6 Marzo 2020

Il caso Caravaggio

di Fiorella Borin

da I racconti nel Castello,
antologia della Prima edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.

Il conte mi ricevette con grande amabilità.
« Confido nella tua discrezione » mi disse, abbracciandomi. Ricambiai la stretta e scoprii un uomo assai più magro di come apparisse nella raffinata marsina dalle sapienti imbottiture; il passare degli anni non gli aveva spento lo sguardo vivace, acuto, di uomo brillante e gran libertino, ma lo aveva rinsecchito. Non ci vedevamo da molto tempo. Il conte di Mombasso era stato uno dei più cari amici di mio padre; avevano frequentato insieme l’università, le corse dei cavalli, i ridotti dove interi patrimoni passavano di mano con la velocità di una smazzata di carte, le alcove delle attrici e gli accampamenti militari. Poi mio padre si era messo quieto: una ferita alla gamba lo aveva convinto a lasciar perdere la carriera delle armi e a sposarsi con la dolce ragazza destinata a diventare mia madre, e che ebbe appena il tempo di mettermi al mondo, farmi una carezza e spirare. Avevo conosciuto il suo viso in un minuscolo ritratto a olio, fattole da un pittore veneziano che aveva concluso i suoi giorni appeso a una forca con altri due ladri di cavalli. Fu proprio quel piccolo quadro, sin dall’infanzia contemplato con devozione morbosa, a far crescere in me tanto l’amore per l’arte, quanto il desiderio di conoscere i lati più oscuri, pericolosi e segreti della vita ultraterrena.
« Somigli sempre di più a tuo padre » disse il conte, staccandosi da me. « Eh » sospirò, « solo Dio sa quanto mi manca… e quanto gli ho voluto bene. Scusami se non sono venuto ai suoi funerali. Purtroppo, come ti ho spiegato nella lettera, sono stato informato troppo tardi. » Scosse tristemente il capo e mi indicò una poltrona. « Mettiti comodo » disse, sedendosi a sua volta. Quindi si cavò di tasca una presa di tabacco, aspirò, starnutì, cincischiò il fazzoletto e abbassò la testa.
« Il mese scorso mi sono sposato » annunciò, senza scollare lo sguardo dalla punta delle sue babbucce.
« Ma che bella notizia! Congratulazioni! » replicai simulando un’allegria che in realtà non provavo. In primis mi bruciava non essere stato incluso nell’elenco degli invitati – elenco che immaginavo assai corposo, dato che i ricevimenti allestiti al castello di Mombasso non avevano nulla da invidiare alle feste organizzate nei palazzi sul Canal Grande, la cui sfarzosità era leggendaria. E tale per me era destinata a rimanere, poiché, dopo il rovescio finanziario che aveva spinto mio padre a bruciarsi le cervella con un colpo di pistola, tutte le porte di quei palazzi non mi erano più state aperte. In secundis, essendo la mia situazione economica ormai disperata, avevo fatto affidamento su un generoso lascito testamentario del conte, che era stato mio padrino e mi aveva sempre manifestato grande affetto, incoraggiandomi ad approfondire gli studi di alchimia, criptografia, glottologia ed esoterismo. Questo matrimonio così tardivo sferrava un colpo mortale alle mie speranze di ereditare qualcosa da lui.
« C’è poco da congratularsi » borbottò lui. « Ancora non sono riuscito a consumare. »
Lo fissai incredulo. « State scherzando? »
« No. »
« Avete parlato con un medico? Esistono delle cure, sapete. Fumigazioni, decotti, empiastri, congiunti a una dieta adeguata, fanno miracoli sulla debolezza della verga. Ho sentito dir mirabilia del corno di becco bruciato e ridotto in polvere, da assumere nella misura di un grano al giorno… »
Mi interruppe con un gesto seccato. « Non è mio, il problema. »
« No? »
« No. È di mia moglie. È la signora contessa che ogni sera, ai miei appassionati assalti, oppone un netto e irrevocabile rifiuto. Siccome sono un gentiluomo, non intendo piegarla con la forza ai miei desideri. Ho l’età per esserle padre, più che sposo, e finora l’ho trattata con la tenerezza e la condiscendenza che un genitore riserva alla sua figlia prediletta. Ma poiché voglio un erede, esigo che questa storia finisca. »
« E io? » balbettai. Mi sentivo la gola secca come dopo una giornata in barca sotto il sole di agosto.
« Cosa c’entri tu? È questo che vuoi sapere? C’entri, figliolo. Non sei tu quello che sin da bambino raccontava di sentire la voce della madre defunta provenire dal quadro che la ritraeva? Non sei tu quello che sosteneva a oltranza la tesi che lo spirito di persone e cose ormai trapassate vive ancora nei dipinti che li riproducono fedelmente? » Si era messo in piedi di scatto e ora gesticolava, rosso in volto, gli occhi fuori dalle orbite. Non lo avevo mai visto così agitato. « Non sei tu quello che si vantava di saper decifrare lingue morte, tradurre testi oscuri, interpretare segni che a tutti noi non dicono un bel niente? Non sei tu quello che ha sperperato metà della fortuna del padre buonanima, per inseguire spettri, fantasmi, spiriti di frescanti e voci di pazzi furiosi in giro per il mondo? » Si rimise seduto di schianto. « Se sei tu, quello, resta qui. Risolvi il mio problema e sarai ben ricompensato. Se invece non sei tu, perché nel frattempo sei rinsavito, vattene e non farti mai più vedere. »
Mi alzai dalla poltrona. Sollevai in alto il tricorno e con un gesto teatrale me lo appoggiai sul petto. « Sono io, signor conte » dissi.

