di Grazia Gironella
da I luoghi e i misteri dell’arte,
antologia della Seconda edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
Un viaggio verso il nulla. Che idea intelligente.
Emanuele si sforzò di spostare lo sguardo da un punto all’altro della pianura che scorreva ai lati della strada, tanto per impedire agli occhi di chiudersi, trasformando l’assurdità in tragedia.
Bel posto, la Florida, ma poco adatto a cancellare l’immagine di Sara a quel tavolo di ristorante, mani nelle mani con uno sconosciuto. Al solo pensiero, Emanuele sentiva le unghie conficcarsi nel volante. Per ora il paesaggio perfettamente piatto, disseminato di blocchi di casette identiche, sembrava piuttosto fungere da catalizzatore per i ruminamenti del suo cervello, fastidiosi e inutili come mosche chiuse in un barattolo.
Il pretesto per il viaggio – un’improbabile visita alla cugina di sua madre, di cui ricordava a fatica il nome, figurarsi la fisionomia – non aveva convinto nessuno, lui per primo; ma era stato un impulso troppo forte, quello di lasciarsi tutto alle spalle e andare.
Sapeva bene cosa lo aspettava, se fosse restato. No, grazie. Niente amici compassionevoli a trascinarlo in distrazioni idiote, niente tentazioni di telefonare a lei o aspettare sotto casa lui, niente serate davanti al televisore spento, arrancando tra Ceres e Marlboro. Meglio un anno sabbatico, una pausa di riflessione… una fuga, perché no. A quello scopo una destinazione valeva l’altra. La Legione Straniera non era più di moda da un pezzo.
Ma non era così semplice. Al volante del trabiccolo a noleggio, diretto verso la casa della quasi-cugina Beatrice, si rendeva conto di quanto gli mancassero i paesaggi mutevoli cui il suo occhio europeo era abituato. Al posto del conforto che aveva sperato di trovare, avvertiva un’abulia stagnante infiltrarsi nei muscoli e nei nervi, su fino al cervello. Forse quello era il posto giusto per farla finita, piuttosto che per iniziare una nuova vita.
Un borbottio sussultante lo distrasse da quella nuova prospettiva. A quanto pareva il “trabiccolo” aveva deciso di adeguarsi alla definizione che gli era stata affibbiata, e ora andava sputacchiando le sue ultime energie vitali su quella striscia di asfalto tracciata con il righello.
Quando il motore tacque del tutto, Emanuele lasciò che l’auto si arenasse sul bordo della strada e rimase a fissare l’orizzonte, le mani abbandonate sul volante. Non era nemmeno arrabbiato; questo era un brutto segno. L’aria calda sembrava liquida nelle narici. Senza fretta, tirò fuori dallo zaino il cellulare per chiamare il soccorso stradale. Non si stupì più di tanto nel trovarlo scarico.
Si guardò intorno controvoglia. Certo, le casette tutte uguali erano un mortorio, ma adesso si sarebbe accontentato di vederne anche una sola, abitata da qualcuno cui chiedere una mano; invece si trovava circondato da distese di erbe palustri punteggiate di boschetti tropicali, unici suoni i richiami degli uccelli. In lontananza, sulla sinistra della strada, si intravedeva una bassa sagoma chiara, non meglio definita.
Sospirando, Emanuele raccolse lo zaino, chiuse la vettura e si avviò a piedi. Per fortuna parlava l’inglese quasi come l’italiano; almeno la possibilità di comunicare era garantita, ammesso che avesse trovato qualcuno con cui farlo.
Dopo una mezz’ora trascorsa a camminare sotto il sole, l’odore pesante delle paludi con le loro erbe marcescenti gli si era appiccicato addosso, e mescolato al sudore creava un habitat ideale per le zanzare. Emanuele stava giusto spiaccicandosi sul collo l’ultima arrivata quando raggiunse la meta.
Le mura, alte e compatte, non consentivano la vista di ciò che si trovava all’interno.
