di Fiorella Borin
da I luoghi e i misteri dell’arte,
antologia della Seconda edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
«Quanto ci vorrà? » domandai con apprensione.
Il meccanico si asciugò le mani in uno straccio bisunto.
« Lo spinterogeno è andato. Dovrò cambiarlo e ci vuole il suo tempo. Le conviene trovarsi qualcosa da fare per le prossime due ore. »
Era un buon suggerimento. Avrei approfittato di quelle due ore per visitare il paese in cui il guasto alla macchina mi aveva obbligato a fermarmi. Mi gettai sulle spalle il soprabito e uscii dall’autofficina. Minacciava pioggia, in giro non si vedeva anima viva. Tutti i negozi avevano le saracinesche abbassate, chi chiuso per turno, chi per malattia, chi per lavori di manutenzione; l’ultimo addirittura per “cresima del nipote”.
Entrai nell’unico bar aperto della piazza.
Dietro il bancone una donna di mezza età, grassa e occhialuta, si stava dando lo smalto viola sulle unghie. Ordinai un caffè. Me lo servì con uno sbuffo di fastidio e subito tornò a occuparsi delle sue manone. Mentre sorseggiavo la ciofeca, mi cadde lo sguardo su una locandina appiccicata sulla porta d’ingresso.
Palazzo Stavridis
Esclusiva mondiale!
Solo oggi e per la prima volta in Italia vengono esposte al pubblico tutte le opere della prestigiosa collezione
Maricondo della Marra Marrano.
Un evento unico e irripetibile!
Non mancate!
Seguiva, scritto in piccolo, l’indirizzo.
« Scusi, è lontano Palazzo Stavridis? » domandai all’ostessa.
Il donnone non alzò neanche la testa dal pennellino intinto nello smalto. « Quando esce, vada a destra per cento metri, poi a sinistra per cinquanta metri, poi prenda il vicolo a sinistra e se lo trova davanti. »
Destra, sinistra, ancora sinistra, ripetei fra me. Sarei arrivato lì in un batter d’occhio. Una mostra poteva essere un ottimo modo di occupare le due ore che mancavano alla riconsegna della mia auto.
« Non ho mai sentito nominare questo Maricondo della Marra Marrano » dissi. « E dire che mi occupo di arte da quarant’anni buoni… Sa, sono un giornalista specializzato e scrivo su *** e su °°°. » Scandii con orgoglio i nomi delle due testate, convinto di fare bella figura.
La cicciona mi lanciò un’occhiata di commiserazione da sopra gli occhiali, quindi tornò a occuparsi dei suoi artigli violetti.
Inghiottii, insieme all’ultimo sorso di ciofeca, anche l’amarezza.
« Cosa dice? Mi consiglia di andare a vedere la mostra? »
L’ostessa si contemplò soddisfatta le manone e cominciò a sfarfallare le dita, facendo saettare lampi violetti. Lo smalto era, oltre che dichiaratamente cafone, pure fluorescente.
« In tutta sincerità, me la consiglia? » provai a insistere.
« Io son pagata per fare la barista, mica per dare consigli » replicò, soffiandosi sulle unghie. « E poi a me i giornalisti mi son sempre stati su i ball. »
Pagai e uscii.
Dopo due minuti ero a Palazzo Stavridis: una costruzione barocca, in pietra gialla, appesantita da cariatidi, grifoni, balconate cadenti, mascheroni in gesso dalle bocche sghignazzanti, e minata da crepe vistose. Un’infiltrazione di acqua piovana aveva danneggiato irrimediabilmente l’affresco che ornava il sottotetto. Non mi sembrò un gran danno, visto che raffigurava donnine ignude inseguite da demoni rossi e cornuti armati di forconi, che erano a loro volta inseguiti da pipistrelli, alle cui calcagna stava la Morte in persona, una falce nella mano destra e un martello nella sinistra. Aggrottai la fronte su questa simbologia un po’ fuori dagli schemi tradizionali e varcai il portone d’ingresso, che immetteva in una sala dal pavimento di marmo nero. La luce era fioca, l’atmosfera spettrale. Su ciascuna delle sei colonne di marmo ugualmente nero che avrebbero dovuto abbellire la stanza, erano incisi teschi con le tibie incrociate.