Il conte accostò l’indice alle labbra. « Andiamo giù » disse, strizzandomi un occhio. Il messaggio era chiarissimo: temeva di essere ascoltato da orecchie indiscrete. Attraversammo quasi di corsa i saloni che non vedevo da tanti anni, e nei quali da ragazzo avevo fantasticato di entrare un giorno da padrone. Mi sembrarono più piccoli di come li ricordassi, benché ciascuno fosse lungo e largo il doppio dell’intero appartamento in cui da pochi mesi mi ero adattato a vivere. Ritrovai gli scintillanti lampadari di Murano, i soffitti affrescati dagli allievi del Veronese, le due sculture del Rizzo su cui a otto o nove anni, rischiando la frusta del conte, mi ero arrampicato; ritrovai i caminetti sormontati da decine di piatti di maiolica faentina di cui il conte era collezionista, gli sfarzosi tendaggi di seta che regalavano alle stanze una luce dorata, le armature schierate come in una triste parata di guerrieri morti, e appesi alle pareti i ritratti degli antenati. Mi arrestai come folgorato.
« Quella è…? » balbettai, indicando il quadro che chiudeva la serie.
« È mia moglie. L’attuale contessa di Mombasso » replicò duramente il mio padrino. « Destinata a rimanere l’ultima contessa di Mombasso, se non riesci a trovare il modo di farmi avere figli da lei. »
Era la donna più bella che avessi mai visto. Un viso d’angelo su un corpo degno di Salomé. La immaginai vestita di sette veli e mi girò la testa.
« Andiamo, su. » Il conte mi aveva afferrato per un braccio e mi strattonava via. « Ora capisci perché ti ho chiamato? » bofonchiò a bocca storta. Annuii. Dopo aver constatato com’era la contessa, non c’erano dubbi che, più che alla discendenza, il conte aspirava alla consumazione.

