di Maria Silvia Avanzato
da I racconti nel Castello,
antologia della Prima edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
Siccome il Conte Solimando non poteva prendere freddo, ogni mattina Iolanda si accertava che le finestre fossero ben chiuse. Poi, con quel passo dondolante che ricordava una gondola in grembiulino di piquet, andava ad aprire la porta e mandava via Giovanni Canaglia.
Questi, che era un soldo di cacio con la dinamite in corpo, tornava sui suoi passi, offrendo alla governante il triste spettacolo dei suoi calzoncini bucati, ginocchia sbucciate e un pallone floscio sotto il braccio.
« Ah, se fosse figlio mio gli darei una bella arcutinata! » biascicava Iolanda. Lei d’altronde, da marchigiana, non parlava che per “arcutinate”, “sciamandoni” e “rapasceti”, lasciando spesso dietro di sé un corteo di visi interrogativi.
Ogni giorno, verso le diciassette, un ragazzino biondo con la camicia alla marinaretta, abbandonava le versioni di latino, per allontanarsi nel parco. Scavalcata una rete centenaria, rugginosa come un chiodo di cantina, balzava a piè pari al centro del sentiero, guardandosi attorno, circospetto. Poco dopo, dalla macchia dell’uliveto, sbucava Giovanni Canaglia, con un sorriso più canaglia del solito.
« Ce ne hai messo di tempo, Conte Diquaedilà! » diceva, spiccio e canzonatorio.
Io, il Conte Solimando in calzini bianchi e doppia fila di bottoncini di corno, gli facevo un gran sorriso e guardavo con desiderio il suo pallone sgonfio.
« Accipicchia! » diceva lui, studiandomi da vicino. « Bella, quella roba che c’hai vicino al collo! »
« Il bavero? »
« Si, quello! » Si grattava il mento, pensoso. « Me lo dai per cinque lire? »
Era l’urlo di battaglia di Giovanni, cercava sempre di comprarsi le mie cose e io ci cascavo puntualmente: quell’estate, aveva maturato un debito di centoventi lire nei miei confronti e l’unica caparra che mi aveva dato era stata una mela acerba sortita dalle sue lerce tasche.
Anche quella volta, gli cedetti il bavero, come gli avevo concesso di prendermi le suole, il berretto a strisce e il fazzoletto con le iniziali.
« Non si sa dove mettiate la vostra biancheria, Signorino » sbuffava la Iolanda quasi ogni giorno, frugando nel cassetto. « Si direbbe che vi piaceria andare in giro nudo! »
Se Iolanda avesse saputo del rifugio “antipeste” di Giovanni Canaglia, avrebbe trovato una bella fila di indumenti di mia proprietà, appesi a una fune, come tovaglie ad asciugare.
Il rifugio era un gran bel posto.
« Credevo che facessero solo quelli antiguerra! » avevo osservato, la prima volta che avevo messo piede in quello scantinato immondo, odoroso di tini e turaccioli.
Giovanni aveva indicato una trave sopra le nostre teste, piena di spuntoni di legno. « Li vedi quelli? Ci appendevano i soldati per i pollici, in tempo di guerra. »
« Tu li hai visti? »
« Io mica ero nato, nel 1915! Però lo so. Stavano lì tutta notte e si lamentavano, sanguinavano come bestie. Dal medioevo alla grande guerra, tutti hanno saggiato la trave. E sai come morivano? Gli si staccavano via i pollici e… trac! »
Quel “trac” non mi era affatto piaciuto e deglutii con forza, riuscendo a immaginare le armature lucenti e i lamenti notturni.
Rabbrividii all’idea fino al giorno in cui Anastasio, il babbo di Giovanni, era piombato nel nostro rifugio urlando: « Ma va via, dannazione! Che diavolo ci fai sempre qua sotto, vicino ai ganci dei prosciutti? »
Allora, l’idea di un paio di rosei prosciutti aveva soppiantato la vivida immagine di epici eroi torturati e mi ero tranquillizzato.