Non c’era coda al botteghino. A dire il vero, non c’era neanche l’ombra di visitatori. Il salone era completamente deserto, a eccezione di un ometto che mi venne incontro festante.
« Benvenuto! Le stacco il biglietto, sono quindici euro! »
Aprii il portafoglio ed estrassi la tessera di giornalista.
« Sono qui per lavoro » dissi con soavità, sperando di sembrare convincente.
Il volto dell’omino si allargò in un sorriso da cavallo.
« Bene! Benissimo! Allora la accompagno di sopra. Le farò da guida, ma lei chieda, chieda pure, faccia tutte le domande che vuole. Su quale giornale scrive? »
Sciorinai con fierezza i nomi delle due testate.
Il sorriso svanì in un battibaleno, sostituito da una smorfia affranta. « Beh, meglio di niente » lo sentii borbottare. Poi, ritornato gioviale, mise sulla bocca le mani a imbuto e chiamò: « Caccavale! Ahò, Caccavale! Vieni a sostituirmi al botteghino, ché accompagno su un giornalista! »
Emerse da uno sgabuzzino un omone grande e grosso, con le sopracciglia alte due dita e gli occhi che guardavano uno a destra e l’altro a sinistra. Teneva in mano un enorme panino con la mortadella.
« Stacca tu i biglietti, Caccavale, e ricordati che i giornalisti entrano gratis. Caso mai ne venisse un altro » aggiunse, indicandomi con un cenno del capo.
“Hai voglia che ne viene un altro” brontolò Caccavale. Squadrò me con l’occhio destro e la porta d’ingresso con l’occhio sinistro, quindi azzannò il panino e mi girò le spalle.
« Venga, venga » mi incoraggiò l’anfitrione, « mi segua, mi segua » e cominciò a salire di corsa le scale. Dopo dieci gradini avevo già il fiato corto. L’omino, invece, saltellava davanti a me come un cerbiatto e aveva già imboccato la seconda rampa.
Aumentai l’andatura.
Arrivati al piano nobile, mi sentivo battere nel petto uno stantuffo e soffiavo come un mantice.
« Prego, prego » disse l’ometto, fresco come un bocciolo di rosa, indicandomi la porta di destra, sulla quale campeggiava la riproduzione in formato extra-large della locandina vista nel bar.
Sottolineai con il dito il nome di Maricondo della Marra Marrano e biascicai un flebile: « Chi era? »
L’omino fece tanto d’occhi. « Non lo sa? »
Scossi la testa. La faccia dell’ometto si trasformò nel manifesto dell’indignazione.
« Ah già. Figuriamoci se uno che scrive su… » si interruppe per non infierire e si sistemò con sussiego i baveri della giacca.
« Permetta che mi presenti. Sono Gedeone Stavridis, proprietario di questo palazzo e discendente del nobile Maricondo della Marra Marrano, che fu illuminato collezionista d’arte, insigne poeta ed eccelso scrittore. »
Trascinandomi per la manica del soprabito, mi condusse nella sala di sinistra, al centro della quale campeggiava un busto di bronzo che riproduceva le fattezze di un uomo anziano, dalla barba biforcuta. Due imponenti favoriti gli ingombravano le guance e distoglievano l’attenzione dal nasone a becco e dalle labbra asimmetriche, ma non bastavano a far passare in secondo piano i due occhiacci spiritati che sembravano schizzargli fuori dalle orbite. I casi erano due: o lo scultore era scappato dal manicomio per modellare il busto, o Maricondo della Marra Marrano era un fenomeno di bruttezza.
