di Giuliana Damiani
da I luoghi e i misteri dell’arte,
antologia della Seconda edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
Tea non sapeva dove sarebbe andata a finire con la mente una volta salita su quel treno semivuoto, arroventato dalla calura estiva e pervaso da un’afa insostenibile. Si sarebbe accomodata accanto al finestrino – di certo già aperto – restando con lo sguardo immobile, lanciato oltre il vetro, fino a che quel serpente di lamiera dalla pancia vuota non fosse giunto a destinazione. E così fece. Non appena il treno dischiuse le sue tante palpebre mobili in perfetta sincronia, Tea poté prendere posto, tra i mille disponibili: i vagoni erano deserti come deserta era la città che stava lasciando nel pieno di un luglio dorato. Sistemò la borsa, rimpinguata in tutta fretta con lo stretto necessario, e si accomodò sul sedile accanto al finestrino, quello che aveva immaginato.
Quando il treno partì, lentamente poi sempre più insinuante, una dolce brezza sibilò attraverso quella fessura, andando a importunare il lino bianco del suo vestito che a ogni sbuffo pareva gonfiarsi come una mongolfiera. Non ci volle molto, affinché Tea perdesse i suoi occhi al di là di quei fotogrammi sconnessi di paesaggio che si proiettavano in sequenza sul vetro dischiuso del finestrino; allora pensò al motivo per cui era lì, a cosa l’attendeva una volta abbandonata quella navicella terrestre per tornare là da dove era partita. Era passato qualche mese dall’ultima volta che aveva fatto ritorno al paese: il suo paese. Quel giorno, però, si era vestita di nero e con un contegno inaspettato aveva ascoltato la funzione funebre per suo padre: senza batter ciglio, aveva pianto dentro di sé, in maniera irrefrenabile, quasi che i condotti lacrimali avessero invertito il loro corso, irrorandole l’anima con lacrime pesanti, simili a pallini di piombo. Stretta nella sua giacca scura, aveva riconosciuto lo stesso rigore di sentimenti nel fratello maggiore e nella madre, che le sedeva accanto e che pareva vuota come un pozzo profondo e disseccato. Alla celebrazione c’erano stati politici e autorità locali, professori e galleristi: suo padre era stato ed era un grande artista. Orgoglio del ridente paesino in cui aveva deciso di rifugiarsi, aveva goduto in vita di un certo consenso di critica e di mercato a livello nazionale, insegnando nella vicina “Accademia delle belle arti”: così, più per vezzo e lustro che non per una vera passione. In vita sua non aveva dipinto né volti, né paesaggi: solo forme astratte, macchie di colore, armonicamente disposti su un pentagramma dalla struttura divina e imprecisabile, enigmatica e attraente.
Il volto umano per lui era stato una preda sfuggente, irritante, una parola che non si riesce a pronunciare: “sulla tela è impossibile riprodurre l’anima, ma solo una copia falsa, una maschera dalle orbite cave e senza vita” era solito dire. Tanto valeva dare vita a nuovi esseri: a corpi amorfi fatti di colore e linee, da disporre a comando, come in un brodo primordiale, sulla tela vergine. Fortunatamente qualcuno seppe cogliere il valore di quella nuova pulsione vitale e artistica.
La funzione era stata un florilegio di parole, di commozione vuota e di fatua costernazione.
Nessuno di quei signoroni in doppio petto sapeva bene cosa stesse dicendo, ma l’encomio fu solenne e tutti furono orgogliosi del loro eloquio. Poi la chiesa si svuotò e si svuotò anche l’anima di Tea e di suo fratello: si erano abbracciati con lo sguardo, senza mai toccarsi, quasi per paura che quel dolore li avesse resi così fragili da andare in pezzi al primo colpo. Solo la madre si era aggrappata a loro, cercando sostegno dalle loro braccia, con una disperazione soffocata, ma lacerante, quasi che si stesse sciogliendo pian piano in cera e le gambe le stessero venendo inesorabilmente meno.
Rincasare quel giorno, dopo la funzione, era stato come ritornare indietro di mille anni per Tea.