In giardino, mentre passeggiavamo lungo il viale alberato che tagliava in due il parco, il conte mi spiegò ogni cosa.
Sin dalla prima notte di nozze, la contessa aveva cominciato ad avvertire strani malesseri, conseguenti a inspiegabili tramestii, voci e schiamazzi che affermava di udire non appena si metteva a letto. Questi rumori, da lei imputati a fantasmi alloggiati nel castello, l’avevano fatta cadere in un profondo stato di prostrazione, impedendole di ricambiare gli abbracci del legittimo sposo, e facendola immalinconire. La cosa più singolare era che questi suoni angoscianti lei li avvertiva solo di notte, e solo nella camera da letto. Nelle altre stanze la sposina diceva di non udire alcun rumore attribuibile agli spettri.
« E allora trasferite l’alcova in un’altra stanza, e consumate, per Dio! » sbottai.
Il conte mi guardò per traverso. « Figliolo. Io sono superstizioso. Dei sedici conti di Mombasso che mi hanno preceduto, soltanto due non hanno assaporato le grazie virginali delle loro spose in quella camera da letto. Ed entrambi sono finiti assassinati a colpi di forcone dai contadini in rivolta. Non so tu, ma io non amo le punte di forcone infilate nel collo. E ora torniamo dentro. »
Risalimmo lo scalone e finalmente ebbi accesso alla camera degli sposi. Era a dir poco sontuosa. Il soffitto riproduceva alla perfezione un cielo stellato, composto da tessere di vetro cui era stata miscelata polvere di lapislazzuli e di zaffiri; gli astri erano cristalli mirabilmente sfaccettati, cui bastava la luce di una candela per accendersi di bagliori. Gli affreschi alle pareti riproducevano ninfe e cavalieri impegnati in attività sfacciatamente erotiche.
« Mettiti al lavoro, su! »
La voce stizzita del mio padrino mi richiamò al dovere. Mi tolsi il tricorno e mi levai di dosso la marsina; per cogliere le vibrazioni, dovevo stare comodo. Mi misi seduto sul pavimento e chiusi gli occhi. Rimasi immobile in questa posizione per un po’ di tempo; quando mi rialzai, dissi al conte che non avevo rilevato nulla di anormale.
« E allora? »
« E allora conducetemi nella stanza adiacente a questa » replicai. « Ho fondati motivi di credere che la fonte degli schiamazzi notturni stia al di là della parete a cui è addossato il letto. »
« Lo spero per te » tagliò corto il conte, avvicinandosi a una delle tante porte affrescate sulla parete, che si alternavano alle scene degli amori bucolici. Con mia grande meraviglia, la porta si aprì davvero.
« Questa è la stanza del tesoro » disse, cedendomi il passo. Entrai.
Non c’erano scrigni di monete d’oro, né candelieri d’argento, né diademi di regine o corone di re passati a miglior vita, né preziose armature di eroi. Ad eccezione di una poltrona, il pavimento era completamente sgombro. Il tesoro era appeso alle pareti. C’erano dieci tele, tutte di soggetto profano. Riconobbi in quattro di esse la mano di Tiziano e in cinque quella del Tintoretto. L’ultima, in corrispondenza della testiera del letto, era del Caravaggio.
« I bari! » esclamai, con la voce rotta dalla commozione.
« Proprio così » annuì il conte. « Sul retro della tela c’è il timbro del cardinal del Monte, mecenate e protettore del giovane Merisi. Figliolo, davanti a te non c’è una delle cinquanta copie che circolano in Europa da duecento anni, ma il primo quadro con questo soggetto, e l’unico dipinto da Caravaggio in persona. »
Il quadro, famosissimo anche grazie alle numerose repliche di cui era stato oggetto, rappresentava una partita a carte. Un giovane dall’aspetto nobile e ingenuo giocava con un coetaneo che, imbeccato dal compare appostato alle spalle del “pollo”, avrebbe vinto la partita grazie alle carte estratte da una tasca segreta posta sul suo fondoschiena. Tutti e tre erano vestiti con distinzione e portavano cappelli piumati, in obbedienza alla moda del tardo Cinquecento.
« Due compari e un pollo » mormorai. « L’ho sempre chiamato così, questo quadro. E darei dieci anni di vita pur di possederlo. »
« Non ti distrarre, lavora » mi zittì il conte.
Avvicinai le mani al dipinto, percorrendolo tutto con estrema lentezza. Quindi, sfinito dalla tensione, lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi.
« Hai sentito qualcosa? »
« Forse » risposi a bassa voce. « Dopo esaminerò anche gli altri quadri, ma sono pressoché certo che le voci udite da vostra moglie provengano da questa tela, per due motivi. Il primo è che, contrariamente a Tiziano e Tintoretto la cui vita è stata lunga e agiata, Caravaggio ha trascorso praticamente tutta la sua esistenza in una condizione di disagio materiale e affettivo. È stato sempre infelice: un uomo in fuga dagli altri e da se stesso. È morto giovane, e il presentimento di una fine prematura ha aggiunto forza e rabbia alla sua pennellata. E forza e rabbia non tacciono, ma gridano. »
« Vai avanti. »
« Il secondo motivo sta nel fatto che egli amava così tanto il vero da riprodurlo così fedelmente nei suoi dipinti da trasferire non solo le fattezze, ma anche l’anima… o lo spirito, come volete voi… delle persone e delle cose ritratte. Quest’anima, o spirito, sopravvive al trascorrere del tempo senza invecchiare, senza morire mai. E alle volte parla. »
« Bene » disse il conte. « Ora vado a raggiungere la signora contessa nel castello dei Da Peraga, dove da ieri è ospite della cugina. Torneremo qui domenica, prima del tramonto. Per quell’ora, voglio la tua relazione sul tavolo del mio studio. Se la troverò soddisfacente, sarai adeguatamente ricompensato. In caso contrario, uscirai da qui a calci nel sedere. »
Mi schiarii la gola. « Perdonate, ma non potreste credermi sulla parola e spostare I bari in un’altra stanza? O, meglio ancora, in un’altra casa? Non dico di farmene dono, ma… »
« Bravo, non dirlo. Solo due miei antenati hanno osato alterare l’ordine dei quadri esposti nella pinacoteca. Ed entrambi sono morti per mano dei briganti sulla strada di Padova. » Mi girò le spalle e uscì senza un saluto.