Emanuele costeggiò più volte la parete di roccia alla ricerca di un varco, avanti e indietro, senza successo. Imprecò tra i denti. D’accordo che gli americani erano strani, ma come si entrava nella fortezza? Con l’elicottero, il paracadute, la catapulta? Notò che in un punto si aprivano due fenditure verticali parallele, distanti tra loro circa un metro, ma non c’era traccia di cancelli, maniglie o campanelli. Innervosito, tirò fuori dallo zaino una Gatorade e si appoggiò al muro con la schiena accaldata.
Il vuoto si aprì dietro di lui a tradimento.
Si ritrovò a terra, frastornato e con la maglia zuppa di sudore e di Gatorade. Davanti ai suoi occhi attoniti, la “porta” di roccia stava ancora ruotando su se stessa. Borbottando per le ammaccature, Emanuele si rialzò e la osservò con attenzione: sembrava pesantissima, ma bastava un dito per farla muovere; all’apparenza non aveva cardini, né chiavistelli.
« Cosa ci fa qui? Questa è proprietà privata. »
La voce brusca alle sue spalle lo fece sussultare. Voltandosi, Emanuele vide un uomo mingherlino in tuta da lavoro, armato di martello e scalpello, che lo scrutava con palese malevolenza.
« Mi dispiace, io… cercavo il cancello, non avevo idea che… »
« Le sue idee non mi interessano, e non sopporto i ficcanaso. Le consiglio di tornarsene da dove è venuto. »
« Ma io non… »
« In fretta. »
Emanuele sentì lo sconcerto lasciare il posto alla rabbia. Era il massimo, restare in panne con la macchina e farsi anche buttare fuori da un omuncolo del genere.
« Si dà il caso che la mia auto si sia fermata poco lontano da qui e non voglia saperne di ripartire. Non ho visto altri segni umani nelle vicinanze. Può concedermi di fare una telefonata, o preferisce che io affoghi in un pantano per non darle troppo disturbo? »
L’uomo lo osservò in silenzio per un po’. « Lei non è di qui » grugnì. « Un turista? »
Emanuele si sforzò di recuperare la calma. « Sono italiano. Mi trovo qui in visita a una parente. »
Il padrone di casa parve soppesarlo con lo sguardo. « Italiano di dove? »
« Venezia. Perché? »
L’ostilità sul viso dell’uomo parve farsi meno aspra. « Venezia… Ci sono stato, tanti anni fa. Comunque non c’è telefono qui » disse, burbero. « Lei non ha uno di quegli aggeggi che adesso vanno tanto di moda? »
« Intende il cellulare? Ce l’ho, ma purtroppo è scarico. Se solo potessi collegarlo alla corrente elettrica… »
L’uomo si prese il tempo di riflettere, un tempo abbastanza lungo da mettere ancora più a disagio l’involontario ospite. « Forse qualcosa posso fare. Venga con me. »
Gli fece strada attraverso il grande giardino assolato. Arrancando per stargli dietro, Emanuele ebbe appena il tempo di guardarsi intorno… e di non capire nulla di ciò che vedeva.
Raggiunta una sorta di bassa torre a pianta quadrata, costruita con la stessa roccia delle mura di recinzione, ne salirono la scala esterna.
La stanza al primo piano era un magazzino, o un deposito di attrezzi, o forse entrambe le cose. Emanuele notò pali di legno, casse, enormi bobine di filo di rame, e poi mazzuoli, scalpelli e altri strumenti da muratore; ma già il padrone di casa lo chiamava al piano di sopra, dove assistette alle curiose manovre con cui l’uomo calava ad altezza di ginocchia, tramite catene, una specie di seggiola e un letto originariamente appesi al soffitto.
« Non sono abituato ad avere ospiti » borbottò l’uomo, passandosi le dita tra i radi capelli grigi. « Mi chiamo Larss Godmanis. » Gli tese la mano, la ritrasse per pulirla nella tuta, gliela tese di nuovo.
Emanuele la strinse in silenzio, poi l’educazione gli diede la sveglia. « Emanuele. Emanuele Montorsi. »
Larss appariva imbarazzato, come se faticasse a rammentare i più semplici convenevoli tra esseri umani. Gli indicò il sedile appeso – nudo ferro con un pezzo di cartone a mo’ di cuscino.
