7 Marzo 2020

L’alba che verrà

di Luigi Brasili

da I luoghi e i misteri dell’arte,
antologia della Seconda edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.

La mano si muove lenta tra le ombre, imprimendo nella tela immagini di luoghi lontani nel tempo e nello spazio, di vite che non ci sono più. Il nascondiglio che ha ideato non è granché ma Giorgio confida nella solidarietà di alcuni e nella paura di punizioni di altri. Ogni minuto libero, ogni pensiero è rivolto all’oggetto che adesso considera prezioso più della sua stessa vita. La sera, al rientro dal campo, seppur stremato, dedica tutte le poche energie al suo ultimo lavoro. Febbrile, i muscoli tesi, riporta in vita i suoi sogni, quei pochi che ancora gli sono rimasti. E quando cade sfinito, tende un braccio oltre il buio, verso la luce.

Giorgio Sarti indugiò sulla soglia del balcone, incapace di distogliere lo sguardo. La luce del tiepido sole di ottobre si era adagiata in un manto rosso sul fiume.
« Papà? È l’ora della medicina. »
« Un attimo ancora, Giulia… »
Le acque placide, come uno specchio magico, rinforzavano i colori pastello del tramonto inondando la camera con la forza di mille pennelli.
L’uomo sorrise e il suo volto si distese cancellando le rughe. Alzò un braccio agitandolo nel vuoto. La danza sulla tela immaginaria gli riempì gli occhi e il cuore, mentre la figlia lo allontanava dalla finestra.
« Prenderai freddo, papà… »
Lui scosse piano la testa, serrando le palpebre per catturare dentro di sé le ultime pennellate.

La donna si staglia tra cielo e fiume, i boccoli neri che cadono sulle spalle, mentre il viso si accende di rosso. La mano delicata si allunga oltre il balcone, quasi ad affiancare il lungo dito d’argento accarezzato dai ponti, secolari anelli preziosi che ne congiungono le rive.
« Un giorno di questi vorrei fare un dipinto » sussurra Giorgio estasiato.
Ester si allontana dalla luce e rientra nella stanza, la figura snella e flessuosa avvolta da un alone cremisi.
« Che genere di dipinto? » gli chiede.
Lui poggia il mento nell’incavo del collo profumato, gli occhi rapiti dal fantasma che ancora aleggia davanti al balcone.
« Il tuo viso e il fiume, con i ponti e la città sullo sfondo di questo cielo meraviglioso. »
Ester si libera con grazia dell’abbraccio e lo fissa semiseria.
« Non pensi che io sia troppo brutta per questa città piena di capolavori? »
Giorgio scuote la testa, e l’attira di nuovo a sé.
« Ester, nessuna città, nessun’opera dell’uomo può rivaleggiare con la tua bellezza. »
Lei gli regala un sorriso stanco, allontanandosi di nuovo, il viso attraversato da un’ombra.
« Cosa ti hanno detto? Ti faranno fare l’esposizione al museo? »
Lui sospira, cercando negli occhi indagatori quel chiarore che vorrebbe poter trovare nell’oscurità che sempre più avviluppa il mondo.
« No » risponde, muovendo appena le labbra.

