di Marina Mastrangelo
da I luoghi e i misteri dell’arte,
antologia della Seconda edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
Notte di plenilunio, mite e magica. Sotto un cielo di velluto riaprono i battenti del teatro. Gli ospiti, rumorosi ed eleganti, lasciano smorzare le loro chiacchiere nel foyer, fra risate e colpi di tosse e il tintinnio prezioso delle signore, e s’incamminano in platea per prendere posto. Voliti noti in prima fila: ministri, autorità locali, gente di spettacolo, persino prelati che con le loro porpore ben s’intonano ai tessuti delle poltrone. Un crescendo di ansia e curiosità, in quest’attesa.
Finalmente si abbassano le luci. Si apre il sipario, sebbene non sia più lo splendido tendaggio con le scene dello sbarco dei veneziani dipinte da Raffaele Armenise. Nemmeno le sculture di Pasquale Duretti ci sono più. Poco era rimasto della dorata cornice di ieri, sotto la cenere. Ma il rituale, la sacralità di questo momento, l’aria rarefatta e sospesa prima che si dispieghi l’incanto sono sopravvissuti alla violenza del fuoco e restano quelli di sempre. Si ricomincia.
Il piccolo mercantile aveva provato a entrare in altri porti, senza riuscirci. Quando iniziarono a profilarsi sempre più nitide le coste baresi, il capitano comprese di non poter tergiversare oltre: avrebbe forzato il blocco navale e raggiunto la banchina. La Vlora era in avaria e lassù erano tutti allo stremo, lui, l’equipaggio e quei ventimila in fuga che avevano occupato ogni centimetro quadrato del ponte e si erano arrampicati a grappoli fin sui pennoni, pur di arrivare dall’altra parte.
L’altra parte era l’Italia, che si svelava ai loro occhi con tutta la sua carnalità indolente e caciarona in quella mattina d’agosto del 1991. Calma piatta sul mare: si navigava in una foschia acquosa che nessun alito di vento distrattamente diradava. Giornata torrida, di baresi che cercavano refrigerio alla spiaggia di San Francesco, fra partite a scopone e taralli croccanti addentati sotto un ombrellone piantato di sghembo.
“Fanno festa laggiù…” pensò Kole, sfiancato dalla sete. Ormai aveva imparato a dormire in piedi, a non chiedere ‘quando arriviamo?’, a mordere chiunque tentava di approfittare di quella promiscuità per sfiorare le curve morbide di sua madre. Anche allora che l’approdo era vicino e c’era persino chi si tuffava in acqua per raggiungere la riva a nuoto, il ragazzino non si scompose. Non esultò, non inneggiò all’Italia come a un paradiso del quale aveva appena ricevuto la chiave. Kole si scostò appena la zazzera castana dalla fronte, conservando lo sguardo accigliato di sempre, le labbra piegate in un broncio. Silenzioso, distante, refrattario a qualsiasi abbraccio.
La nave Vlora era stipata di donne e uomini coi volti segnati dal sole e dal dolore, in fuga da un’Albania che si era appena lasciata alle spalle la dittatura di Enver Hoxa. Speranze raccolte in una tasca, strette in un pugno, poca cosa ma sufficiente per osare. Eppure, ancor prima di scendere sulla terraferma, il sogno cominciava a incrinarsi. A infrangersi, persino: loro erano lo spettacolo cui i baresi stavano assistendo a bocca aperta, senza nemmeno aver pagato il biglietto.
Kole, stretto fra i corpi sudati di gente sconosciuta su quella barcarola arrugginita, tenne lo sguardo fermo e fiero, finché sua madre Julieta non lo strattonò per un braccio e corse verso un varco che si era aperto nella folla.
“Si scende in Italia” continuò a raccontarsi Kole, “se ci fosse stato papà…”
Ma papà Toma non c’era da quando lui aveva due anni. Era finito in carcere per reati politici mai chiariti e dietro le sbarre era morto poco tempo dopo. Infarto fulminante, avevano detto. Chissà. Senza sapere come, il ragazzino si ritrovò sulla banchina, assordato dalle sirene e dalle urla, dalla paura che gridava nel petto. C’era gente che piangeva, sveniva, si trascinava sotto l’afa agostana. Mamma Julieta, stremata, lo teneva per mano, mentre zio Ferdinant li precedeva e si guardava intorno circospetto. Aveva detto che in città c’era già qualcuno che li aspettava.
