di Davide Corvaglia
da I racconti nel Castello,
antologia della Prima edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
«Vieni qui, Jonathan! »
Il bambino si voltò di scatto, poi sorrise al fratello maggiore e tornò a fissare la bancarella. I suoi occhi vacui avevano turbato il mercante, che se ne stava dietro la merce con un’espressione di sospettosa diffidenza.
« Dov’eri finito? » gli chiese Giulio, preoccupato. « Ti avevo detto di non allontanarti! »
« Mi piace quello » indicò il bambino.
« L’orologio? »
« Sì » rispose. « È bellissimo. Lo compriamo? »
« Ma che te ne fai di un orologio a pendolo? »
« Lo voglio regalare alla mamma » rispose.
« Lascia stare. Chissà quanto costa. »
« Meno di quello che pensi » intervenne il mercante. « Quanto vorresti spendere? »
« Non saprei » rispose Giulio. « Non so che valore possa avere. »
« Facciamo così » insistette l’uomo, mostrando una certa fretta nel voler concludere la trattativa. « Quanto hai a disposizione? »
« Ho solo venti euro, ma non credo possano bastare per… »
« È tuo » si sbrigò il mercante. « Ho sentito che è un regalo. Faccio un pacchetto? »
« Va bene. Ma con questo prezzo » chiese il ragazzo, mentre estraeva i soldi, « come mai non lo ha venduto prima? »
Il mercante si incupì, poi assunse veloce il suo sorriso stereotipato e rivelò: « Me lo hanno consegnato soltanto ieri sera. Voi siete i primi clienti della giornata. »
Giulio lo squadrò, incerto sulla risposta, poi allungò la banconota. « Vieni, Jo. Andiamo via. »
Camminarono una mezz’oretta prima di arrivare a casa e, appena furono davanti al cancello, scorsero Lara seduta in giardino ad aspettarli. Appena li vide, smise di accarezzare il pelo maculato di Molly e si alzò per andare incontro al suo ragazzo. « Che cosa avete comprato? » chiese incuriosita.
« Un regalo per i miei. L’ha scelto Jo. È un antico orologio a pendolo, di quelli che si mettono sul camino. »
« Carino. Anche io ci voglio andare. Hanno sempre un sacco di roba là » sorrise, varcando la soglia di casa.
All’improvviso, il dalmata iniziò a ringhiare e si alzò di scatto, poi abbaiò ferocemente verso di loro.
« Molly, buona! » le ordinò Jonathan, stringendo i pugni, e il cane si acquietò all’istante. « Brava, così » aggiunse prima di entrare in casa, e chiuse la porta.
Giulio mise il regalo proprio dove l’aveva immaginato, e indietreggiò di alcuni passi. « Sta proprio bene lì » ammise, prevedendo l’espressione di sorpresa che avrebbero fatto i genitori al ritorno dalla vacanza. Poi prese la mano della ragazza e la invitò a tornare da Molly in giardino.
Il più piccolo rimase in soggiorno ad ammirare il suo acquisto. Lo ammirò a lungo, con una certa curiosità, e iniziò a sentire molto caldo. Si tolse felpa e maglietta e rimase a scrutare intensamente il centro del quadrante fino a farlo svanire in una nebbia fitta. A un certo punto udì un tonfo e si destò, trovandosi sul pavimento. Sentì le mani di Giulio che lo aiutavano ad alzarsi. « Ma cos’hai? Stai male? Vuoi un po’ d’acqua? » chiese preoccupato.
« No, sto bene. »
« Cos’hai avuto? »
« Non lo so. Molto caldo, credo. »
« Ma non fa tutto questo caldo » aggiunse Lara. « Forse ha la febbre? »
Il fratello gli tastò la fronte, e scosse la testa. « Pare di no. »
Come se nulla fosse, però, Jonathan si alzò in piedi e si avviò verso la sua bici. « Vado a giocare da Michelino » aggiunse con aria naturale e uscì dal retro, lasciando i due a guardarsi tra loro, stupiti.
La notte stessa si svegliò di soprassalto e, ansante, si mise a sedere sul letto. Aveva sentito un tonfo sordo dal piano inferiore. Si alzò e corse dal fratello nella camera adiacente. Lo chiamò, scuotendolo, e scesero insieme.