Stavridis mi batté una mano sulla spalla.
« Che ne dice, eh? Si vede, eh, si vede brillare in quegli occhi così espressivi il lampo del genio! »
Osservai meglio i globi a palla da tennis del Marrano e notai una preoccupante somiglianza con gli occhi strabici di Caccavale.
Mi astenni da qualsiasi commento.
Distolsi lo sguardo dall’apparato oculare del defunto, e mi soffermai sulla rigogliosa corona d’alloro che gli cingeva la fronte. La singolarità dell’ornamento consisteva nel fatto che i rametti d’alloro si dipartivano dalle sue orecchie (invero notevoli per dimensioni, e alquanto a sventola), percorrevano il collo e si irrobustivano sui baveri della giacca. Scoprii così che quella che a prima vista mi era sembrata una cravatta, era in realtà il fusto della pianta d’alloro.
« Ha colto l’allegoria, eh, l’ha colta? » esclamò tutto allegro lo Stavridis. « Dal suo cuore di poeta nasce la pianta più cara ai poeti! Il suo sangue alimenta l’alloro, lo vivifica, lo consegna all’immortalità! »
Deglutii e biascicai un flebile assenso.
« Prenda appunti, ora, prenda appunti! » trillò l’ometto. « La storia del mio antenato è degna di un romanzo. La scriva sul suo giornale, anzi la scriva su tutti e due i suoi giornali, più gente la legge e meglio è, e pazienza se quei due giornali… ma meglio di niente! Tiri fuori il block-notes, io gliela detto e lei scriva, eh, scriva tutto! »
Ne avevo avuto abbastanza. Non avrei scritto una riga su quel Marrano della malora, tanto meno sotto dettatura. Tesi la mano per congedarmi da Stavridis e dai cimeli del suo antenato, quando un fulmine illuminò a giorno la stanza, subito seguito da un tuono assordante. In un batter d’occhio si scatenò l’inferno.
Pioggia, grandine, turbini di vento: al di là della finestra volavano frasche, cartelloni stradali, bandiere, vasi di gerani, cappelli di paglia e mutandoni strappati dalle corde del bucato.
Impensabile uscire con quell’ira di dio. Cavai di tasca biro e block-notes e mi rassegnai a fare il dettato.
Stavridis sorrise compiaciuto, si raschiò la gola e iniziò la conferenza.
« Il nobile Maricondo della Marra Marrano nacque sul finire del Cinquecento in località imprecisata. Ignoto fu il padre, assai più nota la madre, ma i motivi della sua notorietà preferirei non venissero citati. Ha scritto? Bene, allora cancelli l’ultima frase, che è irrilevante. »
Con un tratto di biro feci sparire ogni traccia della notorietà materna. Non potei però trattenermi dall’obiettare: « Mi colpisce il fatto che il padre fosse ignoto. Ritenevo fosse imparentato con i della Marra di Barletta. » Mi balenò il ricordo della bellissima mostra sul De Nittis, organizzata a Palazzo della Marra a Barletta: era stato un evento indimenticabile, sul quale avevo scritto i migliori articoli della mia carriera.
« No. Nessuna parentela » tagliò corto l’ometto. « In realtà Maricondo non era un della Marra, ma un della Morra. La madre, capirà, la madre, quando non faceva la… ma cosa fa, scrive? Non scriva, perdìo! La madre, dicevo, quando non stava nel bord… insomma, quella santa donna si guadagnava onestamente il pane giocando alla morra nelle taverne. Insegnò il mestiere al figlio e il geniale Maricondo perfezionò a tal punto la sublime arte della morra da mettere insieme un discreto gruzzoletto, che gli permise di provvedere ai bisogni materni con prodigalità e sempiterna, commovente devozione. Ha scritto la frase sulla sempiterna devozione? La scriva, la scriva! »
La scrissi in stampatello, in modo da ricordarmela.