L’andirivieni di medici e infermieri a tratti aveva un che d’isterico, i volontari provavano a dissetare e sfamare, ma il più delle volte restavano muti dinanzi a domande troppo grandi. Stretti dalle forze dell’ordine in un cordone invalicabile, gli esuli tacevano con rassegnazione; soltanto alcuni, sentendosi fregati, parevano irrequieti, smaniosi: fra questi c’era zio Ferdinant, il quale, col suo italiano stentato, chiese di lasciarli andare. La risposta fu ‘no’, senza discutere: quando l’emergenza bussa a casa tua, non c’è tempo per le trattative.
Intanto Julieta respirava a fatica. Qualcuno la fece distendere per terra, altri le prestarono delle cure, infine la issarono su una barella e le infilarono un ago nel braccio. Ferdinant bestemmiò, chiese una sigaretta a un medico, e quello gli urlò dietro rivelando un’esasperazione che per Kole fu uno schiaffo in pieno viso.
“Questi qui non ci vogliono…” pensò fra sé, mentre sua madre finalmente dormiva e lo zio prendeva a calci una lattina.
Poi fu la volta dei giorni in gabbia. Li trasferirono a bordo di autobus di linea nel vecchio Stadio della Vittoria, i cui ingressi furono serrati con i container carichi di cibo: dentro, quei ventimila disperati, che dell’Italia cercavano i fiori di Sanremo e il rosso fiammante della Ferrari.
Kole vide tribune gremite dalle quali qualcuno cercava di calarsi giù, rischiando di sfracellarsi al suolo pur di agguantare quella libertà che ogni volta sembrava a portata di mano, ma poi non si lasciava acchiappare.
Vide gru che si alzavano nel cielo, alle spalle delle curve, dalle quali omini intimoriti gettavano di sotto pacchi di viveri. E vide bande di suoi connazionali, che avevano scovato spranghe di ferro e assi di legno chissà dove e si disponevano in cerchio per spartirsi fra loro quelle provviste, impedendo a chiunque di accostarsi e di portar via anche solo le briciole. Zio Ferdinant era in mezzo a quei delinquenti e, vergognandosene, il ragazzino pensò “per fortuna”.
Passarono alcuni giorni prima che Kole, ritrovandosi a calpestare quel che rimaneva dell’erbetta del campo, si accorgesse che per fortuna anche lì riusciva ad arrivare l’odore del mare. Non era facile resistere ancora, ma lentamente ci s’iniziò ad abituare all’idea di stare sospesi tra il rimpatrio e un futuro che sapeva di punto di domanda. Zio Ferdinant s’intratteneva con loschi personaggi, maturando propositi di cui non lo metteva a parte, ma quel che contava era che mamma Julieta iniziava a star meglio: le guance erano tornate a colorarsi di quella sfumatura di rosa che a Kole ricordava certe spiagge poco lontane da Shkodra, e gli occhi avevano ripreso a sorridere ogni volta che lui le accarezzava i capelli canticchiando dolcemente Qytetit Tim, ‘Alla mia città’.
Tuttavia era difficile pensare a Shkodra, a casa, senza sentirsi raggrinzire il cuore. Certi pomeriggi in cui la nostalgia azzannava lo stomaco, il ragazzino se ne stava accucciato fra le tende che erano state piantate in mezzo al campo: sollevava gli occhi verso quel fazzoletto di cielo che gli era consentito di guardare e si domandava cosa avrebbe fatto, di quella voglia di dignità e riscatto che gli covava dentro. Avere tredici anni, lì in mezzo, contava meno che niente: se mai fossero riusciti ad andare via da quella ignobile prigionia, senza essere rispediti dall’altra parte del mare a bordo di un C-130 come era capitato ad alcuni di loro, gli sarebbe toccato seguire zio Ferdinant in mezzo ai guai nei quali certo si sarebbe cacciato.