Anastasio era un uomo smilzo e grigio, di cognome faceva Beccari. Suo figlio Giovanni, invece, di cognome faceva “Canaglia” perché la sua fama paesana lo precedeva: ecco spiegato perché un conte del mio calibro non avesse il permesso di frequentarlo. Dove c’erano guai, c’era il Canaglia.
Oltretutto, Anastasio, era il nostro apicoltore e Iolanda non voleva che parlassi né all’“uomo delle api”, né a “quel suo burdello pien de susta”, ovvero figliolo sudicio.
« Conte Diquaedilà, sei meno ricco di quel che si dice! » ebbe l’impudenza di dirmi il sudicio Giovanni, un giorno. « Pare che al Palazzo siano arrivati dei ricchi più ricchi di te. »
Mi rivelò quella storia penzolando dal ciliegio, suo abituale avamposto, da cui poteva avvistare ogni movimento: pensai immediatamente a una delle sue solite panzane.
Al Palazzo non c’era più niente, da quando era finita la guerra: era rimasto solo lo spettro polveroso di un frantoio. Una volta, passando, avevo cercato di sbirciare dentro una finestrella del fienile e Iolanda mi aveva tirato via, definendomi un gran “sciaparlito”.
Ora, Giovanni s’era messo in testa che fossero arrivati in paese dei “gran signori”, andati a vivere per davvero in quel casermone abbandonato.
Non gli avrei dato alcun peso se, giorni dopo, non avesse cominciato a circolare per il paese quella che definirei una “mostruosità moderna”. Era nera, lucida, bombata come una corazza di scarafaggio e faceva un gran rumore sulla ghiaia del sentiero, chiamando a raccolta le facce incredule dei curiosi.
Il contadino Antenore, nel vederla, aveva fatto cadere a terra la zappa e s’era fatto un segno di croce.
« Perdinci! » aveva gridato Giovanni, saltellando sul suo ramo di ciliegio come una vedetta impazzita. « Visto che roba? »
Io che, dell’albero, preferivo la conca nel tronco, dove mi acquattavo a raccogliere ciliegie cadute, avevo alzato la testa appena in tempo per vedere quel bolide scintillante sotto il sole, come un ferro chirurgico.
« È un’Isotta Fraschini Monterosa! » aveva gioito Giovanni, sporgendosi. « Non se n’è mai vista una, qui. »
Anche mio padre aveva una macchina, ma non così grande, nera, lucida e veloce. Iniziai a temere che, in paese, esistesse davvero qualcuno più ricco di noi.
Non avevo mai dato troppo peso alla mia ricchezza ma, dopotutto, conoscevo solo quella: la villa estiva in campagna, Iolanda, al mio servizio, i vestiti costosi, i balocchi che certi bambini non avevano mai nemmeno visto in foto.
Per quanto mi avessero insegnato a non darmi troppe arie per lo stemma della casata ricamato sulla mia giubba, vivevo l’arrivo dei “nuovi ricchi” come un’invasione di territorio e una minaccia.
Quella macchina girava per il paese, sfrecciando veloce, come per mettersi in mostra e non riuscivamo a capire chi la guidasse.
Non pensai più a quella faccenda. L’invidia era un sentimento troppo infame e meschino per un Conte.
A ricordarmela, invece, provvide Giovanni, la notte che mi svegliò tirando i sassolini contro la mia finestra. Aveva scavalcato la rete, era mezzanotte.
Aprii la finestra con il viso di chi avrebbe preferito continuare a dormire. « Lo sai che ore sono? »
« Ma che hai addosso? » chiese lui di rimando. « Un vestito da donna? »
Giovanni, evidentemente, non aveva mai visto un pigiama di seta bianca con il colletto alla francese.
« Cosa ci fai qui? » gli domandai, temendo il risveglio di Iolanda, due finestre più in là.