« Sieda. Io… mi metterò sul letto. » Fece per sedersi, ma balzò di nuovo in piedi. « Il cellulare. Me lo dia, lo attacco al generatore. »
Emanuele obbedì. Larss scomparve oltre la soglia, lasciandolo solo a guardarsi intorno.
C’era ben poco da vedere, in realtà: la stanza, che aveva una sola finestrella dotata di sbarre, era perfettamente spoglia. L’aria, piacevolmente fresca dopo la canicola, odorava di polvere e di limatura di ferro. Due catene penzolanti gli fecero alzare gli occhi verso il tavolino appeso al soffitto, pronto a ricevere lo stesso trattamento della sedia e del letto.
Il rumore del generatore, proveniente dal piano inferiore, precedette di poco l’apparizione di Larss con in mano una caraffa sbreccata e due bicchieri dalla dubbia pulizia.
« Può bere, se vuole. Ho solo acqua » disse, allungandogli il bicchiere in un gesto brusco.
« Il telefono è collegato. Spero sia una cosa veloce. »
Non era necessario che il cellulare fosse carico per telefonare, il collegamento alla corrente elettrica era più che sufficiente; ma Larss pareva ignorarlo, ed Emanuele non menzionò quella possibilità. Aveva la mente affollata di pensieri, e nessuno verteva sull’auto in panne. Accettò il bicchiere d’acqua e iniziò a sorseggiarlo piano.
« Mi dispiace di averla disturbata. Lei… vive qui? »
« Questa è casa mia, sì. »
« E ci vive da solo? Voglio dire, è molto grande per… » Si interruppe, rendendosi conto di quanto suonassero assurde quelle parole, pronunciate in una stanza di quattro metri per quattro che probabilmente costituiva l’intera abitazione. Ma Larss aveva colto il concetto.
« Lei parla di quello che ha visto fuori. In quel senso sì, è una grande casa per un uomo solo. » Sorrise appena. « La solitudine presenta molti vantaggi. »
Fissò Emanuele come se attendesse una conferma, ma lui si limitò ad annuire. Non voleva rischiare di suscitare ancora le sue ire.
Larss sedette sul letto e lo stridio delle catene si insinuò nel borbottio lontano del generatore. Fece un gesto vago nell’aria con la mano.
« C’è anche troppa gente che cerca di intrufolarsi qui. Sbirciano da ogni fessura, si appostano al di là del muro con i binocoli. Dimenticare il cancello aperto, come oggi, è qualcosa che non mi posso permettere. Devo stare sempre in guardia per tenerli lontani. Ragazzini, turisti, perditempo, persino giornalisti. Curiosi, capisce? »
Capiva, eccome. « Immagino che siano attratti dal… giardino. Non si vedono spesso cose del genere. »
L’occhiata di Larss gli fece correre un brivido lungo la schiena. Forse aveva esagerato con la franchezza. Forse Larss era un pazzo pericoloso; a guardarsi intorno, almeno un po’ fuori di testa doveva esserlo. Se avesse gridato, con il rumore del generatore e il deserto intorno, sembrava assai improbabile che qualcuno potesse arrivare in suo aiuto. Ma il lampo negli occhi di Larss aveva un’altra origine.
« Non si vedono mai cose del genere » puntualizzò, secco. « Lei è di sicuro un uomo colto, viaggia, parla un perfetto inglese. Ha mai visto niente di simile? Venga, venga con me. »
Emanuele lo seguì di nuovo giù per le scale e poi nel giardino, dove le ombre iniziavano ad allungarsi ma l’afa era ancora soffocante. Larss si fermò accanto al muro di recinzione.
« Novanta centimetri di roccia corallina, cosa ne dice? Blocchi sovrapposti a secco, senza malta. Ma no, non è questo che l’ha colpita. Venga, le mostro il resto. » Condusse Emanuele verso una fontana rotonda, al cui centro emergeva una stella di pietra della grandezza di un palmo. Dal bordo si innalzavano due enormi spicchi di luna. « La Fontana della Luna. Quelli sono il primo quarto e l’ultimo quarto. »
Poco più avanti trovarono un alto monolito con in cima un foro rotondo, nel quale due spezzoni di ferro si incrociavano ad angolo retto.