Trascorsi la prima notte prima seduto, poi semisdraiato, quindi beatamente addormentato sulla poltrona posta al centro della pinacoteca. Non avevo udito proprio niente. Sapevo per esperienza che non sempre la voce degli spiriti nascosti nei quadri si manifesta al primo approccio. Così l’indomani me la presi comoda, passeggiando nel parco, saccheggiando la cantina, visitando le scuderie e montando prima un gagliardo stallone e poi, dopo essere stato villanamente disarcionato, un placido ronzino. Confidavo di ottenere qualche risultato nella seconda notte di appostamenti. Ma forse perché, per calmare il dolore causatomi dalla rovinosa caduta da cavallo, avevo preso un po’ di laudano in eccesso, o perché il vinello trafugato dalla cantina del conte era a dir poco delizioso, la sola cosa notevole della seconda notte fu la dormita che mi feci.
Non ero il tipo da abbattersi al secondo insuccesso; avevo davanti a me altre quarantott’ore per risolvere l’enigma, e dunque non mi diedi pena. E anche il terzo giorno trascorse serenamente, almeno quanto la terza notte, nella quale dormii come un ghiro. Ma il sabato pomeriggio, mentre leggevo un libro licenzioso all’ombra della magnolia fatta piantare da chissà quale antenato del mio padrino, mi piombò addosso, insieme allo schitto di un merlo, la paura di concludere quell’avventura esoterica con un clamoroso insuccesso. E allora corsi come un pazzo alla pinacoteca, mi spogliai e, seminudo e tremante, a occhi chiusi e mani bene aperte, esplorai palmo a palmo tutte le dieci tele. Avvertii le ben note vibrazioni provenire solo dalla tela del Caravaggio. Ma non, come avevo supposto, dai tre protagonisti della partita, sui quali fino a quel momento avevo focalizzato la mia attenzione, bensì da tre modesti oggetti colà raffigurati, e precisamente dalle due carte da gioco che spuntavano dal fondoschiena del baro in primo piano, e dal cappello del giovane destinato a farsi spennare dai due disonesti compari. A quel punto, come colto da una febbre incontrollabile, trasferii nella camera da letto degli sposi le altre nove tele, e rimasi da solo nella pinacoteca con I bari.
Mi sciacquai la gola con un po’ di assenzio. Poi, finita la fiaschetta, tracannai una caraffa di meravigliosa malvasia. Quindi fu la volta del cordiale preferito dal conte, che passò senza obiezioni dalla bottiglia di cristallo al mio stomaco. E finalmente arrivarono, nitidissime, le voci delle due carte da gioco e della penna sul cappello del pollo.