« No, Giulia, non se ne parla! »
La voce di Giorgio risuonò acuta e stonata nel tentativo di ribattere alle parole della figlia.
« Ma papà, cerca di capire, non lo dico per me, non mi importa nulla dei soldi, ho il mio lavoro… e finché il cielo lo vorrà, io sarò sempre accanto a te in questa casa, ad accudirti! »
« E allora il discorso è chiuso! Come non hanno voluto esporre i miei quadri quando gliel’ho chiesto io, così non si farà nessuna mostra adesso. Piuttosto, mi farò seppellire insieme ai miei quadri! »
Giulia alzò le spalle, quasi rassegnata, e si accoccolò sul letto accanto al padre. Gli passò una mano sui radi capelli e poi sulla guancia.
« Come vuoi tu papà, ma è davvero un peccato che la gente non possa ammirare da vicino le tue opere… »
Giorgio sollevò di scatto la testa dal cuscino, puntandola come un pollo vicino a un piccolo insetto intrappolato nella terra.
« Mi dispiace, Giulia » disse, cercando di stemperare la rabbia. « Non è questione di orgoglio, ma è inaccettabile per me. Ti rendi conto? Quelle persone che mi chiedono di esporre i dipinti, adesso, sono le stesse, o quasi le stesse che all’epoca mi sbattevano le porte in faccia guardandomi come fossi stato un appestato! Lo so che il perdono dovrebbe guidare il mio cuore, ma tu non li hai visti, e nemmeno loro hanno visto cosa è accaduto. E addirittura alcuni pensano che siano tutte bugie! »
« Capisco papà, ma il mondo va avanti, dobbiamo cercare di dimenticare, di ricominciare… »
Giorgio scattò ancora, agitando un pugno nell’aria.
« No, figlia mia, è difficile dimenticare, anzi, è un dovere per ciascuno fare in modo che questo scempio non venga mai dimenticato! »
Giulia si alzò, e si diresse verso la finestra, voltandogli le spalle. Ma le parole del padre continuavano a bersagliarla.
« Dimmi, Giulia: perché secondo te fino a pochi mesi fa, quando ancora riuscivo a reggermi sulle mie gambe, quelli che incontravo voltavano la faccia fingendo di non vedermi? Per il rimorso? No, te lo dico io: per la vergogna! »
Giulia si girò, avvampando.
« Ma papà, non sono tutti uguali, tu non hai idea di quanta gente mi parla bene di te, di noi. E poi, la maggior parte di loro ormai non c’è più, e i parenti, i figli, la pensano come me! Come Paolo… »
Il vecchio annuì, scivolando dal letto verso la carrozzella. Alzò un braccio per fermare la figlia che si stava muovendo per aiutarlo. Con un movimento silenzioso le ruote girarono sul parquet.
« Sì, Paolo è un bravo ragazzo, e anche i suoi genitori sono delle persone buone, ragazza mia. »
Lei si spostò di lato per lasciargli spazio davanti alla finestra, avvolgendogli le spalle con la coperta. Giorgio sorrise nel vedere la preoccupazione sul volto della figlia.
« Un attimo ancora e poi chiudiamo, d’accordo? »
« Va bene. Un attimo ancora » rispose lei, volgendo lo sguardo sul fiume.
La luce del tramonto era quasi scomparsa, ma a ovest il cielo era ancora impregnato di varie tonalità tra il rosa e il blu scuro, con le rade nuvole che sembravano afferrarsi alle cupole e ai tetti prima di venire ingoiate dalla notte.
« Ma dimmi, quante, tra queste brave persone di cui parli, sarebbero state disposte ad aiutare quelli come noi se si fossero trovate nelle condizioni di farlo? Dimmelo! »
« Non lo so, papà, non lo so. Ma tu allora, se fossi stato tu al posto loro, come ti saresti comportato? Scusami, io non volevo… »
Giorgio le prese una mano con dolcezza, rassicurandola.
« Non scusarti, Giulia, hai ragione; e io non so rispondere a questa domanda, ma mi riesce difficile, dopo tanti anni comprendere come sia potuto accadere… »
La ragazza gli prese il volto tra le mani.
« Oggi ho incontrato Campini, ti manda i suoi saluti… »
« Come sta? » chiese Giorgio.
Giulia sorrise. « Beh, per uno della sua età direi che è in gran forma… »

