6 Marzo 2020

La notte dei miracoli

di Francesca Ramacciotti

da I luoghi e i misteri dell’arte,
antologia della Seconda edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.

Non riuscivo più a guardarmi le mani. Erano un segno troppo evidente del mio fallimento.
Quando dipingevo, per quanto me le lavassi accuratamente, filamenti di colore si incuneavano sotto la pelle trasparente all’attaccatura delle unghie e le dita emanavano un sentore di trementina, lieve ma persistente.
Ma ora che avevo preso una decisione definitiva, tutto quello che poteva farmi male era gradito, anzi rafforzava il mio proposito. Quindi sollevai le mani per intercettare il flusso di luce che attraversava il finestrino del treno. Erano morbide, odorose di sapone, le unghie rosate e pulite.
Avrebbero fatto la loro figura, incrociate sul mio petto, nella bara.
Lucia amava le mie mani da pittore, un po’ screpolate dai solventi, macchiate di colore.
“Sono la tavolozza del tuo corpo” mi diceva, annusandole avidamente per poi passarsele sul volto.
Ricordai il suo sguardo mentre le comunicavo che mi sarei trasferito a Milano. E mi fece più male delle mie mani curate.
“Sarà solo per qualche mese. Non posso perdere questa occasione.”
I suoi occhi non palesavano nessuna emozione ma ero certo che lo vedesse come un addio.
“È una piccola galleria. Ma è un trampolino di lancio. Può procurarmi contatti importanti. Sai bene che qui a Barletta non ho nessuna possibilità di sfondare.”
Anche Lucia era un’artista. Una fotografa piena di talento e sensibilità. Ma non era interessata al successo. Lo faceva per passione, il suo stipendio di insegnante delle elementari le bastava, adorava i suoi alunni e i bambini del reparto pediatrico dell’ospedale, dove prestava assistenza come volontaria. Sapevo che non mi avrebbe mai seguito.
“Siamo felici, qui. Puoi venire a stare a casa mia, così risparmiamo il tuo affitto. E vendere l’appartamentino che era dei tuoi, a Pisa, tanto non ci vai mai.” Il suo tono era persuasivo ma non appassionato. Non cercava mai di imporsi. Solo di convincere con garbo, come faceva con i suoi bambini. “Riesci sempre a vendere qualche quadro, in fondo, e abbiamo il mio stipendio.”
Qui si fermava. Non diceva “Non ti basta?”. Sarebbe stato troppo indelicato per una persona rispettosa degli altri come lei. Ma quella domanda era ancora più pesante, senza essere pronunciata.
Aleggiava angosciosa nell’aria come uno spettro tormentato.
“Sono un artista, Lucia. Ho bisogno di far conoscere i miei dipinti, di trovare consensi, di sentirmi in grado di comunicare qualcosa alle persone.” Lei chinava il capo. “Ne ho bisogno più che di mangiare, più che di respirare…” mi fermavo. E quel “più che di te…” che non dicevo era l’altra frase inespressa che rendeva incolmabile la distanza fra Milano e Barletta.
Così ero partito. Ci eravamo sentiti, i primi tempi. Era anche venuta all’inaugurazione della mia prima mostra.
Ero stato felice di vederla, nel suo vestitino semplice, in contrasto con l’abbigliamento sofisticato delle signore milanesi, che ridevano un po’ stridule e parlavano con voci acute. Sembrava un passero fra sgargianti pappagalli.
Avevo anche provato a presentarla a qualcuno, dicendo che era una fotografa di talento, cercando di inserirla in qualche conversazione. Ma lei si era messa in disparte, sfogliando il catalogo e guardando da sola i quadri che ben conosceva. Che avevo dipinto con lei al mio fianco, mentre annusava il mio odore di trementina.
Mi ero leggermente irritato, per quel suo atteggiamento asociale. Avevo degli obblighi verso gli altri presenti, non potevo dedicarmi solo a lei, insomma! La proprietaria della galleria mi aveva pilotato con gentile fermezza verso potenziali clienti e probabili sponsor. Non l’avevo neppure vista andarsene. Non meritava che la chiamassi per invitarla a cena con noi, mi convinsi, mentre mi recavo in un ristorante alla moda, insieme a un gruppetto di bella gente, al braccio di una signora dai capelli fluttuanti e platinati che mi si rivolgeva con grande cordialità, pur non avendomi mai visto prima.