Giulio accese tutte le luci, e raggiunse la porta d’ingresso. Guardò dallo spioncino, e aprì l’uscio. « Tutto tranquillo anche in giardino » sussurrò. « Molly è nella cuccia. Forse hai fatto un brutto sogno. » Richiuse la porta. « Hai sete? »
« No, grazie » rispose Jonathan, pensieroso.
Il ragazzo passò davanti al camino, si fermò e si voltò verso l’orologio, che era in una posizione diversa, molto più vicina al bordo. « Non devi toccarlo, però, o finirai per farlo cadere » ammonì, spingendo l’orologio al suo posto.
Jonathan avrebbe voluto negare di averlo toccato, ma tacque e si limitò ad assentire.
« Si è anche fermato » osservò il più grande. « Non so bene come funzionino questi aggeggi, ma proverò a farlo ripartire » e, dopo aver aperto lo sportellino che proteggeva il quadrante, riuscì a riavviare il pendolo. « Cinque minuti. Si è fermato solo per cinque minuti » notò.
« Già! » sussurrò il bambino, con una voce roca e profonda come quella di un uomo. « Proprio così, capitano. »
L’altro sobbalzò. « Come? »
« Eh? Non ho detto nulla » disse Jonathan, questa volta con il suo solito timbro.
« Mi è parso di averti sentito parlare. »
Rispose di no con la testa, e salì le scale per tornare a dormire. Si infilò nel letto e cercò di addormentarsi.
Fece un sogno bizzarro, poche ore più tardi. Sognò delle sbarre, e del sudiciume tutt’intorno. Gli sembrò di trovarsi in una cella, o in una stanza che le somigliava molto. Sarebbe stato al buio, senza il sottile fascio di luce di alcune torce appese in corridoio. Sognò un’ombra e la sentì parlare: « … per la sua condotta, non è più idoneo a guidare il presidio. » Le parole erano distinte, anche se parevano essere urlate da molto lontano. Avvertì una fitta dolorosa all’orecchio e si svegliò, sudato. Sentì Giulio russare beato nella stanza accanto e si tranquillizzò.
« Jonathan, svegliati. Va bene, oggi non c’è scuola, ma è quasi mezzogiorno. »
Il bambino sentì il fratello che lo chiamava dal piano inferiore, si vestì e scese in soggiorno. Accese la televisione e si sdraiò a pancia in giù sulla coperta adagiata sul pavimento, mentre l’altro accendeva il fuoco. « Cos’è un colonnello? » domandò all’improvviso senza staccare gli occhi dallo schermo.
« Come? »
« Il colonnello è uno che comanda? » chiese, fissando il fratello negli occhi.
« Certo. È uno dei gradi più alti dei militari. »
« Io lo posso diventare? »
« Penso di sì, se da grande deciderai di fare il soldato. Perché me lo chiedi? »
« Non lo so » rispose, come per valutare le sue stesse parole. « E un colonnello può essere imprigionato? »
« Se fa qualcosa di sbagliato, sì. Anche lui può finire in carcere. Oppure essere catturato dai nemici, in guerra. Sì, può capitare » spiegò con una certa curiosità. « Nel pomeriggio ho una commissione » disse poco dopo, attizzando il fuoco. « Vuoi venire con me o stare da Michelino? »
« Vado da Michelino. »
Era mezzanotte, quando Jonathan si svegliò di soprassalto, spaventato da un rumore improvviso, uno sparo. Si mise a sedere sul letto e, sussurrando come per non svegliare qualcuno, chiamò il fratello. Non ricevette risposta, quindi si alzò e andò sulle scale. Si asciugò la fronte con una manica e scese al pianterreno. Voleva entrare in cucina per prendersi un bicchiere d’acqua, ma si fermò davanti al soggiorno.
La tenue lampada dell’acquario illuminava il lato della stanza dov’era il camino e, di conseguenza, faceva brillare le lancette dell’orologio: segnavano la mezzanotte ed erano immobili.
Jonathan rimirò il centro del quadrante, come aveva fatto il giorno prima, fino a che tutto il resto nella stanza non scomparve. Il suo alito si condensò attorno al viso e formò una flebile nuvola di vapore a contatto con l’aria fredda. Sentì una goccia d’acqua cadere dal soffitto e bagnargli il braccio. Si scosse e guardò in alto, sorpreso nel vedere che il soffitto era di mattoni scuri e ammuffiti e che le pareti si erano avvicinate all’improvviso. Passò la mano sulla loro superficie umida.