Lo zio aveva poco più di vent’anni ma un volto già solcato dalle rughe che lo faceva apparire molto più vecchio. Era il fratello minore di mamma Julieta ma, da quando Toma era finito in prigione, era stato lui l’uomo di casa e Kole aveva provato a volergli bene. Ci era quasi riuscito, quando Ferdinant gli aveva promesso che, se si fosse impegnato, lo avrebbe fatto studiare a Tirana. “La tua maestra dice che hai talento” gli aveva svelato una sera, dopo cena, mentre fumava una sigaretta stravaccato sul divano.
Certe notti spariva, ritornava all’alba trafelato e con uno strano ghigno sul viso. Urlava all’indirizzo di Julieta dicendo di avere fame, così lei correva in cucina e gli tirava fuori il resto del byrek e le frittelle di carne della sera prima. Spesso Kole si chiedeva come potessero essere fratello e sorella sua madre e Ferdinant, lei dallo sguardo gentile, lui dall’espressione ingorda e spesso sfuggente.
Di quella promessa concessa in una sera d’indolente normalità, mentre Julieta lavava le stoviglie e Kole svolgeva diligente i compiti di matematica, zio Ferdinant si dimenticò troppo in fretta. Arrivavano certe notizie da Tirana, da Durazzo, e l’uomo appariva sempre più impaziente: certe volte Kole lo sorprendeva a parlare fitto con sua madre, che lo ascoltava a capo chino annuendo stancamente.
Avevano lasciato tutto di corsa: neanche il tempo di salutare il lago e le montagne, i nonni e la maestra Ana.
Non prepararono bagagli, non serrarono la porta di casa. Per fortuna Kole sapeva che la Musica, quella, uno se la porta nel cuore.
I primi applausi nel buio. Solo gli occhi del pubblico, fiammelle che ardono di voglia, desiderio, fame bulimica di un risveglio.
E poi il battimano lentamente si acquieta per suggellare questa rinascita con un ultimo ricordo. Prima dell’Inno di Mameli e dei saluti istituzionali, prima dei ringraziamenti, prima di tutto, riprendono vita nella loro nitidezza di forme e colori gli splendidi affreschi in stile liberty che fino a diciotto anni fa adornavano la cupola. Figure possenti e gloriose che ancora la mano di Armenise, evocando il mito e la storia, aveva tratteggiato con pitture a tempera, e che in seguito il fuoco ha strappato per sempre allo sguardo frastornato degli spettatori. Adesso i loro simulacri pare riemergano attraverso l’ombra e il fumo, proiettati sulla volta con un sistema avveniristico di luci. Danzano, riconquistandosi un posto nella memoria. Il video scorre, magnifico miracolo di finzione, sulle note della Casta Diva di Bellini cantata dalla voce inconfondibile della Callas. La Norma, come quell’ultima sera.
In quella tiepida serata di fine ottobre, a Kole la città parve improvvisamente più amichevole, accogliente. Il ragazzino aveva trascorso il pomeriggio bighellonando per il centro storico in compagnia dei suoi silenzi e dei rumori dei vicoli: un sassolino che rotolava sulle chianche lucide, il ruvido fruscio del bucato steso ad asciugare all’aria e al vento, il tonfo di un vasetto di basilico che una bambina distratta aveva fatto cadere dal parapetto di una finestra al piano terra. Canzonette che irrompevano in strada attraverso un uscio socchiuso. Voci ansimanti e schiocchi di baci nell’ombra di un portone.
Musica. Anche in quella città che durante gli ultimi mesi gli aveva riservato solo umiliazioni e meschinità, Kole si scoprì ad assecondarla. Sorrise tra sé di quella fragile speranza: forse, per sentirsi meno straniero, doveva mettersi in ascolto, inseguire i suoni del mondo che non hanno lingua né bandiera, leggere quelle partiture universali e lasciarsi guidare dalla loro bellezza. Finalmente, dopo tanto tempo, nell’animo irruento e insaziabile di Kole germogliava un sorriso. Non sapeva se sarebbe bastato, ma almeno si sentiva meno solo.
Arrivò davanti all’ingresso del sottano dove viveva con la madre e lo zio, ma nel quale transitavano spesso certi amici di Ferdinant dai modi sospetti. Il ragazzino stava per entrare, ma riconobbe i singhiozzi di Julieta che provenivano dall’interno. Lo zio parlava a voce alta, con tono alterato e, in seguito a qualche obiezione della donna che Kole non afferrò, prese a urlare di non fare la stupida, di smetterla di frignare e che, se tutto andava bene, si sarebbero sistemati per un pezzo.