La vita in una grande città è un gorgo senza fondo da cui ci si lascia inghiottire volentieri. Magari con qualche iniziale riluttanza, placata però dalla convinzione che se ne possa sempre venir fuori.
Non era stato così. Dopo un inizio folgorante, quadri venduti, recensioni entusiastiche, cene eleganti e donne ricche e attraenti che facevano a gara per avermi nei loro letti, c’era stato il declino. Lento ma progressivo. Inspiegabile. I proprietari delle gallerie che prima mi contendevano, trovavano pretesti, si negavano al telefono. Gli sponsor adducevano la crisi economica, le sedicenti amicizie e le donne platinate si erano dileguate, semplicemente, ai primi, inconfondibili sentori di sfiga.
Inizialmente avevo continuato a dipingere, con l’ostinazione di chi ha sfiorato il successo e non intende accontentarsi di meno. Ma mi rendevo conto che nei miei quadri non c’era più quello spirito che li animava, che li rendeva particolari, che faceva uscire i volti o i luoghi dalle tele, portandoli nell’animo di chi li guardava. La mia ispirazione si era diluita nell’effimero della vita brillante come i colori nella trementina. I soldi accumulati e largamente spesi si erano assottigliati rapidamente.
Avevo lasciato il costoso studio in centro e mi ero adattato a dipingere in casa. Poi anche l’affitto dell’appartamento era diventato insostenibile. Alla fine mi ero arreso.
Avevo radunato il poco che mi era rimasto in un’unica valigia e preso il treno per Pisa, dove mi restava almeno un tetto sulla testa, l’appartamentino sui lungarni. Mio padre, bancario, era stato trasferito a Pisa quando io avevo già vent’anni. Mi ero rifiutato di lasciare Barletta e i miei se ne erano andati senza di me, affidato al controllo distratto di una vecchia zia. Erano morti da diversi anni, ma qualcosa mi aveva sempre impedito di affittarlo. Alla luce della situazione attuale era stato un bene. Anche se ci sarei rimasto per poco. Potevo sopportare di non avere più soldi, amici, donne.
Di aver perso l’amore. Persino di non aver più successo come artista. Ma non di non riuscire più a dipingere. I quadri erano la mia anima. E senza l’anima un uomo è solo un involucro senza scopo.
Dalla stazione ai lungarni la strada è dritta e traversa il centro. Feci corso Italia a piedi, guardando senza interesse i negozi, i capannelli di giovani, le vie traverse che svelavano qualche scorcio medievale. Dal Ponte di Mezzo l’Arno, dopo le recenti piogge, appariva scuro e ingannevolmente calmo come i miei pensieri. Mi infilai nel portone svelto e furtivo, come un ladro. Salii le scale in pietra serena resa nera dal tempo, coi gradini consumati.
Aprii tutte le finestre, sia per sfumare nell’aria arrossata dal tramonto l’odore di chiuso, sia per guardare il fluire del fiume, disperdendovi i miei pensieri. A Barletta lo facevo guardando il mare, lungo il molo che si protendeva nel porto. Ma anche qui l’acqua che scorreva manteneva il potere di rilassarmi.
“Devo solo decidere il modo.” Potevo ricorrere ai sonniferi. O affidarmi alla corrente del fiume. O tagliarmi le vene. Nemmeno il pensare al mio suicidio mi dava emozione. Rassegnato chiusi le finestre e sprofondai la mente e le membra nell’oblio del sonno, di traverso sul letto che era stato dei miei genitori.
Mi svegliai alle due di mattina. D’improvviso, come se qualcuno mi avesse chiamato. Aprii la finestra, respirando con voluttà l’odore della notte. L’acqua rifletteva le luci della città, tremolanti come fuochi fatui. Per un attimo ebbi l’impulso di immortalare quell’immagine dei lungarni in un quadro. Un quadro che avrebbe restituito a chi lo guardava il profumo umido dell’aria notturna. Ma ormai non ero più capace di mettere il mio spirito in ciò che dipingevo. Guardare un mio quadro avrebbe dato le stesse emozioni di una sfuocata istantanea.
“Ci vorrebbe un miracolo.” Chiusi la finestra.
