di Cosimo Ugo Paolo Miccoli
da I racconti nel Castello,
antologia della Prima edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
Il sole era ancora basso e una sottile foschia velava i campi in direzione di Trani.
La primavera era finalmente arrivata. Giovanni aveva ancora i geloni alle mani e accanto a un sontuoso cavallo nero da guerra stava fermo nell’ispida tunica di lana. Il suo stomaco già fremeva, nonostante l’ora del pranzo fosse lontana.
La grossa bestia ogni tanto abbassava la testa verso le sue tasche, come se cercasse qualcosa. Da circa sette mesi il giovane era la sua ombra. Dormiva con lui, lo strigliava due volte al giorno e provvedeva ad abbeverarlo prima di ogni pasto. L’animale gli si era affezionato e Giovanni aveva superato la solita indifferenza dei contadini, per i quali un cavallo era uno strumento da lavoro e nulla più.
« Sta buono » disse, « vedrai, oggi troveremo anche qualche carota e della verdura fresca, se il tuo padrone non farà troppo tardi » e gli diede due pacche sul dorso.
Garcia di Leyva era appena uscito dal secondo recinto del castello e le sentinelle di guardia al suo passaggio abbassarono il capo in segno di rispetto.
Camminava in modo un po’ goffo. Era un uomo di mezza età, con la testa ormai priva di capelli e un bel mantello di velluto, impolverato come qualsiasi cosa intorno alla fortezza. A dispetto del nome era nato a Napoli, dal ramo cadetto di un’importante famiglia aragonese. La pancia, evidente al di sopra della cintura, cui era attaccato un pugnale, tradiva gli interessi dell’uomo, più incline alla tavola che alla guerra.
Quando gli fu vicino, Giovanni notò i suoi occhi più grigi del solito. Una preoccupazione li attraversava e la lunga udienza nel castello non lasciava presagire nulla di buono.
« Ragazzo » gli disse, « se il viceré ha ragione, molto presto ti lascerò in eredità questo cavallo. »
Giovanni non capì ma, abituato a non fare domande, si dava da fare nello slegare la bestia e nell’avvicinarla a Garcia, che ne guardava compiaciuto i finimenti da guerra scintillare al sole.
« Questi francesi hijos de puta, non si saziano mai! Adesso che la pace era vicina, hanno deciso che le loro pecore… malditos… que sus esposas se… » continuava a biascicare, mentre poggiava il piede sinistro nella staffa. Il povero animale indietreggiò nervosamente sui quarti posteriori, per sostenere tutto il peso della nobiltà del suo cavaliere. L’umore era pessimo, come la lingua del capitano. Quanto più lo spagnolo usciva dalle labbra di Garcia, tanto più conveniva star zitti e non lamentarsi, anche se lo stomaco brontolava. Chissà dove sarebbero andati e se avrebbero mangiato.
« All’accampamento, ragazzo! A Canne! » ordinò Garcia.
Giovanni prese le briglie e tirò la cavalcatura, sentendosi già spossato. C’erano quattr’ore di cammino fino all’accampamento e di certo, arrivando nel pomeriggio, si sarebbero dovuti accontentare di un po’ di pane e di vino avanzati dal pasto delle truppe. Pensò che se avesse avuto fortuna avrebbe trovato un ossicino d’ agnello con un po’ di carne e questo bastò a fargli affrettare il passo e a disegnare uno stupido sorriso sul suo viso ancora imberbe.
Imboccarono la strada che correva lungo la terza recinzione del castello e si diressero verso nord.
Era una delle strade principali della città. C’era ancora poca gente. Un frate si avviava verso la cattedrale, con in mano un rosario, una donna tirava una bambina che non smetteva di piangere e due prostitute parlavano con una guardia.
Un uomo barbuto sulla trentina e un ragazzo tentavano di riattaccare un carro carico di verdura a un asino. Benché ci mettessero buona volontà occorreva qualcuno che li aiutasse e tenesse fermo l’animale.
« Muoviti niño! Dà una mano a quella gente! » disse Garcia. « Ricordati che sono un cavaliere ed è mio compito aiutare chi è in difficoltà. »
Il ragazzo corse verso di loro e non appena i due riuscirono a bilanciare il carretto, lo serrò all’animale.
« Grazie, cavaliere » disse l’uomo, rivolgendosi a Garcia. « Dio sia con voi! » e velocemente prese due cavoli dal carico e li porse a Giovanni, che li guardò con esitazione.