La sua camera era rimasta identica a come l’aveva lasciata prima di partire per Roma per frequentare l’università: con le tende rosa fiorate e i peluche sulla poltrona. Ne era passato di tempo da quella bambina, da quella camera, da quei giochi e per un momento le balenò in testa l’angosciante pensiero che, se non fosse ripartita per Roma il più presto possibile, si sarebbe trasformata di nuovo in quella ragazzina per colpa di chissà quale sortilegio. Ricordò di aver chiuso la porta delle sua stanza con la stessa mestizia con cui si richiude un libro per bambini con le illustrazioni ormai troppo ingiallite, quasi deformi per il corrodere del tempo.
Aveva deciso poi di raggiungere sua madre che, piccola come una bambola di porcellana immobile, stava seduta sul letto matrimoniale di una camera diventata improvvisamente troppo ampia e silenziosa. Le parve di rivederla, sua madre, proiettata in controluce sul vetro scintillante del finestrino, mentre il treno la risucchiava nello spazio e nel tempo in un viaggio che non avrebbe voluto fare.
« Ci voleva bene, sai… » le aveva detto allora sua madre, vedendola entrare. Forse una frase ovvia, forse una rassicurazione, forse una scoperta, dato il carattere burbero e intimista del padre, chiuso in se stesso e in quel suo inaccessibile studio dove era solito lavorare. Pareva che riuscisse a comunicare solo con le tinte e l’intenzione che conferiva alla sua pennellata. Era da come usciva dal suo studio- se soddisfatto o perplesso- che in famiglia ne intuivano l’umore e il quadro finito ne era la conferma: la precisa radiografia cromatica della sua condizione interiore. Col tempo tutti erano riusciti a decifrare questo codice e a comunicare con quel padre più con la vista che con le corde vocali. Mille volte Tea, bambina, era passata sommessamente accanto al suo studio, fermandosi alla porta per tendere l’orecchio e tentare di carpirne un suono, un respiro, anche solo un’imprecazione, ma da quell’antro ignoto non proveniva voce che non fosse quella della setola dei pennelli che si strusciava sulla tela grezza in un crepitante fruscio. Scendendo in giardino a giocare, a Tea era capitato mille volte di immaginare suo padre come una sorta di alchimista, di mago silenzioso, che nel suo laboratorio segreto mescolava pozioni dai multiformi colori, usando i pennelli come bacchette magiche e le tele come arcani formulari ancora da scrivere. Quella curiosità l’aveva divorata a lungo durante l’infanzia, sorprendendola nella concentrazione degli studi o nello svago del gioco: spesso aveva lasciato scorrer via la palla tra l’erba, attratta dalla sagoma del padre percepita attraverso i vetri della finestra dello studio che dava sul giardino; una volta si era persino affacciato da quella finestra, quasi a voler prendere una boccata d’aria per poi rigettarsi nella foga del lavoro.
A Tea per un attimo era sembrato di veder fuoriuscire da quella stanza uno sbuffo colorato, frutto di una delle innumerevoli reazioni chimiche, a cui suo padre, nella sua fantasia di bambina, era solito lavorare. Era accaduto che a cena Tea mangiasse distrattamente, pur di tener d’occhio suo padre, tentando di indovinare dal suo volto a quale arcano esperimento si stesse dedicando e quale strambo messaggio criptato stesse comunicando a sua madre, mentre le parlava della giornata di lavoro appena finita.
Ma non ci volle molto tempo, affinché Tea capisse a cosa servisse quel laboratorio segreto, chi fosse suo padre e quanto splendore la maggior parte della gente vi leggesse in quelle strane formule alchemiche di linee e colori, lascito di un’ ormai estinta, ma remota e superiore civiltà.
Lo scoprì a scuola, poi sempre più a fondo nell’adolescenza fino alla maturità: lo scoprì nella reverenza con cui le persone si rapportavano alla figlia di cotanto padre; negli applausi dei critici e degli avventori alle sue mostre; nelle congratulazioni per le onorificenze ricevute. Col tempo Tea aveva scoperto di possedere, forse solo in parte, quelle stesse qualità demiurgiche, quella stessa indole paterna da stregone, per la quale basta una linea o un rigagnolo di colore per creare mondi nuovi e fantastici. Gliel’aveva detto la sua insegnante d’arte al liceo che forse quel talento era ereditario, ma da quel momento Tea aveva vissuto quella propensione come una vergogna, occultando quegli schizzi segreti allo sguardo del padre, fuggendone, forse, il giudizio, o temendo di sviluppare quella medesima tendenza all’isolamento e all’incomunicabilità di cui lui era affetto. Forse di null’altro aveva parlato con lui, se non di come stesse andando la scuola e dei suoi progetti futuri: qualsiasi altra forma di interessamento nei suoi confronti era stato preso da Tea come un’inutile, quanto tardiva, intromissione nella sua vita di ragazza.