Quella parola esercitò su di me una sorta di richiamo. Sentii il desiderio di rivedere la piazza, il miracolo della torre pendente. Esitai un attimo, poi presi il flacone che avevo riempito di pillole di sonnifero, pazientemente messe da parte, ricetta dopo ricetta. Uscii di casa senza nemmeno darmi un’occhiata allo specchio o sciacquarmi il viso. Atti inutili per chi ha già rinunciato a vivere.
Mi tirai su il bavero del cappotto, incassando la testa nelle spalle. L’Arno espirava un alito di foschia che si insinuava nei pori raggiungendo le ossa. Mentre camminavo per le strade deserte, mi sentivo diventare a ogni passo sempre più parte della notte. La torre mi si parò davanti, con la sua pendenza ammiccante. Il prato umido lacrimava sulle mie scarpe, attutendo i miei passi. I miei occhi seguirono gli intagli dei monumenti che disegnavano figure, animali, fiori, innalzando guglie, profilando archi. Proseguii verso le mura del camposanto, camminando sfioravo con la mano il susseguirsi degli archi ciechi, come quando da bambino mio padre mi faceva camminare sui muretti, sostenendomi per il braccio mentre mi divertivo a toccare ogni paletto di ferro che formava la recinzione.
La torre, il duomo e il battistero, nel silenzio della notte, erano luminescenti, come spettri. La foschia isolava la piazza, facendone un rifugio fuori dal tempo.
“È un bel posto per morire” pensai. Solo, fra quelle reliquie del passato, mi sentivo già un fantasma. Sarebbe bastato così poco a varcare il confine. Misi la mano in tasca, toccando il flacone.
Qualcuno mi urtò, passandomi rapido a fianco e interrompendo quell’incantesimo dal fascino mortale.
« Scusi » disse una voce femminile. Un profumo di glicine mi investì, portandomi indietro di tre anni. In un giardino chiazzato di sole, con una tavola apparecchiata da una tovaglia candida, come nel mio quadro preferito, quello che fin da bambino mi aveva fatto decidere che sarei diventato un pittore.
« Non è possibile… » guardai la figura che si stava allontanando, a piccoli passi rapidi. La rincorsi.
« Lucia! » Sotto il foulard tenuto fermo con le mani, riconobbi il volto dell’unica donna che avessi amato. « Ma che ci fai qui? A quest’ora, poi? »
« Sono solo di passaggio. Domani me ne vado. Ero a una festa. » Lasciò ricadere il foulard sulle spalle.« Sai che odio le feste. Ma a questa non potevo mancare. »
Lucia a Pisa. Di notte. Sola. Di ritorno da una festa. Non andava mai alle feste.
Tutto questo era irreale, come l’atmosfera incantata che quella piazza evocava.
Guardai il suo volto, diafano. Solo la cornice di capelli neri impediva che si confondesse col pallore tombale della torre alle sue spalle.
« Sei bellissima… » mormorai, attonito. Ero sincero. Lucia era sempre stata molto carina. Ma la magia della piazza aveva fatto un altro miracolo, in quella notte stregata. Le aveva regalato una bellezza che, in passato, Lucia aveva solo sfiorato.
« Ma è tardi… Non è pericoloso che tu rientri a piedi, da sola? » Non capivo perché lei non apparisse minimamente turbata. Né dall’avermi incontrato dopo tre anni, né dalla particolarità delle circostanze.
Alzò una spalla, in un gesto che le era abituale e che mi provocò una fitta acuta di rimpianto. Per una familiarità conosciuta ma irrimediabilmente persa.
« Sto in un alberghetto qua vicino. Devo solo traversare la piazza. » Mi guardò. « Tu, piuttosto. Come mai sei a Pisa? Non ti è mai piaciuta. Dicevi che ti aveva portato via i tuoi genitori… »
Un folla di possibili risposte mi premevano sulle labbra. E nessuna era quella giusta.
« Ho lasciato Milano » mi limitai a dire. Perlomeno non era una bugia. Non potevo dirle la verità ma non volevo mentirle.
Nessuno meglio di lei poteva capire che in quella frase era contenuto tutto il mio fallimento professionale.
Annuì. E non mi chiese perché allora non ero tornato a Barletta. Ci avevo contato. Lei non faceva mai domande indiscrete.