Mi svegliarono le campane che battevano il mezzogiorno. Ficcai più volte la testa in un catino colmo di acqua gelida, per svegliarmi e trovare la lucidità necessaria per trascrivere, in bella calligrafia e su carta buona, tutto quanto avevo annotato frettolosamente nel mio quadernetto. Ci lavorai l’intero pomeriggio. Avevo appena finito, quando mi ricordai di non avere ancora rimesso al loro posto i quadri di Tiziano e Tintoretto. Mi precipitai nella camera degli sposi e uno dopo l’altro li appesi ai chiodi della pinacoteca, ma con qualche dubbio e qualche esitazione di troppo, giacché non mi ricordavo più la precisa sequenza in cui essi erano stati allineati. Né mi aiutò cercare sulla parete l’impronta delle loro cornici, perché per massima mia disgrazia i quadri avevano tutti le identiche dimensioni. Mi ci arrovellai un bel po’, qua spostando, là alternando, e di nuovo rimettendo le tele nell’ordine che un attimo prima mi era parso sbagliato. Devo dire che in questi casi l’acquavite fa miracoli, perché dopo essermene scolata una bottiglia, i quadri mi apparvero meravigliosamente e inappuntabilmente nella sequenza originaria.
Soddisfatto, rilessi con animo allegro il mio papiello, che avevo intitolato Carta canta.

“CARTA CANTA”
 
I.
L’OTTO DI CUORI
Sono passata per tante mani. Ho conosciuto dita sporche, fiati pesanti, colpi di tosse, bestemmie e sputi. Ho conosciuto la gioia, il batticuore, la rabbia, l’esultanza, il pugno sferrato sulla tavola, il sussulto dei bicchieri nel fumo delle bettole.
Sono nata a Venezia e da lì sono partita con le mie sorelle, tutte giovani, pulite e lisce come me. Abbiamo dormito in un carro, strette le une alle altre per farci coraggio, e percorso strade buie e viottoli assolati, bianchi di polvere sottile come cipria. Poi il nostro padrone ha svuotato il carro e ha cominciato a palparci tutte, a guardarci tutte. Su qualcuna delle mie sorelle, con l’unghia ha inciso un graffio. Io sono stata risparmiata dallo sfregio non perché gli piacessi, ma perché gli piacevo troppo poco.
Quella sera stessa ha cominciato a servirsi di noi. In una taverna frequentata da briganti e contrabbandieri, ha avuto inizio il mercato delle vergini. E tutte quante siamo state malmenate, sbattute con furia sul tavolaccio unto da decennali baldorie, passate di mano in mano, derise, qualcuna baciata, altre disprezzate, io ammutolita dallo spavento, tra le bestemmie e gli sputi.
Dopo uno violento scambio di insulti, la parola se la sono presa i coltelli. È fiottato il sangue, e nel rantolo che dava il via al fuggi fuggi, ho riconosciuto il fiato del mio padrone. Ho sentito la sua mano aggrapparsi al tavolo e sono caduta a terra, tra lo sporco e gli ossi rosicchiati dai cani, e su di me è rotolato lui, il mio padrone, pesante come la pietra del sepolcro.
Ho creduto che sarei rimasta lì per sempre, sotto quegli abiti lerci, quella montagna di carne che si faceva sempre più fredda, tra il gridare dell’oste che chiamava gli sbirri e il singhiozzare sgomento di una fantesca, sotto quel buio che aveva l’odore e il colore del sangue.
Invece è tornata la luce. Si sono portati via il morto trascinandolo per i piedi, e una mano mi ha sollevata da terra.
« Posso prenderla? » domanda la voce di un giovane.
« Mio buon Michelangelo, prendetevi tutto quello che vi pare, fuorché l’incasso della giornata, il vino che ho nelle botti, e mia figlia. »
Mi accosta al suo viso. Le sue dita fremono, sanno di olio e tuorlo d’uovo, e sotto le unghie non si annida lo sporco della terra, ma una mezzaluna turchina: il colore del cielo quando il tempo è buono. È un pittore.
« Vi secca se ne prendo anche altre? Me ne bastano quattro o cinque. »
« E che ve ne fate, di cinque carte? Un solitario monco? » La risata dell’oste suona aspra come la pialla del falegname. Le dita del pittore invece sono morbide. Mi percorrono tutta in una carezza lunga.
« Le metterò in un quadro. »
L’oste scoppia a ridere. « E come lo intitolerete? L’otto di cuori? »
Sta parlando di me. Mi indica col mento, sghignazzando. Sarei già caduta a terra dalla vergogna, se le dita del pittore non mi tenessero così stretta.
« Uno di questi otto cuori è il mio. Non omnis moriar, non morirò del tutto… » dice il giovane, guardandomi come si guarda una donna. Sento su di me prima un sorriso, poi un tocco leggero delle labbra: « A un pittore ne serve più di uno, di cuore, per… » Si interrompe. Dietro di noi l’oste ricomincia a sbuffare. Ora viene l’aria fresca della sera a levarmi la polvere di dosso, e una stellata dolce, di luna bianca e vento soffice, di maggio. « … per non morire mai del tutto… » mi sussurra il pittore, con la grazia di chi sfiora i capelli a una donna.
 