Dopo le superiori aveva scelto di andare a Roma e suo padre Tea l’aveva visto un’ultima volta prima di partire: dalla fessura della porta del suo studio, stranamente lasciata aperta, la spiava mentre trafficava con le valigie per il corridoio, senza dire nulla, senza uscire di lì, fintamente intento a ripulire i pennelli. Tea aveva notato quello strano spiraglio che, con un solo sguardo l’avrebbe immessa in quel mondo fino ad allora tanto sognato, ma finse di non accorgersi di quell’inaspettata apertura; prese le valigie, discese giù in salone e poi fuori in giardino per caricarle in auto, aiutata dal fratello e da sua madre che l’avrebbe accompagnata di lì a poco in stazione. Suo padre l’aveva salutata dalla finestra dello studio prima che entrasse in macchina. In quel momento Tea non sapeva che l’avrebbe rivisto quasi un anno dopo, al suo funerale, chiuso in quello scrigno di legno e incensato di elogi e lacrime senza colore.
Sprofondata nel suo sedile, piangeva Tea, ripensando a quel loro ultimo, questa volta forzatamente muto, incontro. Poi nascose subito le lacrime all’arrivo del controllore che con le tempie imperlate di sudore le chiedeva il biglietto da visionare. La tormentava, come una zanzara estiva, il pensiero, il rimorso tarlante, che con quel padre non ci aveva mai parlato.
Certo lui non le aveva mai aperto la sua porta, se non quell’unica volta prima di partire, ma d’altra parte lei non aveva mai provato a bussarci; chissà, forse l’avrebbe fatta entrare. Dopo quel lutto non le era stato più possibile: sua madre aveva chiuso a chiave lo studio, lasciando alla polvere e alle tele di ragno il compito di seppellire nell’oblio della dimenticanza tutto quello che era stato di quel posto. Tea glielo vide fare con quella solennità con cui si sigilla un mausoleo, col dolore con cui si trattiene il pianto e il tormento con cui si smorza una parola tra due labbra serrate.
« Qui ci sono le sue cose » le aveva detto sua madre prima che ripartisse per Roma all’indomani del funerale. E aveva indicato su un piccolo scrittoio in camera da letto una rubrica telefonica tascabile, rivestita di un cuoio ormai consunto, pochi vecchi libri e il suo portafoglio di pelle nera, dal quale furtivamente – Tea ricordò – aveva sottratto da bambina qualche spicciolo per comprarsi caramelle e figurine. Era rimasta sola, Tea, in quella stanza: aveva sfogliato distrattamente l’agendina, passando lentamente la mano sul rivestimento di cuoio: quasi che avesse conservato ancora il calore delle mani di suo padre. Aveva letto il titolo di qualche libro impolverato, ma poi la sua attenzione si era posata, avidamente curiosa, su quel portafoglio: aveva riso tra sé nell’aprirlo, nello scoprire che nello scomparto delle monete ne era rimasta una, invenduta, che sembrava essersi nascosta proprio per lei; forse, un ultimo, tenero quanto innocuo, dono di suo padre – le era piaciuto pensare – o, forse, un tradivo ammonimento per quella marachella di cui lui probabilmente era sempre stato a conoscenza. Lo aveva aperto, respirandone l’odore che tradiva l’identità del proprietario: la pelle era deliziosamente impregnata del profumo violento di quei suoi colori ad olio che aveva talmente segnato le mani di suo padre da accompagnarlo ovunque. Tea aveva inalato quel dolce odore che – sì – a lei era sempre piaciuto tanto, anche se non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo, assecondando la madre che – proprio no – non lo sopportava. Lo aveva sentito forte quell’odore Tea: ogni qual volta si era fermata dietro la porta dello studio di suo padre, tentando di indovinare da quello quali ingredienti colorati suo padre stesso usando quel giorno per chissà quale strano intruglio.