Afferrò quindi le sbarre e si affacciò su un lungo corridoio che proseguiva fino a una scalinata, illuminata da alcune fiaccole. Si sentiva come imprigionato in uno di quei castelli dei cattivi che si vedono nei cartoni animati, ma non gli erano mai parsi tanto sporchi e nauseabondi.
Iniziò ad avere dei pensieri insoliti ed estranei. “Me la pagheranno” rimuginò. “Quei bastardi non si rendono conto del casino che stanno combinando, e manderanno tutto in fumo. Fallo, piccolo. Fallo per me!”
Indietreggiò e si accostò al muro alle sue spalle, spaventato da una voce interiore che non era la sua. Poi sentì un rumore di passi, di qualcuno che correva. Si affacciò ancora, per il tempo necessario a vedere un paio di ombre tremolanti scendere le scale, e si appoggiò alla parete. Accusò un dolore acuto al braccio, abbassò gli occhi su una ferita che prima non c’era, e strinse i pugni pronto ad accogliere quegli uomini.
Giulio riuscì ad afferrare la mano del fratellino prima di riceverla nello stomaco, e lo scosse un paio di volte fino a quando il suo sguardo non riprese la lucidità. « Jo, cos’hai? »
« Non lo so, Giulio » si agitò. « Ero in una cella schifosa, come nei castelli dei cattivi. E c’erano delle persone… venivano a prendermi. So che volevano farmi del male, perché avevo una ferita proprio qui, sul braccio. Me l’avevano fatta loro, ne sono sicuro. Ho paura. Quando torna la mamma? »
« Vieni, ti porto in ospedale. »
« No, sto bene ora. Non voglio andare in ospedale, voglio telefonare alla mamma. »
« La chiameremo domattina, sta’ tranquillo. »
« Ok. Come vuoi » disse, abbassando la voce, e sospirò: « Mi sembra che siano tornati i sogni. »
« Parli di… quei sogni? »
« Sì. »
« Sono passati due anni da allora. Pensavo fossi ormai guarito. »
Scosse la testa. « Infatti, ma sono più o meno gli stessi. Lo so. »
« Vieni, torniamo a letto. Starai in camera mia, se vuoi. Domani chiediamo alla mamma cosa possiamo fare. »
« L’orologio… si è fermato ancora. »
« Vedo. Lo sistemeremo domani, ora non serve. »
Jonathan rimase un istante a studiare le lancette, che avevano ripreso a muoversi proprio in quell’istante, e chiese: « Cosa significa la parola “ammutinamento”? »
« Dove l’hai sentita? »
« Non so. Forse nel sogno. »
« Ammutinamento è quando alcuni uomini, spesso soldati o marinai, si ribellano al loro comandante. »
« Succede anche a un colonnello? »
« Credo di sì. Ma perché queste domande? »
« Non lo so » rispose dispiaciuto e risalì piano le scale, massaggiandosi il braccio su cui era impressa, pochi minuti prima, una ferita da arma da taglio.
Jonathan rimase a letto un po’ di più e ascoltò, nel dormiveglia, la voce di Giulio al telefono con la madre. « No, tranquilla » le diceva. « Non potete scendere dalla nave a diecimila chilometri da qui. Me la vedo io. Se dovesse ricapitare lo porterò dal dottor Guido… Come? Ah, non da lui? Ah… ok. E come si chiama? Sì, va bene… anche il numero di telefono. Ma è lo stesso di due anni fa, vero? Va bene, lo chiamerò. Ciao, mamma. Sì, tranquilla, salutami papà. »
« Dove mi porti? » chiese il bambino sulle scale, stropicciandosi gli occhi con un dito.
