava un amore insospettato per l’arte e la cultura. Volle persino imparare a leggere, scrivere e far di conto. Ci perse quasi due mesi, ma riuscì a studiare con tale profitto da poter affrontare con successo qualsiasi libro della biblioteca, per quanto ponderoso. Guardandolo, lei si stupiva del contrasto tra quei lineamenti rozzi e il modo di parlare dell’uomo, che aveva quasi perso ogni traccia di volgarità. Persino i ragionamenti che faceva, sembravano più consoni a quelli di uno statista smaliziato che di un contadino rifatto. Cominciò a dubitare di volerlo uccidere alla prima occasione. In ogni caso, la sorte del giardiniere sarebbe stata decisa dalle pretese che avrebbe avanzato in seguito. Il matrimonio si svolse con sfarzi non eccessivi e qualche tensione. Durante la cerimonia, qualcuno degli invitati rise di soppiatto, ma non coloro che avevano già avuto modo di conversare con Aroldo Dossi e di apprezzarne l’acume. Il conte di Valpiana, che aveva provocato il neo-marchese su delicate questioni di politica, ne ebbe una risposta talmente acuta e saggia da impedirgli di replicare, come avrebbe voluto, per dimostrargli la differenza tra un vero nobile e un plebeo. Questo spiazzò i detrattori del marchese Aroldo e ci fu persino chi giunse a fargli sincere felicitazioni per il bel matrimonio. La marchesa non si comportò altrettanto bene. Aveva invitato più di un amante e non perdette l’occasione di appartarsi con l’uno o l’altro, promettendogli di farlo diventare, appena possibile, il futuro marchese consorte. Poi i festeggiamenti ebbero fine. Gli sposi salutarono gli ultimi commensali e si ritirarono nei loro appartamenti. La marchesa si era già preparata a un brutale assalto da parte del marito. Indossò una lunga camicia per la notte e si infilò nel letto a debita distanza dall’uomo che, notando la sua freddezza, non fece altro che dormire di un sonno profondo e beato. La cosa andò avanti per parecchie notti, finché fu la donna stessa a capitolare, cercando, se non l’amore, almeno la vittoria dei sensi. Contava sulla sua esperienza di amante per ammorbidire Aroldo, onde carpirgli qualche informazione utile per toglierlo di mezzo. E fu una notte davvero intensa, fatta di assalti dolci e bruschi ritorni del desiderio, vivo e forte come le onde del mare. Dunque, senza saperlo, la marchesa aveva sposato un ottimo amante. Non si accorse nemmeno che l’odio stava virando in amore. Uccidere un uomo di quella fatta le sembrò semplicemente un grave errore, anche perché poteva mettere il piede in fallo e dare al giudice un valido pretesto per infilarle il cappio al collo; il ramo milanese del primo marito non aspettava altro. Anche la conduzione del castello le richiedeva un impegno meno gravoso che in passato. Aroldo Dossi aveva preso in mano le redini della tenuta, e alla marchesa Bianca Maria non restava che godersi l’ozio spensierato di una bambina. Per la prima volta dalla morte del marchese, poteva contare su un amministratore che non l’avrebbe derubata nemmeno di un centesimo. Arrivarono tre figli. La primogenita, battezzata Anna Teresa, e due maschi: Alfonso e Luigi. Crebbero in armonia, con un padre che sapeva essere severo e affettuoso come pochi altri. E gli anni scivolarono veloci nella clessidra, fino all’Estate in cui Anna Teresa divenne adulta. Malgrado vivessero d’amore e d’accordo, tra i due coniugi era sempre rimasta una sottile diffidenza, derivante dal lontano segreto che li aveva uniti. Il giorno del compleanno di Teresa, il marchese uscì di casa al primo albore si recò sul luogo della vera sepoltura del marchese, scavò e scavò di lena finché riuscì a recuperare il pugnale che provava l’antico delitto. Tornato a casa, lo pulì accuratamente, lo portò al fabbro e gli chiese di fonderlo per farci una croce da mettere nella cappella privata. Quel gesto avrebbe potuto costargli la vita, ma non voleva continuare a vivere con il pensiero di dovere la felicità a un ricatto. Erano ormai trascorsi ventitré anni dalla macabra scoperta che gli aveva consegnato la marchesa e il castello. Questa stava riordinando alcune carte nello studio, quando il marito entrò, con un’espressione grave in volto.
« Ho distrutto la lettera e fatto fondere il tuo vecchio pugnale. Ora sei libera di decidere se vuoi tornare a essere padrona assoluta di queste terre. »
La donna lo guardò in silenzio, poi le lacrime sgorgarono copiose dai suoi occhi: « Era tanto che attendevo un segno del tuo amore. Le mie ultime preghiere prima di dormire erano perché tu avessi infine fiducia in me. »
Lo abbracciò di slancio, coprendolo di baci. E non ne parlarono mai più. La croce che potete ammirare ancor oggi nella cappella nobiliare di Concordia è la prova che la natura umana è davvero imprevedibile: nel bene e nel male.