Mi prese le mani. Morbidamente bianche, solo larve spettrali di quelle che un tempo erano le mani di un pittore. Ora non erano più la mia tavolozza ma solo la mia definitiva confessione. Vidi una tristezza incalcolabile dipingersi sul volto di Lucia, mentre le guardava.
Non se le passò sul viso. Anche se lo avrei desiderato più di ogni altra cosa. Anche più del successo, stavolta. O di farla finita.
« Devo andare… » Lasciò ricadere le mie mani. Si riportò il foulard sui capelli, in un gesto di congedo.
« No, no… » La trattenni per la manica del cappotto. Il ricordo delle sue mani sul mio viso, sul mio corpo, mi aveva fatto capire che c’era ancora qualcosa che mi legava alla vita. Qualcosa che avevo sottovalutato ma che non intendevo più lasciare andare.
« Ti prego, rimani. O almeno consentimi di riaccompagnarti in albergo. Non voglio che tu cammini da sola, di notte. »
« Sono già quasi arrivata, te l’ho detto. » Parlava senza guardarmi. « Non possiamo più cambiare le cose. Lasciami andare, Giuseppe. »
Trasalii, sentendomi chiamare col mio nome. Lei usava sempre il vezzeggiativo, Pino. Fu quello, più delle altre frasi che aveva detto, a farmi comprendere che era finita.
Pure non mi arresi. « Lucia… » Pronunciai il suo nome con un’intensità tale di sentimenti che lei alzò gli occhi su di me. Bastava il modo con cui l’avevo detto a farle arrivare il dolore, le scuse, i rimpianti. E l’amore.
Percepii la sua esitazione. E capii che mi voleva ancora bene.
« C’è niente che possa fare per non perderti ancora? » Stavolta fui io a prenderle le mani. Erano smagrite. Riconobbi l’anello di argento antico che portava sempre. Le ciondolava un po’.
« Ti prego, non partire. Resta con me. » Pensai ai suoi bambini, al mio egoismo. « Oppure partirò io con te. Torniamo a Barletta. Venderò questa casa. Troverò un lavoro e vivremo assieme. Come hai sempre voluto. Come ora ho capito di volere anch’io. »
« È troppo tardi… » Non c’era rimprovero, nella sua voce. Solo un’infinita tristezza.
Capii che era inutile. Annuii. Le lasciai le mani e mi tirai su il bavero del cappotto. Era il mio gesto di congedo. Da lei, dalla vita. Volevo che se ne andasse, per tornare nella terra di confine fra uomo e fantasma. E per varcarla.
« Aspetta… » Il tono quasi vivace della sua voce mi stupì. Era insolito in lei. “Ti propongo un accordo. Io rimarrò qui. A una condizione. Tu dovrai dipingere un quadro per me. Ci ritroviamo qui fra una settimana. Se il dipinto mi piacerà, ne riparleremo.”
Feci un sorriso amaro. « Non dipingo più, Lucia. So che lo hai capito. Ti ringrazio per questo tentativo. Ma è impossibile. »
« Come vuoi. Hai detto che non c’era niente che non avresti fatto purché restassi. Io ti chiedo di dipingere per me. Non ti ho mai chiesto di fare qualcosa per me. »
“Se è vero che mi ami fallo adesso” pensai. Non le aveva pronunciate quelle parole. Ma, come sempre fra noi, era il non detto ad avere un peso maggiore.
Mi dondolai sulle gambe, spostando il peso del corpo prima su un piede poi sull’altro.
« Va bene. Ci proverò. Per te. »
Sorrise appena. « Ci troviamo qui fra una settimana. Stessa ora. Non cercarmi. Lavora. Io ci sarò. »
La guardai camminare rapida nella notte, finché non fu inghiottita dalla foschia.
Il giorno dopo andai a comprare l’occorrente per dipingere. Avevo già deciso che il soggetto del quadro sarebbe stato l’Arno di notte, brulicante di luci. Era stato il primo impulso a dipingere che avevo avuto da mesi. Un dono di quella notte dei miracoli che mi aveva restituito anche Lucia e la tentazione di tornare a vivere.