« Oh, buongiorno. Era la mamma, e ti saluta. Mi ha detto di portarti dal dottor Franchini. »
« Chi è? »
« Non te lo ricordi, eri troppo piccolo. È lo stesso medico che ti aveva guarito dai brutti sogni. »
« Va bene » rispose, anche se non si ricordava dell’uomo. « L’orologio è ancora indietro. »
« Ti sei svegliato col pensiero, eh? » sorrise. « Ora lo sistemo di nuovo, ma lunedì glielo riporterò. »
« No, non farlo! »
« Come? »
« Non riportarlo indietro. Potrebbe finire in mani sbagliate. »
« Ma è solo un orologio. »
« Non è così. Porta a qualcosa di molto prezioso, lo sento. Controlla tu stesso, ci deve essere un disegno stampato su: un quadrato con degli strani angoli, che sembrano punte di lancia, e un’incisione sotto. »
« Non l’ho notato, proviamo. »
« Eccolo! » esclamò Jonathan, indicando la base. « Proprio là. »
« Come ho fatto a non vederlo? » si domandò l’altro. « E c’è anche una scritta: Barletta, 1940. Ma quando te ne sei accorto? »
« Non so, è come se lo sapessi da sempre. »
« Barletta… » sussurrò pensieroso. « I nonni erano di Barletta, che coincidenza. E cosa dovrebbe avere di tanto prezioso? »
Il bambino fece spallucce.
« Sembra la pianta di un castello. Forse è proprio quello di Barletta. »
« L’hai mai visto? » chiese Jonathan, incuriosito.
« Quando andavamo a trovare la nonna Adelina, prima che morisse, papà mi ci ha portato un paio di volte. »
« Quest’orologio era lì dentro » sussurrò.
« Può essere, ma sembra più un souvenir. »
« No! » esclamò Jonathan, immobilizzando il fratello con una voce roca e profonda. « Era lì dentro! »
Quella notte nessuno dei due fratelli riuscì a dormire. Il più piccolo, da solo nella sua camera, rimase a lungo a guardare il soffitto, mentre davanti agli occhi si delineava il profilo della piantina. Iniziò ad avere un significato, benché la soluzione sembrasse ancora molto lontana.
Poi ripensò a due anni prima, quando una voce interna, che non era stata la sua nemmeno in quella situazione, lo aveva tormentato per settimane, tanto da spingere i suoi genitori a rivolgersi a un medico, il dottor Franchini, per trovare una soluzione. Ricordò la sensazione di disagio provata in compagnia di quell’uomo, che per capire da dove provenisse la voce, lo aveva costretto a richiamarla.
All’improvviso udì dodici rintocchi e si alzò. Scese in soggiorno, si fermò davanti al camino e aprì lo sportello del quadrante. Spostò le lancette come un automa, seguendo un movimento preciso, e sorrise. Un clangore sordo dall’interno accompagnò l’apertura di un doppio fondo nel quadrante. Subito la stanza cominciò a girare su se stessa; apparvero alcune ombre, nella nebbia che via via si diradava così com’era comparsa, ed erano in cerchio attorno al tavolo. Jonathan era nel mezzo e gli parve di essere cresciuto di colpo, giacché era alto come i soldati che gli stavano accanto. Abbassò gli occhi sul tavolo, dove erano dispiegate numerose carte geografiche dell’Italia, della Puglia e una pianta della città. Una bandierina, più grande delle altre, era collocata su un punto preciso della mappa, il castello.
Attraversò l’intero salone e si affacciò alla finestra, scorgendo le mura della fortezza e una delle quattro torri, della stessa forma disegnata sulla piantina. Quindi riattraversò la stanza, facendo schioccare gli anfibi sul pavimento di marmo, e volle affacciarsi sul lato del cortile interno, dove un paio di militari di guardia stavano in piedi accanto all’ingresso e tenevano sotto controllo una scalinata di mattoni. Portava verso l’alto, al secondo piano. Volse infine lo sguardo intorno a sé, individuando i punti in cui i quadri e gli altri ornamenti erano stati visibilmente rimossi, lasciando la loro impronta sui muri.
« Colonnello, ci siamo » disse qualcuno alle sue spalle, facendolo trasalire. Era un uomo, stava vicino a una grossa radio e portava delle cuffie sulla testa. « Il duce ha parlato pochi minuti fa in piazza Venezia. Entriamo in guerra. »
Una voce, non sua, prese a spingergli in gola e gli fece pronunciare: « Va bene, allora non possiamo proseguire! »
Guardò l’uomo davanti a sé che muoveva la bocca, ma senza emettere alcun suono. Poi all’improvviso lo vide molto più vicino e lo sentì esclamare: « No, colonnello. Sarà lei a doverle mettere via. Mi consegni la sua pistola. » Infine la nebbia inghiottì di nuovo tutto, in silenzio.