« Metti qualcosa che andiamo a Palazzo. »
« Cosa?! »
« Conosco il modo per entrare, tu lascia fare a me. Dai, sono stanco di aspettare, c’è un freddo cane. »
Non potevo prendere freddo, ma nemmeno lasciare l’amico lì sotto, a stringersi in un paio di pantaloncini di fustagno. Misi, allora, uno dei miei completi “per il pomeriggio” e sgusciai fuori dalla stanza, nel buio: l’agilità che si riesce ad avere a dodici anni, si rimpiange per il resto della vita.
Sfruttai la finestra dell’ala di servizio che Iolanda lasciava aperta per far uscire la puzza di fritto dalla cucina. Saltai nel giardino e avvertii, di colpo, il freddo e il buio.
Giovanni mi passava gli occhi addosso, ridendo divertito. « Non credere che sia una passeggiata, salire fino al Palazzo! » Osservò le mie scarpette di vernice. « Quelle salutale pure! »
Non mi era chiaro il suo piano, ma non potevo tirarmi indietro. Quindi lo seguii in religioso silenzio, saettando per il campo di ciliegi, ora irriconoscibile.
Avevo paura di pestare un rospo: paura stupida, tipica di chi non sa dove sta mettendo i piedi.
« Ci sono i rospi, qui? » chiesi, timoroso.
« Certo! Credi di esserci solo tu? »
« Allora mi sa che ne ho pestato uno. »
« No, no. Se lo pestavi, sentivamo crac! »
Giovanni non aveva conoscenza di congiuntivi, ma un vero talento per le parole onomatopeiche: quel crac era stato piuttosto eloquente.
Giungemmo poco dopo a una breve salita, dove le piante erano cresciute a dismisura, dando vita a una muraglia intricata di ramoscelli e rovi più alti di noi. Lui si faceva strada con le mani e io seguivo in sordina lo spazio lasciato dal suo passaggio.
« Ci siamo quasi! » gridò.
Era un buio funebre, tutto intorno e le cicale facevano i capricci, sgolandosi in un canto sinistro.
Poco a poco, il muro giallastro di mattoni antichi si delineò nella tenebra e fu come ricevere uno schiaffo: il Palazzo, fino ad allora così lontano, era a un palmo da noi, altissimo, muto, composto, gelido. Era la più disarmante scoperta, dopo mezz’ora passata a brancolare fra le piante spinose.
Non era un Palazzo, ma un castello. I contadini del luogo, di poca cultura, avevano errato definizione.
Era un complesso immenso, di un giallo paglierino, con tanto di torrette smerlate e portone di quercia, con i tiranti.
Pensare che, dalla strada, sembrava un fienile! Forse nessuno, a parte noi, aveva sfidato i rovi per capire cosa fosse realmente.
« Che vuoi fare? » chiesi a Giovanni.
« Voglio entrare! »
« Sei pazzo? »
Lui mosse cautamente un paio di passi nel giardino incolto, facendomi segno di seguirlo.
Stavo per imitarlo quando una mano mi afferrò per la schiena, strattonandomi. Mi sfuggì un grido breve e acuto, come quando si sbatte un gomito contro lo spigolo.
« Bene, bene. » disse l’uomo alle mie spalle. « Che siete venuti a cercare? Grane? »
Giovanni spalancò la bocca e sbarrò gli occhi.
« Ah, ci sei anche tu, Giovanni Canaglia? » fece lo sconosciuto, spingendoci alla luce.
Feci appello a tutto il mio coraggio e mi girai a guardarlo: era un vecchio dal viso noto, aveva una massa di capelli bianchi spettinati e il mento sporgente.
Era Antenore, il contadino.
« Cosa ci fai qua, Antenore? » gli chiese Giovanni.
« Non è affar tuo! Di’, piuttosto, che siete venuti a fare, qui? » Poi mi guardò meglio, alla luce, e dai suoi occhi verdi scoppiettò una scintilla di desolazione. La sua mano mi mollò all’istante.