« E questo Marrano era un soprannome? »
« Ma certo! »
« E mi può spiegare perché…? »
Stavridis sospirò. « All’epoca in cui il nobile Maricondo entrò nell’età adulta, per far fruttare il capitale accumulato con la morra aveva due sole possibilità: impegnarlo in un’attività lavorativa che avrebbe assorbito tutte le sue forze, fisiche e psichiche, abbrutendosi e diventando via via più simile a un animale da soma, oppure… »
« Oppure? »
« Oppure far fruttare il denaro standosene in panciolle e dedicando le proprie energie fisiche e psichiche a ben più elevati ideali. Essendo un uomo dall’intelligenza superiore alla media, l’insigne Maricondo scelse senza indugi la seconda via. »
« E cioè? »
« Ma lei non è mica tanto sveglio, sa? Ci vuole tanto a capire che si mise a prestar denaro a chi ne aveva bisogno? E siccome a quel tempo l’usura era un reato e potevano prestare quattrini solo le banche o gli ebrei, lui, non potendo fare il banchiere, fece l’ebreo! Si convertì, fece per dieci anni l’ebreo, imprestò soldi a destra e a manca, poi contò i soldi che aveva nascosto nel cassone, vide che erano abbastanza, abiurò pubblicamente e tornò a fare il cristiano. Gli appiopparono il nomignolo di Marrano per questo motivo, oh, ma cosa fa, scrive? Non scriva, perdìo! »
Feci sparire con un tratto di biro le parole usuraio e abiura.
Lanciai un’occhiata verso la finestra: purtroppo pioveva a cascate, l’intervista doveva continuare ancora un po’.
« Mi dica lei cosa devo scrivere. »
« Oh, finalmente un’idea sensata! Ma lo sa che lei, quando vuole, sa ragionare bene? Andiamo avanti. All’età di trent’anni circa, l’insigne Maricondo trasformò il proprio cognome, evocatore di taverne e passatempi triviali, in della Marra. Ottenne questo risultato corrompendo alcuni notai… Ma cosa fa, scrive? Cancelli quel corrompendo, lo cancelli subito! »
Cancellai.
« Ora scriva. Scriva, su, non resti lì impalato con la biro per aria. All’età di trent’anni, dicevo, l’insigne Maricondo della Marra divenne conte e là in fondo può ammirare il suo stemma nobiliare. » Mi indicò un gigantesco scudo di gesso che troneggiava sulla parete di fronte. Strizzando gli occhi, riconobbi due mani che si fronteggiavano, l’una mostrando quattro dita, l’altra il solo pollice, in campo azzurro. La mano con quattro dita era circondata da pipistrelli, quella con il pollice da foglie d’alloro.
« Divenne conte, dicevo » proseguì lo Stavridis, « e grazie a questo titolo nobiliare, acquisito dietro esborso di una cospicua sommetta confluita nelle casse del Papato, andò a vivere a Roma. Lì conobbe la donna che avrebbe cambiato la sua vita. Si chiamava Dafne degli Allori ed era imparentata, sia pure alla lontana, con una delle famiglie più potenti di Roma: i Borghese. Ha scritto? »
« Parola per parola. »
« Bene. La fanciulla era di incomparabile bellezza, ma ahimè promessa a un altro, un certo Barnabò Pierpìo. »
La biro mi cadde per terra. Mi chinai a raccoglierla.