Dormivo di giorno e lavoravo quando il sole calava. Ero stato conquistato dal fascino della notte, ero una sua creatura, come un vampiro. Una parte di me capiva che questo dipendeva dal non essermi staccato dall’idea della morte, con cui l’oscurità idealmente si identificava. Ma dipinsi con una certa scioltezza, incredulo di me stesso. E tutte le volte che avrei voluto gettare il pennello, il quadro e magari me stesso nell’Arno beffardo, che non si lasciava ritrarre, pensavo al volto pallido e bellissimo di Lucia, la bocca semiaperta, come pronta al bacio.
Mi parve buono, il quadro, una volta finito. Ma ero consapevole che l’emozione di essere riuscito a dipingere ancora, annullava la mia oggettività. Lo avvolsi in una tela impermeabile con la cura e l’emozione con cui una novella madre veste il suo bambino per portarlo fuori la prima volta in carrozzina.
Mi sembrò che la torre mi salutasse, nel suo inclinare il lungo collo. L’odore dell’erba e la luminosità rarefatta della piazza mi catturarono nuovamente. Vidi una sagoma stagliarsi contro gli archi ciechi delle mura del camposanto e l’ultimo, angoscioso dubbio scomparve. Lucia era venuta all’appuntamento.
Volevo darle un bacio sulla guancia perlacea ma si tirò indietro ancor prima che ci provassi.
« Vediamo il quadro » disse, con impazienza.
L’emozione che provavo mentre toglievo la tela compensò la delusione per la sua ritrosia.
Lucia studiò la tela attentamente. Io ero sospeso fra l’ansia e un esitante orgoglio.
« È ben fatto. » Il tono era piatto. « Ma non sento l’odore dell’acqua. Il freddo calore delle luci riflesse. L’umidità della notte. » Mi guardò. « Amavo i tuoi quadri perché riuscivano a trasmettermi non solo quello che avevi visto. Ma quello che avevi provato, respirato, odorato, mentre li dipingevi. » Scosse la testa. « È bello. Ma non sento niente. »
L’angoscia mi si insinuò addosso come il vento pungente.
« Non ti piace. Questo vuol dire che te ne andrai? » Perderla ancora era più difficile da sopportare del mio ennesimo fallimento pittorico.
« No. Aspetterò ancora un po’. Forse hai bisogno di altro tempo. Riprovaci. Ci ritroviamo qui fra una settimana. »
Mi sembrò che la voce le tremasse. La guardai con attenzione. Il suo volto era sempre bello, ma troppo pallido, quasi esangue, gli occhi lucidi come per la febbre.
« Lucia, stai male? » Tesi la mano verso di lei ma si ritrasse, scuotendo il capo. Non seppi capire se per negare il malore o a significare che non voleva esser toccata.
« Ci vediamo fra una settimana. » Se ne andò, senza salutare.
Questa volta scelsi di dipingere il sole che tramontava, tingendo di tutte le tonalità di rosso la torre della Cittadella, che si ergeva verso il mare. Continuavo a lavorare anche la notte ma non dormivo più tutto il giorno. Dovevo dipingere mentre il sole tramontava per poter far penetrare nel quadro le sensazioni che mi dava. Mi spinsi fino a fare delle passeggiate sui lungarni. La proprietaria del negozio di alimentari dove compravo le poche cose da mangiare mi salutava ormai cordialmente.
Una ragazza a cui avevo tenuto aperto il portone del mio stabile mi aveva sorriso, guardandomi con curiosità. Un vecchietto mi aveva chiesto l’ora. Senza rendermene conto mi stavo riabituando alla gente.
Mentre coprivo il quadro con il solito telo, prima di recarmi all’appuntamento notturno, lo confrontai col primo, colmo di grigi e di blu. Questo invece era un trionfo di gialli e di rossi. Forse stavolta a Lucia sarebbe piaciuto.
Era una notte di luna piena. Lei era appoggiata al muro del camposanto, un’ombra nell’ombra degli archi. Trattenni il respiro senza accorgermene, mentre lei lo guardava, a lungo.
“È un buon segno” pensai. La volta precedente aveva detto subito che non le era piaciuto.
Lei mi guardò, ancora dubbiosa. « È bello. E stavolta sento un’emozione. Lo stupore. » Si fermò, per cercare le parole. « Lo stupore di chi si accorge che è ancora attaccato a qualcosa. O a qualcuno. »
Poi tese le mani verso il quadro, come un vecchio freddoloso verso il fuoco dentro il camino.