« Il telescopio » commentò Larss. « In quel punto si vede la Stella Polare, di notte. Più in là c’è anche la meridiana, vede? Pensi che ha un margine di errore di soli due minuti. Poi ci sono i pianeti, Marte, Saturno e di nuovo la Luna, là in fondo, nella Sala del Trono. »
Proseguirono nel tour toccando ogni angolo del grande giardino, Larss sempre più infervorato nelle sue descrizioni, Emanuele sempre più basito.
C’era una scrivania con una sedia.
C’era un tavolo a forma di Florida con una cavità ovale che rappresentava il Lago Okeechobee.
C’era una poltrona a dondolo.
C’era una stanza da letto con due letti singoli e una culla.
C’erano sedie da lettura, e poltrone, e un divano; e poi un pozzo, un forno, una vasca da bagno.
C’era una stanza da gioco per bambini, con tavoli e sedie e lettini dove recitare la fiaba di Riccioli d’Oro e i tre orsi, e anche l’“angolo del pentimento”, dove i bambini venivano puniti.
E c’era un grande tavolo a forma di cuore, circondato da panche, al cui centro campeggiava una pianta di ixora dai fiori rosso vivo.
Tutto di pietra. Tutto a nudo sotto il cielo della Florida.
Emanuele faticava a tenere il passo del padrone di casa, e non meno a prestare attenzione alle sue parole. Se alla prima occhiata era stata la stranezza del luogo a tenergli il fiato sospeso, ora la bellezza di ciò che vedeva glielo toglieva del tutto.
Gli ambienti erano ricreati in dimensioni di poco superiori al normale, con precisione maniacale. Nella stanza dei bambini, a terra, si vedevano persino una palla e una locomotiva, sempre di pietra. Siepi di bosso e di lauro separavano ogni stanza da quelle adiacenti, formando un labirinto di pareti vegetali abbastanza basse da lasciar spaziare lo sguardo intorno.
Ogni pezzo di mobilio, ogni particolare, ogni blocco di pietra era decorato con la perizia di un maestro scultore a motivi geometrici e floreali, che gli conferivano la leggerezza di un merletto veneziano. La perfezione nei dettagli era assoluta, frutto di innumerevoli ore di lavoro e di una mente geniale, dedita alla bellezza. Emanuele sfiorò uno dei cuscini con la punta delle dita e nascose a stento un moto di delusione nel non trovare la morbidezza che si aspettava.
Larss alla fine tacque. Emanuele rimase a guardarsi intorno, consapevole di sembrare un bambino al luna park.
« Chi ha fatto tutto questo è un artista. »
« Artista, io? Forse. Non ci ho mai pensato. »
Ma la bellezza era solo un aspetto di quel luogo straordinario. Nella mente di Emanuele turbinavano ancora le date, i nomi, le cifre delle spiegazioni di Larss: tonnellate e tonnellate di roccia corallina – solo il cancello ne pesava almeno nove, aveva detto – utilizzate per ricreare quel miracolo della follia. Incrociando lo sguardo brillante di eccitazione del padrone di casa, la domanda gli uscì di getto.
« Perché? »
Sul viso di Larss il sorriso si affievolì. « Solo questo mi sa dire: perché? Devo averla sopravvalutata. »
Si incamminò verso la torre, tallonato da Emanuele.