« Ragazzo, non li vuoi? Non è stato facile coltivarli quest’anno. Sono piccoli, ma buoni! »
« Grazie, fratello! Ero anch’io un contadino, lo vedo bene! Li accetterò volentieri, se il mio signore mi darà il permesso. »
Il rituale era sempre uguale, un servitore non prendeva decisioni, anche se si trattava di due cavoli.
« Ti ringrazio buon uomo » intervenne Garcia, « ma ho un esercito che provvede alle mie necessità. Conservali per i tuoi figli e prega per la mia anima davanti alla cattedrale. »
Giovanni, che già aveva posto le mani sui cavoli, le ritrasse e tornò al suo posto un po’ contrariato, ripensando alle parole del suo signore: “è mio compito aiutare… ho un esercito che provvede… prega per la mia anima… ”
« Cosa credevi, ch’io potessi accettare dei cavoli? » disse Garcia dopo una decina di passi. « Sono un nobile e tu sei il mio scudiero! O l’hai già dimenticato? »
Garcia lo aveva raccolto a Falvaterra, nelle terre che erano state di Francesco d’Itri. La sua famiglia non esisteva più. Sua madre era stata stuprata e uccisa dalle truppe del Papa, e il padre, uno dei fattori del signore di quelle terre, passato a fil di spada. Lui e suo fratello erano riusciti a fuggire. Nel vicino accampamento spagnolo erano stati accolti per pulire i cavalli e alla fine si erano divisi, al seguito di due diversi cavalieri. Dove Pietro si trovasse nessuno poteva saperlo e Giovanni sperava che nella sua misericordia Dio l’avesse protetto. Pensava che quelle battaglie sarebbero finite e tornati a Falvaterra avrebbero di nuovo coltivato i campi, non importava per quale feudatario.
Da Garcia aveva imparato molte cose, ad esempio che le carote vanno divise prima d’essere date al cavallo, perché altrimenti possono ostruirne le interiora, che lo zoccolo del cavallo cresce in continuazione, che nelle stalle dei nobili è buona norma spargere per terra un po’ di sale.
« Guarda » gli disse, « vedi tutti quei muratori e quel mastro costruttore? »
In effetti intorno al castello era tutto un brulicare di uomini e animali, che trascinavano assi, pietre, calce e secchi d’acqua. La bella stagione consentiva la ripresa dei lavori edili, sospesi durante l’inverno. Un mastro costruttore dirigeva i lavori da un lato del fossato e tutti gli obbedivano, come lui faceva con Garcia.
« Stanno fortificando il castello. Il viceré vuole dei grossi bastioni a forma di lancia. »
« E per quale motivo? » chiese il ragazzo
« Perché il re lo ha ordinato. »
Inutile chiedere di più. Garcia di sicuro non lo sapeva, ma non era tanto umile da ammetterlo. Solo anni più tardi, un muratore gli spiegò che i castelli venivano fortificati in quel modo per proteggerli dai colpi d’artiglieria pesante. Le cannonate difficilmente riuscivano a centrare bastioni con quell’architettura e a distruggerli.
« Ho capito » disse comunque Giovanni e il suo capitano drizzò la schiena. La lezione di ars militaris anche quel giorno era stata svolta.
Quando furono davanti alla chiesa dei frati scorsero una cavalcatura al galoppo verso di loro. L’uomo era senza dubbio un messo, che dall’accampamento andava al castello con notizie importanti. Giovanni, che abitualmente teneva le briglie stando verso il centro della strada, si mise sul fianco destro del suo padrone, quasi cercando riparo dalla furia che si avvicinava. Sentirono la bestia sbuffare e rallentare, con gli zoccoli che strisciavano sulla strada polverosa.
« Capitano Garcia! » disse il cavaliere, che l’aveva riconosciuto. « I nostri uomini dicono che i francesi sono ad Apricena. Ci superano tre o quattro volte di numero. Se non ci muoviamo saranno a Barletta tra quattro giorni. »
« Hijos de puta… malditos! » borbottò Garcia, mentre l’altro lo guardava in attesa di una risposta.
« Vengo con te! Se quanto dici è vero, Prospero non deve spostare le truppe verso Ruvo. Io e il mio scudiero saremmo giunti nel pomeriggio all’accampamento per unirci a voi, ma adesso cambia tutto! Hijos de puta! »
Il signore di Leyva fece dietro-front.