« Jo, svegliati! » L’urlo del fratello maggiore lo destò quanto bastava perché la sala del castello lasciasse il posto al tranquillo soggiorno di casa sua. « Che cos’hai? »
« Capitano, le ordino di… » disse con voce roca il bambino, poi svenne.
Si risvegliò più tardi, sdraiato sul letto, con i polsi e la fronte bagnati da alcuni stracci imbevuti nell’acqua fredda. « Mi fa male la testa. »
« Hai la febbre » sussurrò Giulio. « Ora cerca di riposare: domattina chiamiamo il medico e… »
« No! » urlò, mettendosi a sedere. « Quel medico no. Sto bene, ora. » Scese dal letto, fuggì per le scale e raggiunse il camino. Rimase immobile davanti all’orologio e sorrise nel vederlo ancora aperto e al suo posto; girò le lancette, finché non sentì la chiusura del quadrante, rimise lo sportello nella posizione iniziale e si allontanò, poco prima che il fratello apparisse nella stanza.
« Vieni, torniamo di sopra » gli disse.
« Va bene, ma dimmi che non mi porterai da quel dottore. »
« Eri di nuovo in quello stato. Ho assicurato alla mamma che… »
« Se domani starò meglio, prometti che non mi ci porterai? »
« Ne dubito. Son tre giorni di fila che stai male. »
« Promettimelo. »
« E va bene. Ma se vedo che qualcosa non va, ti ci porto subito e senza fare storie. »
Il bambino assentì, poi seguì il fratello al piano superiore. Rimase lontano dall’orologio per una settimana, anche se dovette sforzarsi per riuscirci, e non fece più i brutti sogni. Giulio mantenne la promessa e non chiamò il medico.
Una notte però Jonathan si svegliò all’improvviso, di nuovo, quando un forte odore di bruciato, che aveva riempito la stanza, lo costrinse a uscire e scendere in soggiorno. Già a metà scalinata si accorse che il corridoio non era quello di casa, ma era molto più stretto e lungo. Sentì una stretta alle braccia, sempre più forte. Si voltò e vide due uomini che lo reggevano, spingendolo alla fine del corridoio e su per una scalinata di pietra, fino alla stanza della radio e delle carte geografiche. Tutt’intorno c’erano i cinque soldati.
« Non è prudente riportarlo alla luce ora. Dovremo aspettare la fine della guerra » disse Jonathan con la voce da uomo.
« Lei non è aggiornato, comandante. La guerra si protrae oltre le nostre aspettative. Ci riveli la mappa. »
« Vi assicuro che… »
« Ci porti al tesoro » urlò, « colonnello. »
« E va bene » rispose e, afferrando l’orologio, si mise a correre verso la finestra della muraglia. Una fitta all’orecchio destro e il bambino si svegliò, trovandosi sul pavimento del soggiorno, con il piede impigliato nel tappeto e l’orologio tra le mani.
Avvertì un senso di rabbia che non gli apparteneva, e udì una voce. “Fallo, piccolo. Fallo per me!” Si voltò di scatto, ma non vide nessuno.
Lo sportello di vetro dell’orologio, illuminato dall’acquario, mostrava una frase confusa. Jonathan vide che era rovesciata, come scritta dall’interno, e aprì. Le lettere emanavano un forte odore dolciastro.
Prese dunque a leggerle, una per volta: « U… C… C… I… D… » Trasalì, gettò l’orologio a terra e indietreggiò spingendosi sulle gambe. Terrorizzato, distolse lo sguardo e si voltò con la pancia sul pavimento di marmo. Era di nuovo nella sala del castello e vide un paio di scarponi neri entrargli nella visuale. Fu voltato da qualcuno e messo a sedere.
L’uomo che aveva sparato gli stava di fronte. Aveva un viso familiare, ma ancora sconosciuto. Poi tutto scomparve, così come era iniziato, e Jonathan tornò a vedere il suo soggiorno. L’orologio era sul camino, come se non fosse mai stato spostato da lì, e non aveva più la scritta sul vetro. Jonathan fece per salire in camera, senza accorgersi del fratello nascosto nel buio.
« Ho visto tutto, Jo » disse. « Ancora gli incubi, vero? Domani andiamo dal dottor Franchini. »
Il più piccolo si immobilizzò, annuì e si lasciò sfuggire una lacrima. “Fallo, piccolo. Fallo per me!” E si sentì scosso da un brivido.