« Non volevo offenderla! Questo giardino è stato senza dubbio una fatica titanica, ma proprio per questo viene spontaneo domandarsi… »
Larss si voltò, gli occhi di nuovo fiammeggianti d’ira. « Oltre mille tonnellate di roccia ho tagliato, spostato e scolpito con queste mie mani, da solo! » Gli aprì davanti agli occhi due mani quasi femminee nella loro esilità. « Vent’anni di lavoro, e lei cosa mi domanda? Perché. La domanda giusta è come. »
« Come? » Emanuele riprese a rincorrere Larss. « Beh, avrà usato macchine da taglio, altre macchine per trasportare i blocchi… Io non sono certo un esperto, ma posso immaginare… »
« Niente, può immaginare! Le ho detto che questo è opera delle mie mani, non delle macchine guidate dalle mie mani! Anzi, aggiungerei: delle mie mani e del mio ingegno. Sono gli unici ingredienti che ho usato, insieme ai miei attrezzi da muratore. Cosa crede che vengano a sbirciare tutti gli stupidi con i binocoli, per cosa crede che si appostino, e spiino, e poi chiacchierino nei bar, inventando storie senza senso per spiegare l’inspiegabile? Solo per scoprire perché ho costruito tutto questo? No, per capire come ho fatto! »
Emanuele tacque, interdetto. Si guardò intorno. L’obelisco si ergeva per almeno undici, dodici metri di altezza, e a quanto aveva visto non mostrava fratture, né giunzioni saldate con la malta. Se Larss era un folle, la sua follia dava frutti molto solidi.
Come se lo avesse sentito, Larss si voltò, un piede già sulla scalinata che saliva alla torre.
« Lei crede che io sia pazzo. »
Lo disse con calma. Con la stessa calma entrò nel magazzino e si infilò dietro un mucchio di casse, scomparendo alla vista. Il frastuono del generatore tacque, poi Larss ricomparve con il cellulare di Emanuele in mano. Nei suoi occhi il fuoco dell’ira andava spegnendosi, ma un’altra luce brillava, remota.
« C’è un’ultima cosa che vorrei mostrarle. Può dedicarmi altri cinque minuti? »
Emanuele annuì. Prima di rivedere il cellulare, aveva del tutto dimenticato il motivo per cui si trovava lì.
Larss lo condusse di nuovo nella stanza al secondo piano della torre e prese dei rotoli di carta appoggiati dietro la porta, poi calò a terra il tavolo e dispiegò sul piano i documenti.
Fissò Emanuele con sguardo determinato.
« Lei capisce qualcosa di elettricità? Di griglie geomagnetiche, di fisica iperdimensionale? No? Peccato. Tenterò lo stesso di spiegarle, come non ho mai fatto con nessuno, fino a oggi. »
I fogli erano coperti di disegni fitti, apparentemente disordinati, come se l’autore avesse riempito ogni spazio libero mano a mano che le idee si sviluppavano. Emanuele seguì il dito che gli indicava schemi elettrici, solenoidi, poli positivi e negativi, schizzi di esperimenti e di mappe. La voce di Larss era un brusio incessante nelle sue orecchie, ma l’unico pensiero su cui riusciva a concentrarsi era se fosse possibile che quell’uomo avesse fatto davvero tutto da solo.
Larss comprese in fretta che le sue spiegazioni cadevano nel vuoto. Si interruppe per guardare l’ospite, poi tossicchiò in quella che Emanuele credette di riconoscere come una risata.
« Il destino è beffardo, non trova? Per vent’anni ho mantenuto il segreto su ciò che faccio. Lavoro di notte, alla luce delle lanterne; faccio un giro di ronda ogni ora per controllare che non ci sia qualcuno a spiarmi, caccio via i curiosi, metto persino delle trappole… e poi, l’unico intruso che il caso mi impone si rivela un perfetto ignorante. Ma sì, in fondo è giusto così. » Larss arrotolò di nuovo i fogli e li ripose al loro posto.
Sembrava deluso, ma in pace. « I blocchi di roccia che ha visto pesano tonnellate. Se io da solo ho potuto tagliarli e posizionarli, e trasferirli – le sembrerà incredibile, ma questo “giardino” sorgeva a dieci miglia da qui, un paio d’anni fa – è solo perché ho scoperto il segreto delle piramidi. »
Emanuele si limitò a fissarlo in silenzio.