« Ragazzo, torno al castello con Andrea de Paz » disse, fiero d’aver finalmente ricordato il nome di chi prima gli aveva parlato. « Torna anche tu alla fortezza, i nemici sono vicini. Nell’aria c’è già la puzza dei francesi. »
Mentre udiva queste parole, Giovanni notò che l’altro cavallo si stava liberando di tutto quello che aveva in corpo. Tuttavia il suo signore, che scrutava l’orizzonte da gran condottiero, forse pensava davvero d’annusare il nemico.
Era felice. Forse ci sarebbe stata la guerra, ma per oggi tre ore di cammino in meno e un buon pasto al castello.
Superato il ponte in muratura e il corpo di guardia, si aprì dinanzi ai suoi occhi uno splendido cortile quadrato. Il sole riflesso sulla bianca pietra delle mura era accecante. Tre cavalieri scendevano da un’elegante scala che sulla sinistra portava ai piani superiori. Altri uomini invece sulla parte opposta del perimetro spingevano un cannone sulla rampa che conduceva agli spalti.
« Cosa cerchi, ragazzo ? » gli domandò uno dei tre con un buffo accento. « Chi ti ha fatto entrare? »
« Mi chiamo Giovanni, sono lo scudiero di Garcia di Leyva, cugino del signore di Navarra, conte di… »
« Il tuo padrone è al piano superiore con gli altri » l’interruppe quello e dopo una pausa aggiunse con un malcelato sorriso « sei fortunato a essere l’aiutante di Garcia! »
Chinato il capo, il ragazzo infilò di corsa la scala e dopo una serie di stanze entrò in una sala più ampia delle altre e meglio illuminata, dalle cui finestre scorgeva il posto di guardia da cui prima era passato.
Un uomo, più alto degli altri e sulla cinquantina, parlava ad alta voce in mezzo a una trentina di capitani e ai loro attendenti. Prospero Colonna aveva un barba curata e il viso asciutto, con i capelli che gli arrivavano alle spalle.
« Non lo accetto! » gridò. Il rumore del suo pugno sul grosso tavolo di legno rettangolare che gli stava di fronte ammutolì tutti.
Solo un cavaliere più giovane, basso, ma dagli occhi furbissimi, non sembrava affatto spaventato.
« C’è bisogno di me a Gaeta e i miei uomini sono stanchi » rispose alzandosi in piedi e con entrambe le mani sul tavolo.
L’atmosfera era agitata, le informazioni di Andrea de Paz avevano avuto una reazione immediata e Prospero Colonna, comandante dell’esercito spagnolo, riorganizzava le forze. I francesi non si accontentavano degli Abruzzi e di Napoli, volevano anche Foggia e Barletta. Queste terre, sostenevano, erano sempre state pascoli dell’Abruzzo, ma la partita riguardava tutta la Puglia e forse il resto del regno.
« Ho bisogno dei tuoi sessanta uomini, Ettore » replicò Prospero con un tono di voce ora basso e deciso, guardandolo fisso negli occhi, « questa è una battaglia vera! O preferisci essere ricordato come colui che ha vinto due mesi fa una Disfida contro quattro francesi malnutriti e che poi è stato portato in trionfo a Barletta dagli ubriachi e dalle puttane? » Una risata proruppe da quanti erano intorno, l’affondo era stato efficace.
Ettore Fieramosca, rosso in viso, sembrava esplodere, ma la saggezza temperò le parole che uscirono dalla sua bocca.
« La disfida che ho vinto, a gloria del viceré e di tutti gli italiani, è stata solo un esercizio. Hai ragione. Sarò al tuo fianco con tutto il mio valore e i miei soldati. »
Mentre i due ora si tendevano gli avambracci, gli astanti battevano le mani, compreso Garcia di Leyva, che vide finalmente il suo servitore.
Fece un cenno con la testa per dirgli di andare via e di aspettarlo nel cortile. Quando gli aveva detto di tornare al castello, non intendeva evidentemente di seguirlo nelle stanze del comando militare.