Aveva ragione. Non omnis moriar, non morirò del tutto. Qualcosa sopravvive alla polvere, alla cenere, alla pietra che chiude il sepolcro, esattamente come il profumo sopravvive ai fiori anche dopo che ne è stato reciso lo stelo.
Sedici anni dopo il nostro incontro in quella sciagurata locanda, la morte si è presa il giovane pittore. Con lui e con le sue cose sono morta anch’io, ma non del tutto, perché vivo ancora in questo quadro.
Da due secoli, sotto il lenzuolo di vernice sento battere i miei otto cuori all’unisono con il suo cuore. E quando si spengono le luci del castello, il battito si trasforma in canto.
 
II.
IL SEI DI FIORI
Sono nata a Venezia. E Venezia ha cominciato a starmi sulle balle fin da subito, perché nel magazzino dove avevano sistemato me e le mie sorelle, veniva a farci visita di giorno l’acqua alta, e di notte scorrazzavano certe pantegane che sapevano spussa de carogna e facevano dei versi che sembravano le scoregge di Satana, Mefisto e Belzebub.
Dopo una settimana di magazzino sapevamo tutte quante una spussa de muffa da cavare il fiato, e c’era chi frignava tutto il giorno e chi sospirava e chi per passare il tempo si grattava il davanti e il dadrìo. Quella che frignava più di tutte era l’Otto di cuori: una lagna che non sto a dirvi. Bon, non sto a tirarla tanto per le lunghe e vado dritta fino al giorno in cui arriva un farabutto col muso da can rabioso e ci compera tutte, compresa quella rompicoioni dell’Otto di cuori che se la lasciava nel magazzino era meglio.
’Sto lazzaròn, che si chiama Sbruseghin, ci butta in un carretto fetente e ci fa fare un viaggio che prima si rompe una ruota, poi si rompe l’asse, e alla fine si rompe el cavàl! Pareva lo facesse apposta a prendere le strade più piene di polvere che ci fossero su questa terra. « Mi si appassiscono i petali, mona! » gli strillavo, ma quello niente, mica mi rispondeva, doveva essere più sordo di un vecio campanòn. E quando ci toglie finalmente dal carretto, che cosa fa ’sto Sbruseghin dell’òstrega? Ci guarda tutte quante e su qualcuna di noi fa un segnetto ogni volta diverso. « Non starmi a toccare i petali, briccòn! » gli grido, e difatti lui non me li tocca. Non tocca neanche quella rompicoioni dell’Otto di cuori, che però continua a frignare in quella maniera che non sopporto. Le fosse almeno venuto un mal de petto! Otto infarti in un colpo solo, e via. Macché.
Insomma, va a finire che el Sbruseghin ci porta in una bettola e senza chiederci permesso ci fa toccare da un sacco di mani nere e spussolenti come le pantegane di Venezia, e io ogni volta strillo: « Ciò, fioi de bona donna, non stè a tocarme i petali! Zò le man, desgrassiai! », ma quelli mi toccano lo stesso e, per farmi rabbia, prima si soffiano il naso sulle dita e poi mi toccano con ancora più gusto. Bon, andiamo dritti al finale. Succede che a un certo punto tutti attaccano a gridare, non di paura ma incassati neri, e volano spintoni, sberle, calci nel dadrìo e alla fine zam zam zam!, saettano i coltelli e el Sbruseghin casca a terra, morto stecchito. Finalmente una bella notizia, dico io. In tutta ’sta baraonda sono rimasta sdraiata sul tavolo, tranquilla, a godermi la luce del caminetto che fa tanto bene alle mie corolle. Invece quella rompicoioni dell’Otto di cuori è rimasta schiacciata dal corpo del Sbruseghin e indovinate cosa fa? Frigna.
Frigna quando scappano via tutti, frigna quando arrivano i gendarmi, frigna quando l’oste prende secchio e strassòn per lavare il pavimento, frigna anche quando entra un bel giovanotto con barba e baffetti sbarazzini. Smette di frignare solo quando lui la tira su da terra. « Posso tenerla? » chiede all’oste. « Prendetevi tutto quello che vi pare » fa l’oste. Ecco, bravo, portati via quella rompicoioni e vattene, dico io, che voglio darmi in santa pace una lustratina alle corolle. Ma quello lì cosa fa? Prende anche me! Me e quella rompicoioni di nuovo insieme! E ci fa il ritratto vicine, che spuntiamo dal dadrìo di un baro!
E pazienza il dadrìo del baro.
Il peggio è che da due secoli, non appena fa scuro e nella stanza non c’è più nessuno, la rompicoioni si mette a cantare. E canta nel solo modo che conosce: alla maniera delle pantegane di Venezia.
 