Il tenente Campini se ne sta rigido in piedi davanti all’ingresso del salone, le braccia dietro la schiena e le mani a stringere il cappello d’ordinanza. Davanti ai suoi occhi una cornice, al cui interno una piccola folla osserva ammirata un giovane di marmo bianco, muscoloso e puro. Campini pensa che più che a un guerriero o a un re la statua somiglia a un angelo senz’ali, o a un uomo che scruta verso un futuro incerto.
Il volto del pittore è solo un fugace riflesso della sua vista periferica, quasi un’ombra destinata a scomparire presto tra gli artigli della lunga notte che sta per avvolgere tutto.
Giorgio Sarti e sua moglie si tengono per mano, fissando il pavimento. Campini continua a studiarli di sottecchi, spostando la testa da un quadro all’altro. I lineamenti della donna rivaleggiano con quelli dei ritratti, e pure il suo corpo, nonostante il ventre ingrossato, sembra appartenere a una divinità della mitologia classica.
La voce di Giorgio lo raggiunge appena.
« Quando accadrà, secondo lei, tenente? »
Campini sospira, cercando di sostenere i loro sguardi con la stessa naturalezza con cui la coppia lo sta interrogando. « Da quanto ne so, ma è notizia certa, è questione di settimane, giorni forse; dovete andarvene, cercate rifugio lontano da qui! »
Giorgio annuisce con aria solenne. La sua mano si stacca da quella di Ester e stringe il braccio del militare.
« E dove possiamo andare secondo lei, tenente? Mia moglie tra pochi giorni partorirà, per noi è impossibile viaggiare in questo momento, ammesso che ci sia un posto da raggiungere! È incredibile; ho detto, ho scritto fiumi di parole, ma nessuno, dico nessuno, è stato capace di dirmi la verità, cioè che tutti hanno paura, che nessuno ci può aiutare, o meglio ci vuole aiutare… »
« No maestro, io, per esempio, e non sono il solo, ho cercato di mettervi in guardia, anche rischiando il mio bene e quello della mia famiglia. Ma voi non avete voluto darmi ascolto, avete sempre detto che era impossibile che potesse succedere quello che invece sta accadendo! Scusate lo sfogo, ma ora è tardi per potervi aiutare diversamente, se non annunciarvi l’imminenza dei fatti, per prepararvi… »
Ester si avvicina al marito scostandogli la mano dal braccio del soldato, afferrandolo a sua volta.
« Tenente Campini, lei può fare qualcosa per il nostro bambino? O è troppo tardi anche per lui? »
Campini si perde nel mare in tempesta degli occhi della donna, la voce musicale appena incrinata dalla paura di una madre.
Le prende la mano nella sua, accennando un sorriso impac­ciato.
« Sì, per il bambino penso di potervi aiutare, e non solo. Don Leto, un parroco mio amico, sta organizzando un ricovero segreto per bambini orfani e per… donne senza marito che stanno per partorire o hanno figli piccoli. Gli ho parlato, ed è disposto a prendervi con lui, madre e figlio… »
Lo sguardo del tenente si abbassa sulla pelle lucida dei suoi scarponi nel pronunciare le ultime parole, ma la sua testa si risolleva subito quando la voce di Ester risuona ferma nella sala.
« No, tenente, le ho chiesto cosa può fare per il bambino, non per me, il mio posto è con mio marito, qualsiasi cosa succeda. »
Gli occhi di Ester si posano di nuovo in quelli di Giorgio, che sospira rassegnato e si volta a guardare il militare.
« Faccia il possibile, tenente » gli dice, « tutto il possibile » conclude, serrando con forza la mano di Ester.
Campini sbatte i tacchi e si allontana a passo spedito, senza aggiungere altro.

La notte era il momento più difficile. Anni e anni ad affrontare i fantasmi nascosti nel buio, la fievole luce dell’abat-jour o quella imponente della luna piena incapaci di ricacciare indietro le ombre spietate in agguato; ombre corporee, forgiate nelle grida di dolore, nel pianto di uomini, donne e bambini, e nelle urla di altri uomini spogliati di ogni umanità, bestie feroci assetate di sangue e di anime impazzite dal terrore e dalla disperazione.
Ogni notte era per Giorgio una battaglia contro quelle ombre; una battaglia senza scampo per lui, ché da sveglio, oppure sconfitto dal sonno, veniva sempre circondato dalle immagini di morte. L’alba era l’unica liberazione, con la luce dell’universo a donargli quel poco di calore, infondendogli un barlume di forza per andare avanti, asciugandogli le lacrime. Ma fino al sorgere del sole, il rituale prevedeva la caduta nell’abisso, senza nessuna alternativa a quella di essere spinto a forza verso l’orrore.