Ai piani inferiori Giovanni aspettò due ore. Consumò con altri servi un pezzo di pane con l’uvetta e del formaggio un po’ ammuffito, ma ancora buono. Nonostante prima di giungere al castello avesse assaggiato una zuppa in una taverna, la sua fame sembrava non avere mai tregua da quando era in Puglia. Ripensava alle persone che aveva visto in città. Barletta era grande, ricca, come forse poche altre città, ma era anche la più confusionaria. Nel suo vagare non aveva trovato una strada che fosse dritta. Superato l’arco sotto il campanile della cattedrale si era fermato a guardare uno strano mercante. Era alto quasi due metri e molto magro. Aveva un grosso naso e parlava in modo strano. Gli dissero che veniva una volta al mese e col suo carro stazionava lì, nei pressi del castello. Vendeva delle diavolerie, tra cui una specie di tubo con all’estremità un pezzo di vetro.
« Con questo, si possono vedere i nemici da cento piedi di distanza! … ih ih ih… e anche le donne… ih ih ih » diceva appoggiando l’occhio destro a un’estremità del tubo.
La gente lo guardava incantata, ma in effetti non capiva cosa dicesse.
Il ricordo di quel pazzo fu interrotto da uno squillo di trombe che risuonò nel cortile. Prospero Colonna scendeva dalla bella scala e al suo seguito, in ordine d’importanza, sfilavano i capitani. Garcia era il terz’ultimo.
Tutti sembravano soddisfatti delle decisioni prese.
Salutati gli altri capitani, il suo padrone gli venne incontro. Era stranamente allegro e puzzava di vino. Era evidente che oltre a discutere della guerra, al piano superiore c’era stato il tempo per un banchetto e il suo signore aveva dato anche lì prova del suo valore. A un tratto Garcia lo guardò come fino ad allora non aveva mai fatto. Nei suoi occhi brillava qualcosa, che, se si fosse trattato di un altro uomo, si sarebbe potuta definire intuizione.
« Ragazzo » gli disse, « imparerai a tirare con l’arco! »
Nel fossato del castello c’erano un centinaio di uomini, per la maggior parte contadini e servitori. Garcia gli aveva spiegato che i francesi erano tanti, troppi, e il tempo di aspettare rinforzi non c’era. Sarebbe stato prezioso l’aiuto di tutti, anche il suo. Se le cose fossero andate bene, Prospero avrebbe potuto inseguire il nemico e chi lo sa dove li avrebbe portati quella campagna. Magari a Napoli o forse anche più a nord.
« Più a nord ?! » aveva esclamato Giovanni. « Ma allora… »
« Esatto! » lo interruppe Garcia. « Saremmo vicini alla tua terra e io potrei diventare feudatario di un piccolo borgo riconquistato. »
L’idea di tornare a casa al seguito di un esercito, dopo mesi di peregrinazione e di stenti lo eccitò e il giovane diede subito la sua disponibilità. Pensò a Pietro, alla loro vecchia casa. Era sicuro che suo fratello fosse già li ad aspettarlo. Lo immaginava già nei campi a dissodare la terra e cercò con tutte le forze di non piangere. Se c’era bisogno di un arciere, lo sarebbe diventato in una sola mattina.
« Hai mai tirato ragazzo? » gli chiese un uomo in armatura che passava in rassegna un’accozzaglia di diseredati. « Come ti chiami? Grida il tuo nome! »
Il nostro amico fece un passo avanti e disse con tutta la voce che aveva: « Mi chiamo Giovanni e vengo da Falvaterra, Signore! Una volta con l’arco ho ucciso un maiale. »
Quelli alle sue spalle ridevano, ma l’istruttore levò il braccio sinistro e riportò l’ordine nella truppa.
« Hai detto maiali, figliolo? »
« Sì signore! » rispose il ragazzo, al quale il suo intervento aveva ridato fiducia.
« Molto bene! Allora siamo già a metà dell’opera, i francesi sono dei maiali! » Questa volta non interruppe le risate. Anche Giovanni rideva e afferrò l’arco che l’istruttore gli porgeva con la mano destra.
Sulle mura del castello era stata poggiata una grande balla di paglia e al suo centro, fissata con delle frecce ai quattro angoli, c’era un pezzo di stoffa come bersaglio. Ogni arciere aveva sei frecce e avrebbe dovuto tirarle da una distanza di centocinquanta piedi, l’intera lunghezza che separava le mura del fossato. Giovanni tese la corda. Gli avevano detto di mirare mettendo la punta del dardo due spanne sopra il bersaglio, perché con la poca forza di cui disponeva la freccia avrebbe viaggiato disegnando una parabola. Lasciò partire il primo bolide che finì in una fessura delle mura. Quindi tirò il secondo, ma la corda vibrò sulla parte interna del suo avambraccio sinistro, facendogli provare un dolore fino ad allora sconosciuto.