« Kole no… » ribatté Julieta, stavolta urlando, e in quel ‘no’ deciso suo figlio, oltre l’uscio, riconobbe una determinazione ancestrale, una volontà senza remore. Ferdinant prese a gridare con maggiore veemenza che invece era proprio Kole la chiave dell’operazione, era lui che dovevano mandare avanti prima dello scambio perché si trattava di un ragazzino e non avrebbe destato sospetti, così poi loro… Kole spalancò il portoncino sgangherato: nella stanzetta angusta, dove un tetro chiarore aleggiava sui volti sformati da una rabbia reciproca e complementare, il ragazzino fece appena in tempo a intravedere la mano robusta di zio Ferdinant che impugnava una pistola. La prima a riprendersi dalla sorpresa fu Julieta: « Shpëton, Kole, shpëton! »
E Kole non se lo fece ripetere, schizzò via come un fulmine imboccando vicoli mai percorsi, salendo e scendendo gradini, ansimando, inciampando e poi rialzandosi con i palmi delle mani sbucciate, mentre nelle orecchie sentiva risuonare i passi pesanti dello zio. Avvertiva alle sue spalle tutta la furia di quell’uomo che non aveva mantenuto nessuna delle sue promesse e che una volta, ubriaco, lo aveva preso a cinghiate sulle mani perché smettesse di vagheggiare certe cazzate da rammollito. Kole corse a testa bassa e, senza accorgersene, si lasciò alle spalle la città vecchia, quella labirintica terra di nessuno, ritrovandosi dinanzi a un ampio viale alberato.
Ecco Bari, quella vera. Quella elegante, altezzosa, sbadata, quella che andava di fretta e si specchiava nelle vetrine dei negozi griffati. Kole sapeva che esisteva, da qualche parte, oltre i vicoli di qua e il mare dall’altro lato, ma non ci si era mai affacciato. Fuori dal centro storico zio Ferdinant non l’avrebbe mai seguito, quindi s’incamminò.
Per qualche minuto proseguì tenendo a sinistra, lungo un marciapiede sul quale si aprivano gli ingressi di banche e boutique. Il ragazzetto, smilzo, con i capelli arruffati e un golfino di cotone sbrindellato ai polsi che gli stava troppo grande, camminava lentamente trascinando i piedi in certe scarpe che gli aveva recuperato lo zio chissà dove.
Avrebbe continuato così all’infinito, curiosando e assecondando la strada, se non avesse visto la luce blu di un’auto della polizia ferma poco più avanti. Una pattuglia come tante, forse, ma Kole pensò che era sempre meglio aggirare gli uomini in divisa: uno dei pochi insegnamenti dello zio Ferdinant che si sentiva di condividere. Attraversò imprudentemente il corso, superò delle grandi aiuole che dividevano la carreggiata e, raggiunto l’altro lato del marciapiede, s’infilò sgattaiolando oltre il primo maestoso portone trovato aperto. Nella foga Kole non notò, in alto, il gruppo scultoreo che riproduceva Apollo nell’atto di incoronare la Musica, sul fastigio curvilineo che sormontava l’avancorpo centrale del celebre Teatro Petruzzelli di Bari.
Se non fossi qui col mio violino, se le sue corde non attendessero impazienti di essere accarezzate dall’archetto guidato dalle mie dita, se non ci fosse il volto assorto del Maestro ritornato in città da San Pietroburgo per questo giorno che è finalmente fine e inizio, piangerei. Che cosa può un piccolo uomo come me di fronte a tutto questo? È l’Arte che pulsa, nel luogo che le appartiene per eccellenza, e che le è stato restituito dopo il precipizio, dopo il niente.
Ancora applausi: è giunto il momento. Il Maestro ci trafigge con il suo sguardo incandescente, che raccoglie l’osmosi del mare e della neve, dell’andare e tornare e chiamare la Musica come una preghiera. Solleva piano le mani nude, dirigerà l’orchestra senza bacchetta. Vuole così, questo demiurgo per una notte, ricordando a noi musicisti e al pubblico emozionato quanto abbiano potuto e voluto, le mani delle maestranze, in questi lunghi anni. Impolverate, sporche, ferite, mani che hanno scacciato i fantasmi ed esorcizzato i ricordi di ciò che è andato perduto. Il teatro è qui. Il Petruzzelli è di nuovo qui. Musica, Maestro.