Il dottor Franchini, un uomo alto e dalla carnagione pallida, accolse i due fratelli con un sorriso. « Ho già sentito sua madre » disse, rivolgendosi al fratello maggiore. « Ho pensato di visitarlo soltanto, per oggi, senza prescrivergli nulla. Discuteremo sul da farsi al ritorno dei suoi genitori. » Entrò dunque nel suo studio, posando una mano sulla spalla del piccolo paziente, e aggiunse: « Oggi facciamo soltanto una breve chiacchierata, va bene? »
Giulio rimase nella sala d’attesa, ma cercò di ascoltare la conversazione attraverso la porta. Riuscì a capire solo alcune parole sparse: « Orologio… Mi trovo in un castello… Giulio… Castello di Barletta… Soldati pronti alla guerra. »
Poco dopo udì il fratellino ripetere: « No, non voglio. Non ce la faccio! » e lo vide uscire di fretta.
« Non dovevamo venire qui. Io sto bene » sbraitò Jonathan, avviandosi verso l’ascensore, e non parlò per tutto il tragitto fino a casa. L’angoscia per la frase letta sul vetro iniziò ad affliggerlo subito dopo il colloquio con il medico. Decise allora di fare qualcosa e, più rifletteva, più si accorgeva che la scelta, che via via si componeva nella mente, era quella giusta. “Fallo, piccolo. Fallo per me!”
Appena in casa, chiese a Giulio di accendere il fuoco perché aveva freddo. Il ragazzo acconsentì e, poco più tardi, uscì in giardino ad aspettare Lara che sarebbe arrivata da un momento all’altro.
Rimasto solo, il bambino si avvicinò al camino acceso e prese l’orologio. Stava per gettarlo nel fuoco, quando si bloccò all’istante, stringendo la presa. La scena che si materializzò davanti ai suoi occhi fu chiara e nitida. Riconobbe le pareti, la finestra e il tavolo con le mappe e, infine, vide per la prima volta l’uomo con cui aveva condiviso i pensieri camminare avanti e indietro.
Il tizio alla radio si voltò indietro e parlò per primo. La sua voce si sentiva lontanissima, benché giungesse chiara e pronunciasse parole già sentite. « Colonnello, ci siamo » disse. « Il duce ha parlato pochi minuti fa in piazza Venezia. Siamo in guerra. »
« Va bene. Comunicatelo all’avamposto sulla via per Trani e chiamate Bari, presto ci sarà bisogno di rinforzi qui. Dobbiamo rinviare le nostre ricerche. »
« Ma come, colonnello. Aspettiamo questo momento da mesi. »
« La guerra non durerà molto. E poi ho scoperto come localizzarlo, perciò lo troveremo in poco tempo. Ho nascosto la mappa al sicuro qui nel castello. »
« E quando possiamo portarlo via? »
« Ogni cosa a suo tempo, capitano. »
« Ma basterà per tutti? » chiese un terzo uomo.
« Tenente, tra queste mura c’è un valore così grande che anche i nostri pronipoti potranno vivere nella ricchezza. A quanto pare il tesoro apparteneva a Federico II e ha un valore inestimabile. »
« E allora non possiamo attendere. Se le cose dovessero mettersi male… »
« Andrà come previsto, state tranquilli. »
I militari avevano formato un cerchio attorno al loro comandante. « Ci dia la chiave, colonnello. Non possiamo rischiare. »
« Stia tranquillo, capitano » ribatté.
« Colonnello! » L’esclamazione accompagnò un rumore metallico oltremodo familiare. « La mappa. »
« Ragazzi, mettete via le armi. È un ordine! »
« No, colonnello. Sarà lei a consegnarci la sua. Mi dia la pistola. »
« Capitano Gavino, le ordino di… »
Jonathan sussultò nel sentire il suo cognome e tese l’orecchio.
« La sua arma, colonnello » sibilò ancora. « Caporale, lo accompagni in una delle celle del sotterraneo e rimanga lì a controllarlo. »
« Questo è ammutinamento, capitano » ringhiò.
« Io non la metterei in questi termini. Diciamo che è arrivato il momento di cambiare aria e lei, colonnello, non ci porta nella direzione giusta. Non è più in grado di guidare il presidio. »
Il colonnello rimase chiuso nella sua cella a lungo, senza cibo né acqua, e in compagnia di alcuni topi. I suoi uomini persero la pazienza e, pur di estorcergli il segreto, arrivarono persino a torturarlo.