« Forza, ragazzo! » lo incitò l’istruttore. « Due spanne sopra il bersaglio! È semplice! Vuoi uccidere almeno un francese? »
« Sì! » gridò. Incoccata velocemente un’altra freccia, tese la corda più che poté, mentre teneva la punta della lingua sul margine sinistro della bocca.
Il colpo centrò quasi in pieno il pezzo di stoffa, conficcandosi nella paglia per metà della freccia.
« Bravo, figliolo! » sentì esclamare alle sue spalle
La Spagna aveva un nuovo arciere.
Giovanni era nel cortile del castello al fianco del suo signore, con in spalla un arco e alla cinta una piccola spada. Un caldo afoso avvolgeva tutti quei cavalieri e quei fanti. Erano più di trecento all’interno delle mura. Altri mille si erano radunati all’interno della terza recinzione della fortezza e tutti insieme si sarebbero ricongiunti al grosso delle truppe radunate a Canne. C’erano alcuni che gridavano, altri intenti a bere vino, altri ancora che aiutavano i capitani a salire sulle cavalcature. Tutto quel disordine non si addiceva a un esercito, ma il tempo per i preparativi era stato insufficiente. Occorreva partire il prima possibile e muoversi velocemente, per cogliere il nemico là dove Prospero Colonna aveva deciso. Con i suoi scudieri occupava tutta l’ala sinistra del cortile e già in sella fissava l’accesso principale, come se non udisse tutta la confusione che lo circondava.
« Vedi quegli arnesi di ferro? » domandò Garcia indicando una compagnia di cinquanta uomini sul fondo del cortile.
Giovanni, non aveva una buona vista, ma scorse che quegli uomini imbracciavano qualcosa che luccicava al sole.
« Sono degli archibugi, dei piccoli cannoni, che adesso i fanti possono portare in spalla » aggiunse il capitano.
« Un piccolo cannone? » “Come avrebbe fatto quell’attrezzo a sparare una palla di cannone?” Il ragazzo non capiva, ma se Garcia lo sosteneva doveva essere vero.
« Vedrai domani come accoglieremo i francesi! Dicono che siano diecimila, ma noi abbiamo più archibugi e uno di quegli arnesi vale sette soldati. »
Arrivò a un tratto l’ordine di muoversi. Il suo padrone sguainò la spada e rispose all’incitamento del cerimoniere. Un fragore di tamburi giungeva da fuori e con lo stesso effetto di un’onda sulla superficie del mare, l’intero plotone si mosse.
Il Duca di Nemours, capo delle truppe francesi, era stato ucciso dopo la seconda carica di cavalleria. L’esercito spagnolo aveva provocato con la sua avanguardia i nemici raccolti a Cerignola e li aveva attesi in una radura ben protetta da tutti i lati. Gli spalti di quell’arena naturale erano occupati dagli arcieri, mentre gli archibugieri erano al centro dello schieramento.
Da quella posizione Giovanni aveva potuto osservare l’intero sviluppo della battaglia. La cavalleria francese si era scontrata contro il fuoco degli archibugi, che non sparavano palle di cannone, ma proiettili invisibili, che decimavano il nemico. Quell’arma era diabolica e precisa. I picchieri, dopo le armi da fuoco, avevano tolto ogni speranza all’impatto del nemico e adesso lo scontro proseguiva corpo a corpo, con i francesi che continuavano a retrocedere.
All’inizio il fragore delle armi lo aveva paralizzato e per qualche minuto aveva avuto la tentazione di scappare.
Continuava ancora a tremare con il cuore che quasi gli usciva dal petto. Tuttavia con gli altri arcieri aveva dato fondo a metà delle frecce, tirando sulle retrovie francesi, pochi uomini che con le forze rimaste cercavano nei poggi circostanti una via di fuga.
Ne videro un gruppo a un centinaio di piedi, che si allontanava dal campo di battaglia.
Il capo arciere diede l’ordine e tutti insieme incoccarono.