« Scriva: Barnabò Pierpìo, scriva, mi raccomando » mi sollecitò Stavridis. « Continuiamo. La bella Dafne non era insensibile al fascino del prestante Maricondo, ma la sua onestà le impediva di concedergli licenza di amarla. Allora a Maricondo venne un’idea geniale: si fece preparare da una megera due pozioni: una, d’amore, che avrebbe fatto bere a Dafne, e una seconda, assai più perniciosa, che avrebbe fatto bere al Barnabò. »
« Quanto perniciosa? »
« Oh, nulla di mortale, intendiamoci! Maricondo era troppo nobile per macchiarsi di un omicidio, e mai avrebbe attentato al-
la vita altrui. Era un beverone dalle proprietà rinsecchenti. Ha scritto? »
« Ho scritto, ma non ho capito che cosa intenda per rinsecchenti. »
« Oh, ma per forza lei lavora per quei due giornalacci! Lei non è mica tanto sveglio, sa? Rinsecchenti sta a significare che la verga del Barnabò Pierpìo avrebbe dovuti rinsecchirsi, avvizzirsi e appassire definitivamente nel giro di poche ore. Una volta stecchita la verga del rivale, Maricondo avrebbe avuto campo libero con la bella Dafne. Mi segue? »
« La seguo. E come andò a finire? »
Stavridis congiunse le mani e scosse il capo, afflitto. « Qualcosa andò storto, dal momento che Barnabò bevve il filtro d’amore e Dafne la pozione rinsecchente. »
« Ah. Le rinsecchì la…? » Non osai completare la frase.
« Macché! Peggio! Molto peggio! Dafne rinsecchì tutta! Le sue carni, un tempo soavi come petali di rosa, divennero ruvide e grinzose come corteccia d’albero. I suoi capelli, un tempo soffici e gentili come fiori di lavanda, si mutarono in un’ispida matassa di paglia. Il suo alito, un tempo profumato come un cestino di fragole, si trasformò negli effluvi di una sozza palude marcescente su cui galleggiano le carcasse di pantegane morte. Ah, che disastro! Ah, che pena insopportabile per il cuore di un poeta! Ha scritto le similitudini? »
« Tutte. Comprese le pantegane morte. »
« Benissimo. A questo punto, che cosa accadde? Come poteva, il nobile cuore di Maricondo della Marra Marrano, sopportare il declino della bella Dafne e, al contempo, le avance del turpe Barnabò Pierpìo? »
« Eh già. Come poteva? »
« In un solo modo: dandosi alla fuga. Ma sublimò la sua fuga trasformandola in un mirabile percorso artistico. Inseguito dai gendarmi papalini, nel suo errabondo esilio il della Marra Marrano divenne collezionista d’arte, scrittore e poeta. Ha scritto? Be-
ne, allora andiamo nella sala dell’esposizione, così tutto le sarà chiaro. »
Scrutai la finestra: pioveva ancora. Mi rassegnai a seguire Stavridis nell’altro salone.
Una volta entrati là dentro, mi si parò davanti agli occhi uno spettacolo incredibile.
Disposte sull’imponente tavolo che da solo riempiva quasi tutta la stanza, appollaiate su colonnine, allineate su mensole, c’erano almeno duecento riproduzioni del gruppo marmoreo Apollo e Dafne del Bernini. Riproduzioni quanto mai approssimative e scadenti, eseguite nei materiali più diversi: ceramica, argilla, legno, vetro, cartapesta e…
« Mollica di pane » spiegò con orgoglio lo Stavridis. « Scriva, scriva, e, se non capisce, chieda. Se lo ricorda il mito di Apollo e Dafne? »
Bofonchiai un assenso. Stavridis mi lanciò un’occhiata dubbiosa e partì con un’altra conferenza.
« Mica per sfiducia nei suoi confronti, eh, ma non posso correre il rischio che lei presenti ai suoi direttori un articolo pieno di cazz… imprecisioni. E dunque le spiegherò tutto per bene. Scriva, eh, scriva. Il nobile Maricondo vide il gruppo marmoreo del Bernini Apollo e Dafne nella villa del cardinale Scipione Borghese. Ne rimase molto colpito perché il viso della Dafne di marmo era identico a quello della sua Dafne, o meglio, della Dafne fidanzata all’orrido Barnabò Pierpìo. Era una somiglianza impressionante, tale da giustificare il malore che lo colse e che gli causò il difettino permanente di cui patì sino all’ultimo dei suoi giorni. »
« Quale difettino? »
Stavridis avvicinò entrambi gli indici agli occhi. « Per l’emozione, a Maricondo uscirono gli occhi fuori dalle orbite. E là rimasero. Quando ha guardato il busto, se ne è accorto? »
« Appena appena » dissi, ripensando alle due palle da tennis.