« Signorino, siete voi! Scusate se vi ho preso così, alla buona… credevo foste un mariuolo… »
A Giovanni invece, che non era “Signorino”, assestò un calcio negli stinchi. « Va’ a casa, va là, è notte fonda! »
« Non ci penso proprio! » sbottò Giovanni. « Tu cosa ci fai, qui? »
« Dirò tutto a tuo padre! Questa è proprietà privata! » ringhiò il vecchio, alzando il pugno in aria.
« E non è né nostra, né tua! » lo rimbeccò Giovanni, sbuffando.
Tirai istintivamente Giovanni per la camicia. « Torniamo indietro… » mormorai.
« No! Non prima di aver scoperto chi vive al castello! »
« Accidenti a te! » grugnì allora Antenore, assestandogli un altro calcio, stavolta più forte. « Non ci vive nessuno al castello! Come ti salta in mente? »
Gli occhi di Antenore fiammeggiavano di collera e io morivo dalla voglia di darmela a gambe: il mio solito contegno sfiorava spesso la pavidità.
« Bada a te, Antenore Gervasini! » Urlò allora Giovanni, mentre batteva in ritirata con me al seguito. « Da oggi sarai il mio nemico numero uno! »
Ci lasciammo il vecchio alle spalle e ricordo che aveva, sul viso, un ghigno imbestialito, raggelante.
« Giovanni, stavolta è grave! » mi lamentai. « Non dovevamo uscire a quest’ora! Antenore farà la spia! »
« Accidenti a lui, vecchiaccio! » replicò. « Gliela faccio pagare! Cosa ci farà al Palazzo? Lo sai che penso? Che va a rubare le ciliegie. Quel vecchio è un demonio, lo sanno tutti! »
Sul sentiero del ritorno, ripensai all’incontro notturno: non potevo credere che fosse davvero “scoppiata la guerra” e che il nemico fosse un vecchio con le caviglie secche e i capelli bianchi, lanosi.
Per Giovanni, invece, era guerra davvero. Fu per questo che, l’indomani, lo trovai al pollaio di Antenore: era andato a tirare le patate da semina in testa alle galline.
« Che fai? »
« Le accoppo. » Rispose.
« Perché? »
« Sta’ zitto! Mi distrai! Devo mirare alla testa! »
« Giovanni, basta! » Lo implorai, togliendogli le patate di mano.
« Ah, ecco! Il Conte Diquaedilà si vuole mettere in mezzo, come sempre, eh? Senti, ho un’altra idea. Andiamo a casa mia, alla finestra del secondo piano, con una gallina. Una volta là, la buttiamo di sotto e vediamo se vola! »
Avremmo continuato di certo a parlottare sottovoce di quegli assurdi progetti se l’Isotta Fraschini non ci avesse distolto, sgommando sulla ghiaia.
« Secondo te, dove va? » domandai, seguendone la scia polverosa con lo sguardo.
« Andiamo a vedere! » fece Giovanni, buttando a terra le patate. Correva sempre Giovanni e io, con le mie gambe di burro, troppo forgiate alla pigrizia dello scrittoio, non sapevo stargli appresso.
Anche stavolta, sfiniti, ci ritrovammo un pugno di mosche in mano: l’auto era sparita dietro una curva del sentiero sterrato e, per quanto l’avessimo cercata con gli occhi, scrutando la valle, non ve n’era traccia.
« Scendiamo a valle, per carità! Iolanda mi aspetta a pranzo » ricordai all’amico, notando che avevo segnato di fango i miei sandali nuovi, con laccetto di corame.
Tuttavia, proprio quando ero riuscito provvidenzialmente a convincerlo a rincasare, una nuova trovata gli balenò in mente. Aveva tutta l’aria di chi cercasse scuse per rincasare tardi.
« Andiamoci adesso, al Palazzo! » propose. « Mica se ne accorgono! »
« Non ci penso proprio, è mezzogiorno! » protestai, indicando il mio stomaco.