« Ma non scalda. Non emana calore. Non ci siamo ancora, Pino. »
Forse il mio quadro non l’aveva scaldata. Ma sentirla chiamarmi Pino aveva scaldato me. Mi chinai a baciarla sulle labbra. Non si ritrasse stavolta, e sentii fremerle in una timida risposta. Ma fui io a staccarmi: erano fredde come il marmo. Mi accorsi che aveva occhiaie livide. La pelle sembrava quasi trasparente, come se faticasse a contenere la spinta degli zigomi.
La strinsi a me, per trasmetterle il calore del mio corpo. Le misi le mani gelate dentro le tasche del mio cappotto.
« Tu non stai bene. E vieni qui di notte, al freddo, per colpa mia. Ti prego, torniamo a casa. A Barletta. Sono pronto, ora. E lo sei anche tu. »
Si staccò, a fatica.
« Non ancora. Un ultimo quadro. Per me. Dopo saremo entrambi pronti per affrontare il nostro cammino. » Mi prese le mani. Sorrise nel vedere la pelle, dove i filamenti rossi di colore parevano sostituirsi ai capillari, come se l’amore per le pittura fosse tornato a circolare nelle mie vene insieme al sangue. Se le portò al viso, carezzandosi le guance scavate.
Quel gesto, così intimo, mi rese subito accondiscendente. Se avessi dipinto un quadro che le fosse piaciuto non avevo più dubbi che sarebbe tornata con me.
« Va bene, amore. Qui fra una settimana? » Ero impaziente come un bambino. Non vedevo l’ora di tornare a casa a dipingere, sapevo già che cosa. E che sarebbe stato come lei voleva.
Annuì, con un sorriso indulgente. Conosceva quei miei impulsi appassionati, da artista.
« Sei quasi tornato quello che eri. Un ultimo sforzo. Dopo troverai la tua strada. »
« Vorrai dire la nostra strada… » precisai con un sorriso.
« Sì. Anch’io troverò la mia strada. » Mi carezzò con la mano, prima di andarsene.
Non dipinsi soltanto, quella settimana. Tornai a vivere. A scoprire quanto fosse frizzante l’aria della mattina. A sorridere alle persone per strada, solo perché mi faceva piacere avere gente intorno.
A fare la spesa al supermercato, scambiando qualche commento con la cassiera sulla crisi e l’aumento dei prezzi. E a pensarmi a Barletta, nel giardino della casa di Lucia.
Proprio quel giardino era il soggetto del mio quadro. Con i glicini che si riversavano sul muro di cinta come profumate onde lilla. Col generoso sole della Puglia che faceva brillare il verde dell’erba. E con Lucia, sotto un albero, bella e radiosa come mi era apparsa la prima notte. Quella notte dei miracoli dove avevo cercato la morte e ritrovato la vita. C’era il mio spirito in ogni singolo frammento di colore. Si poteva sentire il profumo del glicine, la carezza del sole, l’amore per la mia donna.
Ero euforico quando arrivai, un po’ in anticipo, al muro del camposanto. Tolsi il telo dal dipinto e lo appoggiai alla parete, in modo che Lucia potesse già vederlo, mentre si avvicinava. Come se camminasse verso il suo vero giardino, verso il nostro nuovo futuro.
Ma Lucia non venne.
Pazzo di dolore e di angoscia, alle sette di mattina cominciai a battere tutti gli alberghi e le pensioni delle vicinanze, cercando sue notizie. Nessuno aveva mai sentito il suo nome. Il suo cellulare, ammesso che il numero fosse sempre quello che non chiamavo da tre anni, era staccato.
Non mi restava che tornare a Barletta. Presi solo qualche soldo e il quadro. Anche se Lucia ci avesse ripensato, sarebbe tornata con me, nel vederlo.
Il lungo e improvviso viaggio sarebbe stato tremendo se non l’avessi trascorso in uno stato di semi incoscienza per l’ansia, la stanchezza e l’incredulità.
La prima cosa che riconobbi fu l’odore del mare, salato come il gusto che mi lasciò sulla lingua.