« Già. Molti non lo notano, sa? Ma torniamo alla vicenda. Il conte della Marra Marrano chiese informazioni sul mito ispiratore della statua del Bernini, e gli venne spiegato ciò che lei dovrebbe sapere, ma che preferisco rammentarle. Scriva, eh, scriva. Apollo fece uno sgarbo a Cupido che, per vendicarsi, trafisse il cuore della ninfa Dafne con una freccia di piombo (apportatrice di odio), e il cuore di Apollo con una freccia d’oro (apportatrice di amore). Così Apollo si invaghì di Dafne e lei invece lo schifò, dandosi alla fuga. Apollo la inseguì ma lei, giunta in prossimità del fiume Peneo di cui era figlia, sentendosi il fiato del dio sul collo, invocò in aiuto il padre a tutela della propria verginità. E Peneo la soccorse tramutandola in una pianta d’alloro: una pianta meravigliosa, sì, ma alquanto inadatta alla congiunzione carnale con un dio. Così Dafne rimase pura e Apollo rimase con un palmo di naso. Ha scritto? »
« Non mi sono perso una parola. »
« Perfetto. A questo punto, quando si verificò l’increscioso incidente dello scambio di beveroni, il ricordo di questo gruppo marmoreo si impose al nobile Maricondo con una forza dirompente. Così dedicò tutta la sua vita alla rievocazione del mito reso immortale da Ovidio nelle Metamorfosi e dal Bernini nel marmo. Il conte della Marra Marrano divenne mecenate, collezionista e, come le ho detto, poeta. Nei suoi versi celebrò sempre Dafne, in certi casi immedesimandosi in lei con una profondità psicologica che non ha paragoni tra tutti i letterati del XVII secolo. Legga qua, per esempio. »
Stavridis mi allungò un foglio, pescandolo da una pila di fogli ammonticchiati su un tavolino.
« Legga, legga » mi sollecitò.
Lessi.
Lamentazione di Dafne tramutata in alloro
Potevo starci. In fondo, con Apollo
una scopata si poteva fare:
tre baci sulla bocca e tre sul collo,
un testa-coda sulle erbette aulenti…
poi mi sarei andata a risciacquare
in dolci acque e in tiepide sorgenti,
e ne sarei uscita come nuova.
Invece, quello scemo di papà
(cui chiesi aiuto in tanto odiosa prova)
dicevo, quello scemo cosa fa?
Invece di ammosciare al dio la verga
o mandargli un attacco di scagotto
lo lascia appiccicato alle mie terga!
E sono io che me la faccio sotto!
Adesso eccomi qua. Di legno e foglie
son le mie gambe, il corpo, la mia faccia bella…
Apollo porta in capo le mie spoglie
mentre i cuochi mi mettono in padella.
Potevo starci: e adesso sarei viva.
Vergine no, ma placida e giuliva
come un’oca, una rondine o una gatta
che s’inarca, sbadiglia e poi si gratta.
Potevo starci. In fondo… con un dio…
… mica con quel gran cesso di Pierpìo…
Quanto sei stato scemo, papà mio!
« Che gliene pare? Bella, eh? »
« Meravigliosa » dissi, restituendogli il foglio.
« Ma no! Ma cosa fa? Lo tenga, lo tenga! Questa poesia va letta, pubblicata, divulgata, imparata a memoria! I lettori dei suoi giornali la ringrazieranno, se la darete alle stampe! Vi subisseranno di lettere di ringraziamento! »
Ero sicuro che ci avrebbero subissato di qualcosa di ben diverso dalle lettere di ringraziamento, ma per educazione preferii omettere i dettagli.