I militari entrano nel camerone e gridano a tutti di scendere dalle panche e restare fermi in piedi. Qualcuno, Giorgio ne conta una decina, viene afferrato senza complimenti e trascinato fuori. Uno oppone resistenza e viene preso a manganellate e poi a calci sui fianchi e sul viso, e costretto a uscire strisciando tra le risate. Giorgio chiude gli occhi, respirando piano, pregando che nessuno si avvicini a sfiorarlo, a toccarlo.
Ma in quel luogo anche le preghiere silenziose suonano stonate. Una mano lo afferra per la spalla e lo spinge all’esterno senza complimenti, puntandogli il manganello sulle reni.
Il piazzale polveroso è ancora avvolto dagli ultimi respiri freddi della notte appena passata, e solo un pallido chiarore finge di contrastare il gelo. Giorgio scruta il muro che taglia in due il campo annusando l’aria alla ricerca di un profumo che non sente da mesi, quel profumo così intenso nel suo cuore che sarebbe in grado di dipingerlo se avesse gli strumenti necessari. Mentre cammina, si guarda le mani; calli e cicatrici si intrecciano sui palmi e sulle dita, fino a perdersi nel sudiciume nero delle poche unghie ancora intatte.
Il drappello avanza in direzione del profilo scuro della torre, che svetta nel grigiore perenne, un’enorme dito puntato al cielo intossicato dal fumo.
Più avanti trovano altri militari che li conducono all’esterno, i fucili pronti a sparare al primo accenno di fuga. In terra, cataste di vite rubate attendono immobili di essere cancellate del tutto dai badili.
Giorgio studia ogni volto spento, pregando di nuovo.
Forse all’aperto le sue preghiere avranno più forza, forse non resteranno inascoltate.
Un mano guantata afferra la pala e lo costringe a voltarsi. Il volto inespressivo fissa il suo numero di matricola e lo confronta con quello scritto su un foglietto.
Senza parlare l’uomo lo invita a seguirlo.
Giorgio esita, indugiando su tutti i volti che riesce a scorgere, studiando e pregando, poi si arrende e segue a capo chino il soldato.

« Buongiorno Campini, sapevo che sarebbe venuto » disse Giorgio invitando l’uomo a entrare nel soggiorno, indicando una poltrona.
L’uomo avanzò fermandosi davanti a uno dei quadri, come aveva fatto un pomeriggio di tanti anni prima. Di colpo, in evidente imbarazzo, si allontanò dalla parete e si sedette di peso.
Giorgio rimase in silenzio, in attesa.
« Maestro, Giulia mi ha detto che non vuole saperne della mostra… Comprendo benissimo il suo punto di vista, ma è un vero peccato, credo che la sua arte meriterebbe ben altro che gli sguardi ammirati dei pochi fortunati che sono potuti entrare qui in casa sua… »
La domestica entrò facendo tintinnare il vassoio con le tazzine.
Bevvero il caffè in silenzio. Nel posare la sua tazzina, il pittore sentì lo sguardo di Campini scendere sulla sua mano segnata dal tempo e dal destino.
Con un movimento rapido portò la sedia a rotelle davanti alla finestra, voltando le spalle al suo ospite.

Lo studio del capitano Schuster è caldo e accogliente. Giorgio scosta una tendina della finestra e resta ad ammirare il giardino, dove un giovane sempreverde vigila sulle piante addormentate dall’inverno. Oltre il vetro, giungono le voci ovattate di due bambini che giocano allegri e ignari, almeno lui lo spera, dell’inferno che alberga dietro la casa, a poche centinaia di metri.
Il rumore di una porta che sbatte lo fa sussultare. Il capitano gli indica la sedia davanti alla scrivania. Seduti l’uno di fronte all’altro, Schuster si accende un sigaro, mentre Giorgio attende in silenzio di conoscere il motivo per cui lo hanno condotto in quel luogo.
« So che lei è un bravo pittore, signor Sarti » gli dice il capitano dietro la nuvola di fumo.
Giorgio attende impassibile che l’uomo continui.
« Voglio che dipinga un quadro. »
« Un quadro? »
« Sì, voglio che realizzi un dipinto della mia famiglia. Verrà condotto qui ogni giorno, e saremo a sua disposizione per due ore, penso che saranno sufficienti… »
Giorgio sente che potrebbe essere l’occasione per chiedere uno scambio.
Si schiarisce la gola ma la mano dell’ufficiale è pronta ad ammutolirlo.
« In cambio lei sarà esonerato dai lavori nel campo, e avrà diritto a pasti caldi e all’igiene personale giornaliera. »
« La ringrazio ma io avrei un’altra cosa da chiedere, se posso… »
La mano batte con forza sul tavolo.
« Lei parla solo se glielo chiedo io, e fa solo quello che di-
co io! »
Giorgio abbassa il capo a fissare il parquet, mentre Schuster si alza.
« Vada, ora, ci vediamo domani qui alle dieci in punto. »
Con le gambe ancora più molli di quando è uscito nel piazzale all’alba, Giorgio si avvia verso la guardia in attesa sulla porta.
« Se dimostrerà di essere davvero un buon pittore, allora forse le concederò di fare altre richieste » conclude l’ufficiale, prima di lasciare lo studio.
All’esterno un debole riflesso cerca di penetrare la coltre di cenere che avvolge la terra. Giorgio attraversa di nuovo il piazzale, sforzandosi di non guardare il muro.
« Domani », pensa; « domani », prega.