III.
LA PENNA SUL CAPPELLO DEL POLLO
Sono nata in cielo, un pomeriggio di marzo. Ho fatto capolino sul dorso di Gnuk, l’uccello che mi aveva generata, e ho visto una cosa immensa, azzurra, così piena di luce da lasciarmi senza fiato. Era bellissimo, il cielo spalancato sopra il deserto di Timbulù.
Crescendo, ho imparato il colore dell’erba e delle foglie, e le loro carezze gentili. Quando Gnuk ha costruito il nido per Gnukka, la sua morbida sposa, ho capito che al mondo esiste anche dell’altro: un’ala che ti copre e ti rincuora, un becco che ti liscia e quattro uova da covare insieme.
Alcune settimane dopo, quando sono nati i pulcini, ho imparato i loro nomi: Bric, Brac e Broc, che facevano sempre cippìou, e Barabàk-chicazzé, che era il più grosso di tutti e pigolava in modo molto diverso. Gli bastava socchiudere il becco per fare più chiasso di un branco di iene. Barabàk-chicazzè con un solo strillo metteva in fuga i leoni e gli elefanti. Aveva un vocione!
Ma una mattina di luglio, mentre Gnuk tornava al nido, arrivò un colpo di tuono e precipitammo a terra. Subito ci piombarono addosso strane creature senza becco né ali, che presero me e le mie sorelle e ci buttarono in un sacco. Quindi finimmo in una specie di grotta, dove imprigionarono i nostri piedi sotto i nastri legati intorno a certi bizzarri nidi rovesciati, detti cappelli. E in breve mi ritrovai a ondeggiare sulla testa di uno sgraziato animale senza becco né ali, la cui sola virtù consisteva nel portarmi in giro a vedere il cielo. Lì cercavo, invano, Gnuk.
E ora eccomi qui, reclusa in un’altra grotta. Da due secoli sfilano davanti a me animali senza becco né ali. Ogni tanto qualcuno mi addita e dice: « Guarda guarda la penna sul cappello del pollo! » Non sono la penna di un pollo: sono la piuma più bella di Gnuk, e Gnuk non era un pollo.
La sera, quando l’Otto di cuori comincia a ululare e il Sei di fiori attacca a tirar santioni, quando il mondo si addormenta e la notte mi preme sulla schiena, io spero che venga Barabàk-chicazzè a bussare alla finestra e mi porti via con sé, per ritornare al cielo.
Lo chiamo imitando meglio che posso il suo formidabile vocione, e faccio: « BarabuUuk trtttpp-pthùùù rataplaaAaaan PTHUU TAratEEE GNAAahaAAA HIP HoooOOOP BIiiIRIBIIiiiIIP HALGRP TUTUUUNTUUUNTEEEROOOOOOOOOOOOO… »

Avevo appena deposto il papiello sulla scrivania del conte, quando al castello scoppiò una specie di tumulto. Un gruppo di gendarmi a cavallo, che scortava una donna dalle eleganti vesti stracciate, irruppe nel parco. Mi affacciai alla finestra con il cuore in gola. E grande fu lo sbalordimento nell’apprendere che il conte, sulla strada del ritorno da Padova, prima era stato aggredito dai briganti, e poi finito a colpi di forcone da un manipolo di contadini in rivolta.
« Che bellezza! Allora il conte ha consumato! » esclamai tutto giulivo.
La contessa alzò su di me il suo dolcissimo viso di madonna.
Ancora oggi mi domando perché mi abbia fatto cacciare dal castello a calci nel dadrìo.