Dietro le finestre il cielo si era rischiarato. Potevo svignarmela.
Ma non avevo fatto i conti con la loquacità dello Stavridis.
« Vede, queste poesie non sono soltanto dei capolavori letterari, ma anche la chiave rivelatrice di uno dei più grandi misteri che la storia dell’arte abbia conosciuto. Scriva, scriva. »
Mi toccò riaprire il block-notes e impugnare di nuovo la penna.
« Come le avevo detto, il nobile Maricondo, dopo l’increscioso episodio dei beveroni, si diede a una vita errabonda. La prima tappa fu Milano; ma non aveva fatto in tempo a sistemarsi in un palazzo consono al suo rango, che si scatenò in città la terribile pestilenza del 1630. Il nostro, dotato di una tempra d’acciaio, scampò al morbo; ma essendo stato ingiustamente accusato di avere depredato le case di tre ricche famiglie condotte al Lazzaretto, tagliò la corda da Milano e si stabilì nei territori della Serenissima. Lì strinse accordi commerciali con alcuni mercanti e la sua fortuna ingigantì. Purtroppo la cuccagna non durò a lungo, perché venne ingiustamente accusato di avere dato fuoco alla bottega di un mercante concorrente. Allora si imbarcò sulla prima nave in partenza da Venezia e sbarcò sulla costa dalmata, dove si mise in società con alcuni abili naviganti. Grazie a questa scelta illuminata, incrementò sia la collezione che il capitale. »
« Mi perdoni l’interruzione, ma gli abili naviganti erano per caso pirati? »
« Forse sì, forse no » rispose, arrossendo fino alla radice dei capelli. « Ma in fin dei conti cosa importa? Pirati o non pirati… ma cosa fa, scrive? Cancelli! Cancelli subito la parola pirati! »
Cancellai. Stavridis si tamponò la fronte con il fazzoletto e ripigliò fiato.
« Con quella brava gente il nobile Maricondo si trovò molto bene; pur senza mai dimenticare l’amata Dafne, contrasse matrimonio con la figlia del capobanda… cioè, con la figlia di un aristocratico di origini istriane, e dall’unione nacque la dolcissima Ljuba, che all’età di sedici anni andò in sposa all’illustre capitano Zvoran Stavridis, di cui io sono il ventiduesimo discendente. »
« Complimenti! » dissi. « Ma arriviamo al mistero di cui mi parlava. »
« Ora ci arrivo. Nel 1656 il nobile Maricondo sbarcò, per motivi di affari, a Barletta. Era un uomo molto intelligente e, avendo già vissuto un’esperienza analoga a Milano, comprese subito che il misterioso morbo dilagante in città era peste. Avrebbe subito ripreso il mare se, proprio quel giorno, la figlia Ljuba non avesse dato alla luce un neonato. La giovane era molto provata dal parto e il buon Maricondo non se la sentì di trascinarla a forza sulla nave e imporle i sacrifici di un viaggio scomodo. Si rassegnò a restare ancora un po’ a Barletta Era convinto di essere immune dal contagio; invece si ammalò fino a morirne. Aveva poco più di sessant’anni e il suo corpo venne seppellito in una fossa comune. Sull’ultima gettata della calce viva che la ricopriva per motivi igienici, venne scritto: “tempore pestis, non aperiatur”. Capisce il latino? »
« Sì. Ne veniva vietata l’apertura perché il contenuto era infetto. »
« Appunto. E ora drizzi le orecchie. Morì di peste anche la dolce Ljuba; ne scampò invece il baldo Zvoran Stavridis, che riuscì a mettere in salvo, oltre al figlioletto, anche una decina di bauli contenenti i beni di famiglia. Temendo però di essere derubato, ebbe l’accortezza di scrivere su ogni baule “tempore pestis, non aperiatur”. E questo deterrente funzionò così bene, che per quasi quattro secoli nessuno osò forzarne le serrature. Solo uno ebbe l’ardire di farlo. »
« Chi? »
« Io! Ventuno generazioni di Stavridis si sono tenute alla larga dai cassoni accatastati nella soffitta di questo palazzo. Io ho fatto saltare i chiavistelli e ho portato alla luce la preziosissima collezione Maricondo della Marra Marrano! La si credeva una fantasia di cantastorie, oppure perduta, dispersa chissà dove… e invece ecco svelato il mistero: non era una leggenda, stava nel sottotetto! Ah, che contributo inestimabile per l’arte e per la letteratura di ogni tempo! »
« Soprattutto per la letteratura » ghignai mentre ricacciavo in tasca biro e block-notes. Tesi la mano per accomiatarmi ma, fraintendendo le mie intenzioni, Stavridis me la riempì con un altro foglio.