Campini si avvicinò strascicando i piedi per farsi sentire. Giorgio parve ignorarlo mentre l’altro lo affiancava davanti alla finestra.
« Oggi il cielo è molto simile a quello del giorno in cui lei portò via i miei quadri » gli disse infine, seguendo le evoluzioni degli uccelli lungo le anse del fiume.
Campini scosse la testa.
« Non ricordo com’era il cielo quel giorno, ma ricordo la disperazione nei suoi occhi, e in quelli di Ester… »
« Sì, era esattamente tre giorni prima che lei tornasse qui, dopo aver nascosto i quadri, per dirci che sarebbero venuti a prenderci l’indomani… »
Il silenzio che seguì l’ultima frase imbarazzò Campini al punto da farlo allontanare dalla finestra.
Scivolò verso la parete di destra guardando di sfuggita i di­pinti.
« Ester avrebbe voluto che lei autorizzasse la mostra » sussurrò alla fine.
Giorgio si voltò a fissarlo, senza guardarlo veramente.
« Lei crede, Campini? Io non lo so cos’avrebbe voluto, io non so più niente. »
L’uomo sospirò guardando l’orologio, poi gli porse la mano.
« Buonasera maestro, spero vivamente che ci ripensi » disse congedandosi.

Prima di lasciare la loro casa, Ester e Giorgio si voltano verso la stanza spoglia. Sulla carta da parati, grigie ombre squadrate conservano la memoria dei colori inebrianti che sono stati strappati alla luce e condotti nel buio.
Nell’uscire dalla porta, alzano la testa a salutare Campini. Questi resiste solo qualche secondo prima di abbassare il capo, incapace di sostenerne lo sguardo.
Come pochi giorni prima, quando Ester aveva stretto per l’ultima volta tra le braccia la sua bambina, prima che don Leto la portasse via. Anche allora lui non era riuscito a guardarli negli occhi. Ma sapeva ciò che avrebbero voluto dirgli, sapeva che quei volti esprimevano due parole silenziose: gratitudine, speranza.

Giorgio attese l’uscita di Campini, poi andò in camera e si avvicinò a un armadio. Aprì lo sportello e armeggiò con la cassaforte nascosta all’interno. Portò il quadro nel punto più luminoso del soggiorno e rimase fermo a guardarlo, lasciando che la memoria scavasse liberamente nella sua anima.
Era quasi buio quando sistemò di nuovo il quadro nel nascondiglio. Richiuse con cura lo sportello e prese a girare in tondo nella camera.
Fuori, da qualche parte, risuonò il fischio di un treno.
Giorgio si portò i palmi alle orecchie, e si preparò ad affrontare un’altra notte. Ombre e voci.

Il treno è tale solo per l’aspetto esteriore. All’interno, gli occhi ammassati di uomini, donne e bambini, sono rossi come quelli degli agnelli condotti al macello.
Giorgio stringe forte le mani di Ester, che gli tiene poggiata la testa sul petto, incapace di fronteggiare l’incubo che li circonda.
Restano così per tutto il viaggio, dormendo in piedi, sordi alle lacrime, ai singhiozzi, all’odore di sudore e di escrementi. Occhi chiusi e cuore spento, l’unica maniera di sperare di arrivare a destinazione, qualunque essa sia, senza impazzire.
Giorni e giorni di attese e di stenti, restando uniti come non mai, finché il treno si ferma del tutto, e con esso la speranza.
Giorgio urla disperato il nome di Ester, scomparsa in mezzo a una fiumana di corpi. Anche lei lo sta chiamando.
La sua voce continua a raggiungerlo, anche dopo che il piombo del cielo gli pervade mente e cuore. Una voce che lo chiama notte e giorno, attraverso la neve, attraverso muri e filo spinato, attraverso mucchi di corpi inerti. Senza smettere mai.