« Dai, facciamo alla svelta, te lo giuro! Ho fame anch’io e tanto, a casa, mia mamma ha fatto il sugo di pecora, che a me non garba punto. »
Ora capivo perché non avesse fretta di rientrare e, come sempre, non riuscii a distoglierlo dal suo proposito.
Ripercorremmo il campo dei ciliegi, sebbene il limpido sole e il cielo terso lo rendessero meno spettrale di come era apparso la sera prima. Mi ero messo a fischiettare e Giovanni mi diede un pizzico forte sul braccio.
« Ti vuoi far sentire da Antenore? »
Continuai a massaggiarmi il braccio, finché non fummo al castello: era ancora più vasto, alla luce del sole, immobile e severo.
« Che roba! » esclamò l’amico. « Roba da ricchi davvero! Ieri notte, al buio, non sembrava una bestia così! »
Io dissimulavo la mia bruciante sconfitta siccome, un castello così grande e maestoso, non l’avevo posseduto mai: forse aveva ragione Giovanni, non ero più il bambino più ricco del paese e questo, egoisticamente, mi inquietava.
Le mura erano ancora più chiare e ruvide, al sole, veri e propri macigni che la terra sembrava aver rigurgitato. Tutto ricordava una barriera: era solido e forte come un tronco di sicomoro e sembrava guardarci. Le finestre, osservò Giovanni, erano grandi abbastanza per passarci di persona in piedi. Tutto aveva un aspetto gigantesco: le torri con le merlature corrose dal vento, basse, tozze, nascoste bene dal fogliame.
Quel castello era un carnoso fungo primaticcio, spuntato fra gli alberi con l’accortezza di celarsi allo sguardo altrui: era come quei grossi lombrichi che si trovano, a volte, sotto una pietra.
Il lato est invece, quello visibile dalla strada, presentava solo lo spoglio scheletro grigio di un vecchio fienile, con tanto di adiacente frantoio, tutto calcinacci sparsi sull’erba e travi spezzate.
Giovanni mi tirò per una manica. « Andiamo a vedere com’è fatto dentro. »
Puntai i piedi a terra e scossi la testa. « No! »
« E dai, muoviti! »
Avevamo appena lasciato il nostro covo di rovi, per la seconda volta in un giorno, quando fummo nuovamente costretti ad arrestarci. Io tentai di indietreggiare, ma le gambe si erano impietrite e il sole denunciava la mia presenza.
La porticina di quella che doveva essere una cucinetta al pian terreno, si socchiuse scricchiolando. Un minuscolo piede rosa comparve nel vano della porta.
« Oddio, gli spiriti del camposanto! » mugolò Giovanni, strizzando gli occhi per non vedere.
Da quella porta, uscì una bambina che avrà avuto forse otto anni: era minuta e pallida, rossa di capelli, con i riccioli sciolti lungo la schiena e un visetto piccolo e delicato, da elfo, con grandi occhi azzurri, spaesati.
Era lei la più ricca del paese ed era scalza.
Era uscita quatta dalla casa e s’era messa a giocare con una cincia posatasi poco distante, senza accorgesi di noi.
« Se stiamo fermi senza respirare, non ci vede. » sussurrai a Giovanni. Lui non rispose e intuii dal suo viso che temeva ancora di avere davanti un fantasma.
Poi, la padrona del castello uscì a sua volta. Questa indossava un vestito tanto brutto e sempliciotto, che nemmeno Iolanda si sarebbe mai messa indosso. Era una donna bruna, con gli occhi cerchiati e la bocca atteggiata a broncio, sembrava uno di quei buffi attori del cinema muto che, con una piega del sopracciglio, davano l’impressione di piangere.
« Oh via, Ottavia » disse alla bambina, senza accorgersi di noi. « Adesso torna su in casa, che se no ti buschi una ciaffata. »
« Oh, mamma! » disse lei, allontanandosi. « Voglio giocare con questo pitoro. »
« Sei ciospa, pe’ davvero! T’ho detto che non devi uscire sola. »
La bambina, arresa, si imbucò di nuovo nella piccola porta scura, seguita dal passo militare di sua madre.