Ma, riaperti gli occhi, si era accorta che qualcosa si nascondeva ancora in fondo a quel portafoglio; aveva inserito le sue dita minute all’interno e vi aveva estratto due piccole foto formato tessera. Nella prima, in bianco e nero, era ritratta sua madre: lo sguardo dolcemente melanconico e i capelli corti e vaporosi; poi suo fratello: ritratto in un’espressione infantile e per questo gioiosa. Ma lei no: lei non c’era. Cercò meglio nel portafoglio, ma di lei nessun ricordo: nessuna foto sbiadita, mossa, strappata. Niente.
Il giorno dopo era ripartita per Roma: più sola di prima. Là stava studiando “Beni culturali”: sperava di lavorare nei musei, di fare la curatrice di mostre – diceva. L’arte lei non l’avrebbe fatta, ma solo detta, analizzata e per questo controllata; facendo psicologia spicciola, qualcuno avrebbe potuto dirle, chissà, che la sua sarebbe stata una rivincita sul padre; un modo per giudicarlo, di studiarlo e anche condannarlo, o assolverlo. Forse, solo di capirlo. Avrebbe voluto comprendere Tea perché non si fossero parlati poi tanto in tutti quegli anni: perché alle parole suo padre avesse preferito i segni, le forme mute, i colori odorosi; che cosa ci fosse scritto in quei geroglifici tanto apprezzati, ma che lei non era mai riuscita a leggere.
Erano passati mesi da quel giorno luttuoso e, una volta tornata a Roma, una volta ripresa la vita di tutti i giorni – la sua vita – Tea si era illusa di aver dimenticato l’accaduto: che di quella cosa lì, in realtà, non le era importato poi molto. Le era bastato guardare le foto scattate con le amiche di infanzia e con quelle dell’università, attaccate sul muro della sua camera di Roma, per convincersi che non era sola, che quei volti fossero sufficienti per non sentirsi angosciata.
Ma era bastata una chiamata di sua madre tempo dopo per riportarla indietro di mesi, per svuotare di volti quelle foto appese al muro e per rimetterla su di un treno, quel treno, che la ingoiava di nuovo verso il luogo da cui era fuggita.
« Vogliono fare una mostra commemorativa su tuo padre: devi aiutarmi. Mi hanno chiesto di scegliere le opere da esporre… chi meglio di te… Io non ce la faccio… » l’aveva implorata al telefono sua madre. « Devi esserci » aveva aggiunto.
Tea non aveva saputo dirle di no. Quel laboratorio infernale, lo studio di suo padre, sarebbe stato riaperto e lei, solo lei, avrebbe scelto, valutato, scartato, deciso di lui, o meglio, di quel che rimaneva di lui. Avrebbe ripercorso la sua vita attraverso le sue opere, valutandone gli sbagli: lei e solo lei avrebbe deciso cosa fosse da buttare e cosa si sarebbe dovuto salvare di quella sua vita. Disse di sì: forse spinta da un’inconscia sete di rivalsa. Ora sarebbe stata nella condizione di decidere. Ora avrebbe potuto entrare in quello “studio d’artista” a porte spalancate, senza nascondersi e senza elemosinare.
Con quello stato d’animo si era messa su quel treno in quella calda mattina d’estate.
Il treno arrivò in stazione che era quasi pomeriggio inoltrato. Ad aspettarla c’era suo fratello: col viso abbronzato e i piedi nudi avvolti in un paio di sandali chiari. L’abbracciò senza dirle niente e insieme si misero in macchina: il tragitto fu breve, ma sembrò infinitamente lungo per quanto tacevano.
« La mamma ti aspetta » le disse una volta arrivati.
Tea si precipitò in casa, lasciando al fratello il compito di occuparsi dei bagagli. La trovò distesa, come una sciarpa un po’ dismessa abbandonata lì per caso, sulla grande poltrona di vimini, accanto alla finestra. Sua madre, rimase immobile, reclinando solamente il capo verso di lei e dissimulando la sua aria cupa in un mesto sorriso, sgranato a poco a poco. Tea la salutò dolcemente, soffermandosi in una breve conversazione con lei per accertarsi delle sue condizioni, ma nella mente restava vivo il desiderio che arrivasse presto il momento in cui sarebbe entrata nello studio di suo padre.
« La chiave è lì… » s’interruppe la madre, quasi leggendole nel pensiero. E dicendo questo le mostrò il tiretto di una vecchia credenza in cucina. « Vuoi occupartene già da ora? » aggiunse la donna.