Giulia era raggiante. « Hai fatto bene ad accettare, papà! Vedrai, sarà un grande successo, ho già iniziato a parlare con i critici, anche loro non stanno nella pelle. »
Giorgio le accarezzò una mano mentre se la portava al viso. « Vederti così felice mi riscalda il cuore, ragazza mia. È per questo che mi sono deciso. Avresti potuto tenere la mostra anche dopo che io me ne sarò andato… ma in tal caso non avrei mai potuto vedere la tua gioia. Sì, Campini aveva ragione, tua madre avrebbe voluto così… »
Giulia si rabbuiò alcuni istanti a quelle parole e si allontanò dal padre.
« È un peccato che non ci sia nemmeno un dipinto di mamma, lo avrei messo al centro della sala! »
Il padre trasalì e girò la sedia per non mostrarle l’emozione improvvisa.
« Mi sento un po’ a disagio » le disse dopo essersi calmato. « È da così tanti anni che i miei quadri non lasciano questa casa, da quando Campini me li riportò, da quel giorno in cui ho potuto finalmente prenderti in braccio di nuovo. Eri così piccola, e io ero così solo… »
Giulia lo abbracciò.
« Sono sicura che lei ti ha aiutato a crescermi in qualche modo. »
« Sì Giulia. La sua voce, il suo viso, il suo profumo non ci hanno mai abbandonato. Vieni, andiamo sul balcone, c’è un bel sole oggi. »

I bambini sono graziosi, i due più grandi sorridono con la sincerità e la purezza dei cuori che ancora non sono stati toccati dal morbo diffuso sulla terra degli uomini. La più piccola è avvolta dalle braccia amorevoli della madre, e osserva il mondo oltre la tela allungando una mano grassoccia come per afferrarlo. Giorgio si chiede se Giulia un giorno potrà ricevere di nuovo l’abbraccio di sua madre. Sono mesi che se lo chiede.
Schuster contempla soddisfatto il dipinto, lasciandosi sfuggire un’occhiata di ammirazione rivolta all’autore.
Infine si siede e resta in silenzio. Giorgio aspetta, il cuore che martella veloce.
« Mi dispiace » dice infine il capitano, un’ombra di sincera comprensione negli occhi. « Ho avuto oggi il risultato del controllo che mi ha chiesto. Sua moglie è morta. »
Giorgio vorrebbe urlare, saltare sul quadro e farlo a pezzi, strappare la pistola di Schuster dalla fondina e infilargliela in gola. Ma si limita a sussurrare.
« Quando? » gli chiede.
« Il giorno dopo il vostro arrivo al campo » risponde l’ufficiale con la voce ancora più flebile di quella di Giorgio.
Lui pensa di chiedere come sia accaduto, ma non ci riesce.
« Ne è sicuro? » prova invece a suggerire.
L’altro annuisce, e si alza.
« Se vuole » dice uscendo con il quadro sotto braccio, « può restare qui o uscire in giardino, se preferisce. Dirò ai miei uomini di aspettare il suo ordine prima di essere riaccompagnato al campo. »
Giorgio guarda la tavolozza e i colori.
« Posso prendere una tela e il materiale avanzato? » gli chiede con la voce strozzata.
« La farò aiutare a portare via tutto, signor Sarti. Grazie, e addio. »
Nel giardino i fiori variopinti danzano intorno al sempreverde, sospinti da una brezza tiepida.
Giorgio ne annusa il profumo prima di allontanarsi, voltando le spalle a quella primavera di morte.

La notte prima della mostra Giorgio accese tutte le luci della casa. Lasciò la cassaforte aperta e si sistemò accanto alla finestra del soggiorno, il quadro appeso alla parete nel punto che l’alba avrebbe raggiunto per primo. Si avvolse una coperta sulle spalle e restò a guardare le lame di luce che ricacciavano oltre il vetro ombre e sussurri.
Sorrise al pensiero di Giulia, quando al mattino avrebbe visto il quadro. Il tepore della coperta e quello del suo cuore gli donarono una sensazione nuova, o forse dimenticata. Lasciò che il caldo abbraccio gli percorresse tutto il corpo, mentre dolci ricordi iniziavano a danzargli intorno. Il buio scomparve del tutto e l’aurora lo accarezzò insieme alle mani di Ester. « No » le disse, alzandosi in piedi, « non ci saranno altri inferni, non più. »
Le passò un braccio sulle spalle e si voltò con lei a guardare il sorgere del sole.