« Mi guarda allibito, a ragione. Eppure è tutto semplice, tanto semplice che persino civiltà antiche come quella egizia, o quelle del Perù e dello Yucatan, ne possedevano le basi. Siamo stati noi a cancellare tutto, dimenticare tutto. Abbiamo accettato di impastoiare le nostri menti con metodi fallaci e restringere le nostre conoscenze, tutto per crogiolarci nella parola “scienza”! Ah! » Si chinò su Emanuele, tanto vicino che lui poté vedere le pagliuzze verdi nelle sue iridi. « La forza di gravità può essere manipolata, alterata a nostro uso. Tutta la materia consiste di magneti che producono fenomeni misurabili ed elettricità. Ha mai sentito parlare di quello che gli orientali chiamano il chi, l’energia vitale? Anch’esso ha origine magnetica. »
« Ma scusi, ma lei come ha fatto a… »
« Osservando senza paraocchi, e sfruttando le mie doti naturali. Io posso vedere i flussi magnetici sotto forma di fasci di luce. Studiandoli ho compreso le vere leggi su cui si basano i concetti di peso, misura e leva, e ho individuato i punti della superficie terrestre in cui la forza di gravità può essere sovvertita; ed è tutto collegato agli allineamenti degli astri. »
Larss tacque, osservando l’espressione basita di Emanuele, che si asciugava la fronte con un fazzoletto.
« E io che le avevo dato dell’artista. »
« Non sono offeso. È necessario pensare in maniera creativa per progredire nella conoscenza della realtà, ed è questo che ho fatto, io, un ex capomastro lettone emigrato in America. Che smacco per il mondo accademico! Sa cosa si dice in giro? Che copro la roccia con reti di rame, che canto alle pietre, che faccio levitare nell’aria i blocchi di corallo con la magia nera. » Larss rise. « Li lascerò a macerarsi nell’ignoranza ancora per qualche anno, poi esporrò le mie tesi. Il primo libro è già pronto per la pubblicazione. »
Inspirò profondamente e bevve un bicchiere d’acqua, poi lo sguardo gli cadde sulla finestrella che si arrossava nella luce del tramonto.
« Si sta facendo tardi. Ora, se non le dispiace… »
Emanuele balzò in piedi. « Certo, è meglio che io vada. Grazie per il cellulare, adesso potrò chiamare il carro attrezzi e raggiungere… la mia destinazione. » Si sentì uno sciocco a non ricordare il nome della cittadina dove viveva la sua parente; ma forse quello era stato un viaggio sciocco fin dall’inizio. Tese la mano a Larss. « Mi scusi se le ho fatto perdere tempo. »
Larss ebbe un sorriso malinconico. « Forse non è stato tempo perso. La solitudine e il silenzio certe volte fanno male. Sa ritrovare la strada da solo? »
« Credo di sì. »
Con un cenno di saluto, Emanuele scese in giardino e si incamminò verso il portale girevole che si era aperto come un trabocchetto alle sue spalle. Passò accanto ai letti dai cuscini scolpiti, alla Fontana della Luna con il bordo finemente traforato. Quanta bellezza celata agli occhi del mondo…
Si voltò e vide Larss dondolarsi sulla poltrona di pietra, nella luce del tramonto. La sua figura scarna sul sedile massiccio aveva qualcosa di alieno. Sentì la vecchia domanda premere ancora per uscire.
« Non mi ha spiegato perché. »
Larss guardava lontano, verso la macchia di mangrovie oltre le mura. Appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi. Sorrideva.
« Agnes aveva gli occhi azzurri. Era così bella… Forse un giorno la farò venire qui e le mostrerò tutto questo. Allora capirà a cosa ha rinunciato quando se n’è andata, trentadue anni fa, il giorno prima delle nozze. » Larss riprese a dondolarsi. A Emanuele parve di sentirlo mormorare di nuovo: « Così bella… »
Si allontanò in silenzio e uscì, richiudendosi alle spalle la porta di pietra.
Ripensò alla pianta di ixora incastonata come una gemma nel tavolo a cuore, ai suoi fiori rosso fuoco, e sorrise fra sé.
Esistevano molti modi di sopravvivere a una storia d’amore.
Il racconto è liberamente tratto dalle vicende di Edward Leedskalnin, creatore dell’attuale Coral Castle a Homestead, Florida, morto prima di rivelare al mondo i suoi segreti.