Noi, per tutta la durata di quel momento, non avevamo respirato e ci mancò poco che ci accasciassimo a terra.
« Dici che sono quelli, i ricchi? » chiese Giovanni.
« Non so se siano ricchi, ma nobili no, di sicuro » risposi io. « Non ho mai sentito un nobile dire ciaffata! I nobili non danno mai ceffoni, è sconveniente! Per non parlare del pitoro! E hai sentito quando ha detto ciospa, anziché dire tonta? »
« Ma che c’entra? Quello è il parlare di tutti! »
« Ti sbagli! I nobili non parlano così e io ne so qualcosa! Se provassi a parlare il dialetto davanti a mia nonna Nilde… »
« Senti, sai che ti dico? Che questi qui non sono ricchi su cui indagare. Peccato, perché poteva essere un bel gioco. Ce ne possiamo inventare un altro. »
« Quale? »
« Tipo tirare patate alle galline di Antenore! »
Ci sembrò l’idea migliore e tornammo sui nostri passi, mesti e zitti.
Quando fui di nuovo a casa, Iolanda mi stava aspettando. « Il Signorino non pranza, oggi » sentenziò, furibonda.
« Perché? »
« Perché mi ha scritto Vostro padre. Fra due giorni sarà di ritorno per darvi una bella ripassata. Gli ho detto che avete perso tutta la biancheria buona e che tornate sempre tardi per pranzo. »
Mai, prima d’allora, Iolanda mi aveva tradito e mi sentii avvampare di collera.« Se tu non fossi la mia governante, ti darei una bella ciaffata! »
« Ma, Signorino! » si scandalizzò lei. « Chi vi ha insegnato a parlare così malamente? »
Mi chiusi in camera e non uscii per diverse ore: mi buttai a peso morto sul letto, con la testa brulicante di pensieri. Detestavo l’idea che qualcuno fosse più ricco di me e, più pensavo a quella bambina, più sentivo di odiarla profondamente.
Quando poi, guidato dai morsi della fame, mi decisi a uscire, mi ritrovai davanti Iolanda, con le mani sui fianchi.
« Restate in camera o prenderete freddo! »
Era destino che riprendessi, fra le mie svogliate mani, il libro di latino: passai buona parte della notte pensando all’imminente arrivo di mio padre e scorrendo Tito Livio, con inedia. A libro chiuso, pensavo ancora a mio padre.
Il Conte Solimando per antonomasia, quello più alto di un metro e quarantacinque, aveva una chiara visione dell’educazione che voleva per me. Se Iolanda gli avesse rivelato che vagabondavo per le campagne assieme a Giovanni, avrei passato la mia parte di guai.
Verso le otto di sera, la stessa Iolanda, mise un vassoio fuori dalla mia porta: latte caldo e farinata. Avevo troppa fame e mi ingozzai, al punto che, tutt’ora, non sono certo che fosse farinata: il mio unico intento era divorarla.
Poi, il picchiettio di un sasso contro i vetri della finestra mi fece scattare sull’attenti. Giovanni era in piedi lì sotto, seminascosto, con il muso da carogna sporco di polvere.
« Non scendo stanotte! » gli dissi. « Mi hanno messo in punizione, ordine del babbo. »
« Ti ho aspettato un bel po’, giù alla curva dei cerri » rispose « Ho fatto una fionda per colpire le galline di Antenore e gli ho versato la camomilla nell’abbeveratoio del somaro! Non ti sembra una bella vendetta? »
Annuii.
« Allora, domani, cerca di uscire che andiamo a tagliargli la rete della vigna, così l’istrice si mangia tutta l’uva! » esultò lui.
« Va’ via, ora! Iolanda mi tiene d’occhio. »
Lui improvvisò una sorta di saluto romano. « Guerra ad Antenore Codardo! » inneggiò.