È la prima volta che Giorgio nota il sole in quel luogo.
Guardando in alto il cielo sembra lo stesso che aveva ammirato l’ultima volta a casa sua. Il grigiore perenne sembra essere fuggito insieme ai soldati. Anche i volti dei suoi compagni hanno acquistato colore.
Zoppicando nel piazzale, con la cornice stretta sotto il braccio e avvolta in un panno lurido, cerca di non guardare il muro. Ma prima di arrivare al cancello aperto non resiste e si ferma. Per un attimo pensa di andare dall’altra parte in cerca di qualcosa che sa essere perduto.
Alla fine si arrende e si lascia spingere dalla folla. Non ci sono più preghiere ormai, ma solo la piccola speranza di rivedere sua figlia, nell’alba che verrà.

Prima ancora di notare il quadro Giulia restò interdetta davanti alle luci accese e alla cassaforte aperta.
« Papà, ma cos’è quella? Perché è tutto acceso? Dove sei? »
Colta dall’ansia per il silenzio, lasciò la camera e raggiunse il salone. Lo vide seduto al suo posto preferito, di spalle. Mentre avanzava a grandi passi un raggio di sole le ferì gli occhi facendole voltare la testa di lato. La luce illuminò il quadro e Giulia restò senza fiato.
Indietreggiò verso la finestra, tenendo gli occhi incollati al dipinto.
« Papà, è bellissimo… » sussurrò con le lacrime agli occhi. « Papà… »
Negli occhi di Giorgio Sarti non c’erano segni di lacrime, e un leggero sorriso gli attraversava il volto immobile.
Giulia si inginocchiò accanto al padre, stringendogli le mani gelide.
Quando riuscì finalmente a smettere di piangere, si rialzò e spinse la sedia a rotelle fino al quadro.
Ester li fissava sorridendo, come nelle poche foto in bianco e nero che la ritraevano… Tra le braccia teneva una bambina di pochi giorni, con le manine strette intorno a una ciocca dei capelli della madre. Dietro di loro, l’alba tingeva di rosa il cielo e il fiume sullo sfondo.
Giulia girò il quadro e riconobbe la firma dell’autore, seguita da altre righe quasi illeggibili.
Dopo averle decifrate, ripose il dipinto al suo posto e accarezzò la guancia del padre; poi, sforzandosi di ricacciare indietro il pianto, si schiarì la voce e si decise ad avvicinarsi al telefono per chiamare qualcuno.

Il camerone è buio, solo la flebile luce di una candela a rischiarare il dipinto. Giorgio accarezza piano i due volti, immergendosi in suoni e profumi che appartengono a un tempo e a una vita ormai perduti. Volta il quadro per controllare che la cornice di fortuna sia stabile, poi prende un carboncino e lo poggia sul legno.
Dopo la sua firma, scrive in stampatello le parole “data”, “titolo” e “luogo”.
Della data non è sicuro, ma mese e anno basteranno, pensa. Sul titolo non ha dubbi, non possono essercene degli altri.
Il nome del luogo lo conosce bene, ma ritiene che non sia sufficiente. No, non va bene. Chiude gli occhi e ripensa a tutto quello che ha visto e sentito da quando lui ed Ester sono stati portati via dalla loro casa e alla fine annuisce in silenzio e scrive, prima di spezzare il gessetto.

La mostra venne inaugurata un mese dopo il funerale.
Una folla di persone – esperti, curiosi, artisti – restò affascinata dall’arte di Giorgio Sarti. Ma il più ammirato di tutti, nel corso della mostra, era stato il dipinto posto al centro della sala. Il primo giorno, subito dopo l’apertura, Campini strinse a lungo la mano di Giulia nella sua; la ragazza si fece forza e dopo un breve discorso tolse l’ultimo velo. Sotto i volti radiosi di Ester e Giulia, era stata apposta, protetta dal vetro, la parte posteriore della cornice originale, sulla quale ogni visitatore si soffermò quasi in preghiera:
Giorgio Sarti
data: Aprile 1945
titolo: L’alba che verrà
luogo: L’inferno, da qualche parte

Nel silenzio del dormitorio, Giorgio avvolge il quadro nel panno e lo nasconde.
Si stende sul giaciglio e chiude gli occhi, lasciando che la candela morente si consumi da sola, prima che giunga l’alba a spegnerla del tutto.