Tea si impossessò di quel prezioso strumento e, annuendo, salì le scale che la portavano al piano superiore. Lì si trovò subito dinanzi alla fatidica porta, attraente e respingente allo stesso tempo, dietro di questa non si udivano più fruscii di pennelli e l’odore dei colori pareva affievolito. Inserì la chiave nella toppa, girandola come si gira un coltello tagliente nella carne da macellare: lentamente, ma energicamente. Schiudendo la porta, vide solo buio: nel mentre si dirigeva verso la finestra per spalancarla, le sembrò quasi d’intravedere suo padre trafficare nel buio coi suoi filtri pigmentati. La luce entrò violentemente nella stanza, riportandola alla vita. Per terra, sparse qua e là a mucchietti, migliaia di tele, come carte di un mazzo da gioco, erano addossate al muro; un tavolo sul fondo della stanza pareva un orto di piante disseccate. Su di esso campeggiavano barattoli carichi di pennelli incrostati di colore che sembravano vecchi pappagalli dalla cresta spennacchiata; e poi tubetti, miliardi di tubetti, spremuti o ancora pieni di un pigmento ormai indurito, che strisciavano come vermi su quella superficie; e infine qualche tavolozza ancora macchiata, come se qualcuno vi avesse mangiato dentro qualche goloso semifreddo. Tea ebbe l’impressione di trovarsi in quella che doveva essere stata una rigogliosa foresta, ormai totalmente bruciata. Sorrise nello stupirsi, quasi, di non trovare strani aggeggi, ampolle ancora pregne di vecchie pozioni o bacchette magiche da manovrare. Trovò solamente, vicino alla finestra, il grande cavalletto ancora aperto e coperto da un telo gigante. Tea vi si avvicinò pian piano, temendo forse che l’attrezzo da un momento all’altro si animasse, scalpitando come un cavallo per poi scorazzare per tutta la stanza. Sollevò il telo che, come un sipario mostra lo spettacolo teatrale, le dischiuse alla vista uno spettacolo che lei non avrebbe mai potuto immaginare. Si vide: vide se stessa ritratta, da ragazzina, col sorriso lieve e lo sguardo penetrante; sul bordo del cavalletto, appoggiata alla tela, la sua foto tessera, quella mancante, la osservava, deridendola. Quasi che avesse voluto parlarle. Tea guardò la foto, poi se stessa ritratta sulla tela: quelle mille pennellate parevano mille carezze fisicamente mai date. Una per una se le sentì sul volto. L’aveva dipinta serena: con gli occhi di diamante.
« Ci ha lavorato fino alle fine, sai? » disse sua madre, entrando nella stanza, silenziosa come un fantasma. « Aveva detto che per te ci voleva provare… Lo sai che non amava i ritratti, lo sai… » aggiunse. « Diceva sempre che l’anima era difficile da catturare… E così ha sempre lasciato perdere, ma con te ha voluto insistere. Ci ha sempre lavorato di nascosto… Sperava di finirlo prima della tua partenza per Roma. »
Tea sorrise. Si guardò nel quadro, bambina, e, sebbene non fosse stato terminato, lo trovò il più compiuto dei capolavori: muto, come muto era stato l’affetto che lei e suo padre per tutto quel tempo si erano scambiati, ma vivo e presente, tangibile ora in quella patina di colore che aveva le sembianze del suo volto. In quel momento le parve di fare pace con lui e di vedere rifiorire quella stanza di vita. Si accomodò sulla sedia da lavoro e pianse; poi si affacciò alla finestra dello studio ed ebbe l’impressione da lì di vedere se stessa giocare nel giardino: capì finalmente che in realtà suo padre non l’aveva mai persa d’occhio per un minuto.
Qualche settimana dopo la mostra fu aperta al pubblico. Sulle pareti del salone comunale troneggiarono i quadri dell’esimio artista scomparso. I critici elogiarono, i politici parlarono e la gente applaudì, rimirando i quadri astratti: belli ma incomprensibili. Tea strinse mani, fece convenevoli e accolse i convenuti; così fecero sua madre e suo fratello. Ma nessuna di quelle pareti ospitò quella rarità: l’unico ritratto del pittore astratto ormai scomparso. Il re della pittura non figurativa. Quel volto di bambina rimase un segreto fra Tea e suo padre. L’unico quadro rimasto nello studio d’artista.