Ricambiai il suo saluto, poco convintamente, e richiusi la finestra.
L’indomani, dopo una notte di angosce, sapevo Tito Livio a memoria e Iolanda saggiò la mia preparazione: non che capisse una virgola di quanto recitassi a voce alta, ma sentirmi parlare in latino le dava l’idea che avessi studiato.
Pensavo che mi avrebbe ricompensato con altra farinata e il permesso di uscire, invece mi mostrò una scatolone bianco delle “Confezioni Del Cesarano”. Ne sortì un ridicolo abito della mia misura, con una blusa scura poco consona ai miei gusti di piccolo Conte, un berretto informe e grosso quanto un turbante e una fascia da legarmi al petto incrociata, bianca, come se fossi un salame da mettere in rete di budello.
Me lo fece provare con la forza, dicendo che mio padre aveva insistito perché, al suo arrivo, fossi conciato a quel modo.
« Mi stringono le mutande! » protestai, guardandomi allo specchio.
Lei impallidì. « Signorino, Voi avete preso su un modo di parlare che neanche un colono! »
Quel pomeriggio, uscii con una scusa, per raggiungere Giovanni e mettere a punto nuovi piani.
Mio malgrado, non lo trovai al rifugio antipeste e nemmeno sul ciliegio di vedetta o alla curva dei cerri.
« L’ho visto che mangiava i fichi su al Podere Messa » mi disse una massaia dirimpetto, intenta a sgranare fagioli.
Era una giornata estremamente calda e io non avevo voglia di risalire fino al Podere, che era piuttosto lontano.
« Bel traditore, Giovanni! » pensai fra me e me. « Si mangia i fichi, anziché aspettarmi per giocare! » Quindi vagai un po’ a caso, quel tanto da sporcarmi di fango le scarpe marroni con la fibbia.
Dopo mezz’ora, nemmeno a farlo apposta, i miei incauti piedi mi condussero nuovamente all’ingresso del Palazzo.
Potevo proseguire costeggiando il fienile diroccato e tornando sul sentiero o addentrarmi nella vegetazione, fino a vedere i contorni di una di quelle torrette gialle, merlate.
L’idea di avventurarmi solo fra i rovi ebbe la meglio, sebbene avrei distrutto completamente le scarpe.
Appena entrato in quel dedalo di arbusti sbilenchi, muovendo attenti passi verso il Palazzo, un uomo mi sbarrò la strada.
Non l’avevo mai visto, prima d’allora. Pensai che il Palazzo fosse stregato e sfornasse sempre nuovi estranei.
Era un uomo alto, asciutto, scuro di capelli, con gli abiti lisi e un piccolo fiore bianco, nel taschino.
Lo guardai ed ebbi paura, lui guardò me e ne ebbe inspiegabilmente a sua volta. Fuggì in direzione del castello e io tornai di corsa sui miei passi.
Fu un episodio breve, a cui non diedi peso, e lo dimenticai l’indomani, con l’arrivo di mio padre.
Appena sveglio, riconobbi il rombo di un’ auto, sotto la mia finestra e, quando mi affacciai, vidi l’Isotta Fraschini. Ne scesero mio padre e due uomini, vestiti di nero, eleganti.
Iolanda mi mise indosso il ridicolo costumino e mi disse di “fare a modo, che mio padre aveva gente a pranzo”.
Io scesi timidamente le scale e compresi, quasi subito, che mio padre non era tornato per sgridarmi. Mi abbracciò velocemente, poi andò nel salone con quei due uomini, dicendomi di non dare fastidio finché non fossero usciti.
C’era uno strano fermento nell’aria, così mi ero messo a spiare mio padre da una fessura delle tende, siccome non avevo mai visto quei due uomini in vita mia. Uno aveva un grugno da cane e l’altro una barba nera e ricciuta.