Prese la mira e quasi chiuse gli occhi quando inquadrò il bersaglio e lasciò partire il colpo. Seguì la freccia nel suo sibilo di morte e la vide centrare uno dei soldati, mentre gli altri fuggivano, risparmiati da quella pioggia letale. Il pover’uomo si piegò sulle ginocchia e cadde tra i ceppi di vite. Cominciò a strisciare tra le piante, quasi nell’estremo tentativo di raggiungere gli altri già lontani, ma a un tratto si fermò.
“È stata davvero la mia freccia a colpirlo?” si chiedeva Giovanni. Le sue labbra si atteggiarono in un sorriso, a metà tra il compiacimento e lo smarrimento più completo. Non sapeva cosa fare e istintivamente rivolse lo sguardo al loro capo e in un attimo comprese.
Al suo cenno si mise l’arco in spalla e si mosse verso il francese. Toccava a lui ispezionarne il corpo e spogliarlo delle armi e dei pochi averi che vi avrebbe trovato. Guardando altri miserabili come lui aveva appreso poco prima ciò che bisognava fare.
La nobile guerra era anche o forse soprattutto questo.
Sentiva il proprio respiro affannoso mentre si avvicinava e per un attimo ebbe paura di udire anche quello del francese. Era un piccolo uomo, anzi si trattava di un ragazzo, forse solo di un paio d’anni più grande di lui. Aveva i capelli ricci e sotto la sottile tela metallica che ne copriva il busto le sue vesti erano logore, simili alle sue, quelle di un povero contadino.
Temeva che si rialzasse, perché non sarebbe mai stato capace di tenergli testa in un duello corpo a corpo. Si girò verso gli altri arcieri, ma quelli già non si curavano più di lui ed erano rivolti verso il campo di battaglia. Doveva trovare il coraggio da solo. Prese la piccola spada che aveva al fianco e toccò con la punta il corpo del francese, convinto che avrebbe reagito, ma ciò che gli stava dinanzi era ormai un cadavere.
Ripensò ai morti che mesi prima aveva visto nel suo villaggio, a suo padre, alle urla dei contadini prima che le truppe entrassero in casa sua. Per mesi aveva allontanato quei ricordi, adesso tutto ritornava e sentì che stava per vomitare. Anche lui aveva ucciso.
Poggiò l’arco per terra e con un grande sforzo, girò quel disgraziato supino. Non appena lo guardò in viso, sentì una fitta lancinante nello stomaco e il sangue evaporare dalle sue vene. Pallido e con la bocca semiaperta vide un volto che conosceva bene.
Era Pietro. Si sentì mancare.
Quando rinvenne sentì delle mani che lo scuotevano. Si girò spaventato e vide il suo signore, tutto rosso dal collo in su e con le sclere gialle. La battaglia era durata altre due ore e l’umiliazione dei francesi era stata totale.
« Una grande vittoria, ragazzo! Muoviti! E allontanati da quel morto! Ci aspetta una marcia trionfale, fino a Foggia. »
Rivide Pietro esanime e capì che non era stato un sogno. Ancora sdraiato e confuso si allungò per stringergli la mano, gelida ed accartocciata. Poi strisciò più vicino al fratello quasi per abbracciarlo e rannicchiarsi vicino a lui.
« Io non verrò » rispose con un filo di voce e scoppiò disperato in lacrime. « Starò qui con mio fratello, morirò anch’io. »
« Tuo… che? Tuo fratello? » A Garcia non pareva vero. Due fratelli che si ritrovavano in quel modo sul campo di battaglia era cosa più unica che rara. In quella strana guerra che durava da anni, però, tutto era possibile. Anche Prospero era stato a volte con i francesi e i cambi di schieramento erano all’ordine del giorno. Non sapeva trovare le parole adatte, ma alla vista del ragazzo, che singhiozzava, disse forse la cosa più saggia che avesse mai pensato.
« Alzati figliolo, il campo di battaglia non ha tempo per il dolore. Metti tuo fratello sul cavallo, lo porteremo a Barletta. »
Nel cuore della notte il cavaliere calvo e il suo aiutante ancora scavavano alla luce di una misera torcia di stracci.
Fortunatamente la terra era umida ai margini del fossato, non si capiva se per le abbondanti piogge o per le lacrime di Giovanni. Non era difficile realizzare una buca con la piccola spada che adesso possedeva. Meglio usarla per scavare. Non aveva neanche qualcuno con cui vendicarsi. Intorno alla fortezza, fredda e terribile nella luce della luna, si udiva lento e incessante il pianto del mare.