Jonathan lo guardò da oltre le sbarre e riconobbe la ferita sul braccio.
Una sera, l’uomo si lasciò sfuggire il primo indizio. Si fece accompagnare nella sala della radio, salendo per una scalinata di pietra che portava alla stanza, mentre gli altri tenevano le loro armi puntate contro di lui.
Si avvicinò all’orologio e aprì lo sportello di vetro, bloccando le lancette appena dopo la mezzanotte. « Non è prudente farlo ora. La guerra finirà presto. »
« Lei non è aggiornato, colonnello. La guerra si protrae oltre le nostre aspettative. A breve, questo presidio diventerà il principale della zona. Il risultato? Tutti saranno qui, in questo castello. Avanti, ci riveli la mappa. »
« Vi assicuro… »
« Ci porti al tesoro » urlò, « colonnello. »
« E va bene » disse, tenendo salda la presa, e scattò verso la finestra sulla muraglia.
Un colpo di pistola superò le grida dei militari e fece sobbalzare Jonathan. Il colonnello cadde a terra lasciando scivolare l’orologio, che ricominciò il suo ticchettio. « Me la pagherà, capitano » rantolò, perdendo un filo di sangue e saliva dalla bocca.
Il capitano si avvicinò e rivoltò il corpo. Poi, occhi negli occhi, gli disse: « Poteva finire meglio, comandante » e sparò l’ultimo colpo in testa, perforandogli l’orecchio.
A quel punto Jonathan capì, e cercò di risvegliarsi. Ricordò dove aveva visto quell’uomo e comprese perché il colonnello avesse pronunciato il suo cognome. Cercò tra le fotografie sulla mensola, una per una, finché non la trovò. L’immagine ritraeva il capitano Giulio Gavino, suo nonno, in uniforme.
“Fallo, piccolo. Fallo per me.”
Nello stesso momento in cui coglieva il desiderio di vendetta del colonnello, iniziò a muoversi contro la sua volontà verso il camino e aprì l’orologio usando la combinazione. Estrasse un biglietto arrotolato e lo strinse nel pugno. Andò in cucina, aprì il cassetto delle posate e sfilò il coltello più lungo. Infine uscì in giardino, dove il fratello era seduto sulla scalinata tra la sua ragazza e Molly. Gli si avvicinò e alzò la lama sopra la testa.
Lara urlò con tutta la voce, e Molly d’istinto spinse via Giulio prima di essere colpito.
« Che… che cosa avevi intenzione di fare? » urlò il ragazzo, spaventato, strappandogli il coltello dalle mani.
« L’orologio » balbettò confuso.
Giulio entrò allora in casa, correndo. « Avrei dovuto capire e farlo prima » disse. Staccò dapprima lo sportellino di vetro e lo lanciò nel fuoco, poi fece lo stesso con gli altri pezzi. « Anche due anni fa era colpa di un maledetto oggetto. Tranquillo, tra un po’ starai bene. »
Il bambino, mano nella mano con Lara, non rispose, ma continuò a contemplare le fiamme mentre ardevano le parti in legno. “Fallo, piccolo. Fallo per me!”
Il ragazzo notò il biglietto nel pugno del fratello e glielo tolse dalle mani.
« Non lo faccia, capitano! » urlò Jonathan con la voce del colonnello.
« Dobbiamo bruciare tutto » rispose, senza lasciarsi impressionare. « Così starai meglio » e lanciò il foglio di carta nelle fiamme che lo vaporizzarono in un istante.
Lo sguardo del bambino si snebbiò subito. « Giulio, che cos’è successo? » chiese. « E perché Lara è spaventata? »
« Niente » rivelò sereno. « Hai fatto un brutto sogno. »
« E il regalo per la mamma? »
« Non funzionava. Ne compreremo un altro, più bello. Ora andiamo a prendere una cioccolata calda al bar in fondo alla strada. Ti va? » chiese, mentre si dirigeva verso l’attaccapanni per prendere i cappotti.
Il bambino annuì e, prima di uscire dal soggiorno, si voltò a scrutare da sopra la spalla il quadrante dell’orologio annerire tra le fiamme. “Fallo, piccolo. Fallo per me!” pensò, e un sorriso agghiacciante gli apparve sul volto.