« Qui invece il sublime poeta Maricondo della Marra Marrano celebra il mito dando voce al dio. Legga, legga! »
Lessi.
Il rimorso di Apollo
Il biondo Apollo va nella boscaglia
razziando vecchie frasche e minutaglia
scampata all’appetito del cerbiatto.
E più non si ricorda del misfatto
compiuto in nome dell’amor profano:
non trema il cuor, non trema la sua mano
quando rincalza sopra al capo d’oro
la sempreverde corona d’alloro.
Canticchia allegramente un geghegè
mentre muove la sega avanti e indrè.
E se il pensiero torna a mesi fa
quando Dafne abbrancò di qua e di là,
un brivido gli corre per la schiena:
“Rammento che strillò più di una jena!”
Si posa sull’alloro un calabrone
che ronza, ronza e dice: “Mascalzone!”
Può bastare il rimbrotto di un insetto
a illuminare il cuor dell’Apolletto?
Certo che basta. (No? Non basta? Ohibò,
ammetto: certe cose non le so.)
Ma ritorniamo al nostro boscaiolo
che ha già spianato un bosco, tutto solo.
Stasera farà un ottimo falò
alla faccia del cesso Barnabò.
« Che gliene pare? »
« Un capolavoro di dimensioni epiche » risposi.
Stavridis si fregò le mani dalla soddisfazione. « Allora gliene do un’altra, anzi due, no, tre, ecco, prenda, prenda tutto! »
Mi imbottì di fogli le tasche del soprabito.
« Mi spiace, ma ora devo proprio andare » tagliai corto. « La ringrazio, è stato un privilegio visitare questa mostra e godere della sua impagabile compagnia. » Mi complimentai con me stesso per essere riuscito a mentire con tale disinvoltura.
Stavridis mi accompagnò fuori ciarlando, saltellando e dandomi di continuo nel gomito.
« Mi faccia sapere quando escono gli articoli, eh! Mi raccomando! Mi telefoni, eh! Mi mandi un fax! »
« Senz’altro. » Ormai ero un mentitore di professione.
Girato l’angolo, depositai tutta la produzione poetica di Maricondo della Marra Marrano nel cassonetto dell’immondizia.
Dopo due minuti, ero di nuovo all’autofficina.
« Tutto fatto » disse il meccanico, indicandomi l’auto. Aprì la portiera, mise in moto, mi strizzò un occhio e disse: « Senta un po’ come canta. »
Il motore cantava come un’orchestra di usignoli. Sospirai di sollievo.
Spense il motore, scese e mi porse le chiavi. « Ricevuta o fattura? » domandò.
« Fattura. »
L’uomo caracollò verso il tavolo su cui giacevano, nel più completo disordine, fogli, foglietti, stracci bisunti e registri contabili. Impugnò la penna.
« A chi la devo intestare? »
Gonfiai il petto mentre scandivo il mio nome, onore e vanto di ventidue gagliarde generazioni di pierpìi.
« Barnabò Pierpìo. »