« Ne abbiamo parlato con la gente del posto » disse quello con la barba. « E alcuni ci hanno confermato quanto sospettavamo. Il vecchio ha nascosto Frangipani. »
« È una fortuna, Conte Solimando, che voi possiate ospitarci finché l’operazione non sarà conclusa » aveva osservato l’altro.
Poi, avevano borbottato a bassa voce ed erano usciti di buon passo.
Mio padre aveva dato ordine a Iolanda di cucinare un agnello arrosto con le olive e, finalmente, mi aveva preso sulle ginocchia.
« Ho avuto tanti grattacapi, figliolo » mi aveva detto. « Questo paese ha bisogno dell’aiuto di tutti. »
Infine, mentre bighellonavo in giardino con la mia divisa su misura, Giovanni mi arrivò alle spalle, correndo.
« Oh, vieni a vedere! » disse, col fiatone. « Antenore! Lo portano via, quel demonio! »
Al culmine della curiosità, scavalcammo di corsa la rete e raggiungemmo la casa di Antenore, una baracca cadente.
Gli amici di mio padre erano sulla porta.
Quello col grugno da cane gesticolava, come indemoniato. Antenore stava zitto e buono in un cantuccio, con gli occhi sbarrati.
« Allora, Gregorini, parli! Sappiamo che Frangipani è qui e che lei si tiene in contatto con lui. »
« Le giuro che non vedo mio figlio da mesi! » replicò il vecchio.
« Lo ha aiutato a nascondersi assieme alla famiglia, ne siamo sicuri. Sa cosa significa questo, per il Tribunale? »
« Ma vi dico che non l’ho visto! » piagnucolò l’uomo. « Né lui, né la moglie e la bambina. Sono anni che non ci parliamo più. Non sapevo nemmeno che avesse disertato. »
« Nella giornata di ieri, c’è chi giura di averla vista risalire questi boschi con un cesto di viveri! » ringhiò il barbuto. « Ci dica dove è nascosto e tutto finirà per il meglio. »
Fu allora che, per la prima volta, sentii il bisogno, non certo nobile, di dire una bugia grossa, vera e propria, non le mezze verità che destinavo a Iolanda.
Mi avvicinai alle persone, con Giovanni che mi gridava di tornare indietro e che “ero tutto matto”.
« Il signor Antenore ha portato il cibo a me » dissi soltanto.
« Chi è questo? » fece il barbuto. « Non è il figlio di Solimando? »
« Si, sono io, Signore » risposi. « La Iolanda mi ha messo in punizione e io ho chiesto a questo contadino di attraversare il bosco e portarmi da mangiare. Siamo amici e lui ha obbedito. È un uomo di fiducia della mia famiglia. »
Mentre loro lasciavano la baracca a testa china, borbottando seccati, io feci in tempo a vedere una specie di piccola lacrima luccicare negli occhi del vecchio Antenore.
A casa, poi, mio padre mi rimise in punizione perché “avevo rischiato di mettere nei guai un povero vecchio per la mia ingordigia”.
Dopo quell’estate, i miei ricordi si fecero confusi e tutti parlarono di una nuova “grande guerra”.
Tornai al paese quando ebbi raggiunto un metro e ottantadue di altezza: allora, tutto era più chiaro.
Venni a sapere che Anastasio, il babbo di Giovanni, era morto per aver dato asilo al “tizio che viveva sui monti”. Giovanni si salvò e oggi fa l’apicoltore.
Mio padre era morto a sua volta, nel Quarantaquattro, ucciso dal “tizio che viveva sui monti”. Io mi salvai e riparai in città.
Venni a sapere che anche il camerata Frangipani, chiamato così per il fiore che portava sempre all’occhiello, alla fine, era stato acciuffato e fucilato. Ottavia si salvò e oggi è diventata mia moglie.
Nessuno di noi, di qualunque fazione politica o ceto sociale, uscì immune dal Quarantaquattro.
La guerra, alla fine, ci aveva tolto tutti i cognomi.