Chiamai un taxi, per arrivare presto davanti al giardino di Lucia, ispiratore del quadro che era stato il mio paziente compagno di viaggio. Tutto sembrava immutato, anche se il tavolo in ferro battuto non era apparecchiato. Mentre il taxi ripartiva, vidi muoversi una tendina. Pochi secondi dopo Ada, la sorella di Lucia, uscì dalla porta d’ingresso, venendomi incontro.
« Giuseppe! » La sua espressione era stravolta. « Sei tornato… hai saputo, allora… »
« Dov’è Lucia? » chiesi, guardandola senza vederla. Solo per educazione mi trattenni da spingerla da parte ed entrare in casa.
« Lucia? Ma non hai saputo quindi… » I suoi occhi si velarono. Prima di dolore. Poi di risentimento.
« Se sei tornato per lei, direi che sei in ritardo. Lucia è morta. » Si prese il volto fra le mani.
« Morta? » Ripensai alle sue labbra gelide, al suo respiro corto, alle occhiaie scure. « Era malata, quindi? » chiesi, attonito.
Le mani mi si aprirono. Il quadro, ormai inutile, cadde per terra.
Ada strinse le labbra. Poi sospirò.
« Dai, vieni dentro » disse, raccogliendo il quadro. Mi lasciai condurre in casa. La penombra del soggiorno era fresca e conservava odori familiari, fra cui un leggero aroma di glicine. Quello del profumo di Lucia. Mi sedetti pesantemente sul divano e piansi.
« Come è successo? Perché? »
La voce di Ada era un sussurro.
« Stava tornando da una festa. Tre settimane fa. Non voleva andarci. Sai com’era, odiava le feste.
Ma era l’addio al celibato di Lisa, la sua migliore amica. Erano circa le due di notte. È uscita di strada, forse un colpo di sonno. Non ha più ripreso conoscenza. È stata in coma due settimane. È morta otto giorni fa, alle due e mezzo del mattino. »
Scossi la testa. Non capivo. Colpa dello shock. Lucia mi aveva parlato della festa, tre settimane prima. Ma era con me, otto giorni fa, alle due e mezzo di notte. L’avevo presa fra le braccia, l’avevo baciata.
« Ma perché Lisa ha fatto l’addio del celibato a Pisa? » fu la domanda, fra le tante possibili, che mi uscì per prima.
Ada mi guardò con gli occhi sbarrati.
« A Pisa? Ma cosa stai dicendo? Perché avrebbe dovuto farla a Pisa? Erano in un ristorante appena fuori Barletta. »
« Ma Lucia è stata ricoverata qui? » Non riuscivo quasi a par­lare.
« E dove, sennò? » Mi guardò con compassione. « Sarà meglio che vada a prenderti qualcosa da bere. »
Non aspettai che tornasse. Me ne andai.
“Sono diventato pazzo” pensavo, camminando senza meta. “Pazzo.”
Era spaventoso. Lucia non si era mai mossa da Barletta. Ma come potevo essermi immaginato anche la circostanza della festa? E come potevano coincidere le date in cui l’avevo vista con quelle in cui era entrata in coma ed era morta?
Rabbrividii. E non solo per il vento freddo. Misi le mani in tasca. Le mie unghie si scontrarono con qualcosa di metallico. Tirai fuori, incredulo, un oggetto che conoscevo bene. Un anello di argento antico. L’ultima volta che l’avevo visto era stato sulla mano di Lucia a Pisa, un po’ largo sulle dita assottigliate. La notte in cui era morta, la notte in cui l’avevo baciata, le avevo messo le mani fredde nelle mie tasche, per riscaldarle. Era allora che l’anello le era uscito dal dito.
Non avevo immaginato niente. Durante il suo coma lei aveva trovato il modo di raggiungermi.
Forse perché eravamo entrambi in quella terra di confine fra la vita e la morte. E solo quando aveva capito che ero tornato alla vita lei si era lasciata morire.
Mi ha salvato. Mi ha fatto ritrovare la voglia e la capacità di dipingere. Di trasmettere qualcosa agli altri.
La guardai, nel quadro che aveva ispirato. Ricambiai il suo sorriso dipinto. La strada sarebbe stata lunga. E triste, senza di lei. Ma avevo ancora la mia anima. La mia arte.
Non sentii più freddo. Tirai fuori dalle tasche le mie mani macchiate di colore e le scaldai al sole.