Varcato il portone, Kole si ritrovò in un ampio atrio dalle pareti color crema e dai ghirigori dorati: un’eleganza che non aveva mai visto, neppure in quelle scintillanti trasmissioni televisive che sua madre guardava nella loro casetta di Shkodra, mentre il lago occhieggiava nella notte e un vento frizzante scendeva dalle montagne lì intorno.
Due uomini in abito scuro parlottavano fra loro e non notarono quello scricciolo bruno che s’insinuò rapidamente oltre i battenti del foyer, per poi perdersi nel buio della platea dove risuonavano le note della Norma. Kole capì di essere finito in uno di quei luoghi magici e sognanti di cui la maestra Ana gli raccontava alla fine delle loro lezioni, ricordando con rimpianto il tempo dei concerti, prima della dittatura e della miseria, prima della vecchiaia.
Si mosse guardingo, finché non scovò l’incavo creato da una possente colonna, ai piedi della prima fila di palchi: si accucciò e sbirciò il palcoscenico lontano, dove l’intensa voce tenorile di Pollione stava rivelando al pubblico di non amare più la sacerdotessa. Pur non cogliendo il senso di quelle parole amare, Kole chiuse gli occhi e si abbandonò alla Musica che, ancora una volta, gli stava regalando sollievo nel suo linguaggio universale.
L’amarezza di quei mesi difficili, l’ansia della fuga e del futuro si sciolsero magicamente mentre il soprano cantava la sua disperazione nel finale del primo atto. Kole rammentò quanto la musica sapesse pacificarlo e quanto amore avesse riposto nel suo sogno di bambino. Il conservatorio di Tirana, i grandi maestri, le tournée in giro per il mondo.
« Che ci fai qui? Ehi, ragazzino! » Una bassa ma ferma voce maschile risuonò nel suo orecchio, e Kole si sentì strattonare per un braccio. Riaprì gli occhi e provò ad alzarsi per darsela a gambe, ma l’uomo che gli si era chinato di fianco pareva alto e massiccio, tale da non lasciargli via di scampo. Kole non rispose, anche perché col suo italiano stiracchiato non avrebbe saputo fornire spiegazioni.
« Tirati su, dai. Non puoi stare qui » gli sussurrò l’uomo sollevandosi e tendendogli la mano. Kole lo guardò di sottecchi, senza sapere se fidarsi oppure no, ma sul volto dello sconosciuto apparve un sorriso rassicurante e scanzonato che lo tranquillizzò. Decise di assecondarlo, senza sapere perché. I passi dei due si persero silenziosi sulla moquette: l’uomo davanti, sicuro, con le spalle larghe avvolte in un’elegante giacca grigia, e appena dietro il monello, il cui sguardo irrequieto che si posava con ingenuo stupore su stucchi e affreschi, sulle statue e le loggette, sullo scintillio dell’oro. La strana coppia imboccò una scaletta che conduceva al corridoio sul retro della prima fila di palchi, dove finalmente il ragazzino poté osservare il volto del maturo signore che lo aveva preso per mano. Aveva un viso florido, con un paio di occhietti azzurri dietro eleganti occhiali di metallo, capelli brizzolati e un’ombra di barba.
« Come ti chiami? »
« Kole… »
« Non sei di qui, vero? » Il ragazzino non rispose, si limitò a scuotere la testa. Come spiegargli che era albanese, clandestino, e che forse in quel preciso istante suo zio stava ritirando un carico di droga da qualche compare? Sarebbe bastata una parola di troppo per cacciarsi nei pasticci.
Lo sconosciuto aprì la porta del suo palco, dove una signora con un bel cappotto color caramello e una nuvola di vaporosi capelli castani sorrise a Kole e gli fece segno di restare in silenzio. L’uomo, invece, gli indicò dove sedersi e, di fronte alla titubanza del ragazzino, gli strizzò un occhio: « Continua pure ad ascoltare, adesso. Qui starai più comodo, non c’è bisogno di nascondersi. »
Il Maestro dà “il la”. Finito il doloroso letargo, questo teatro torna a essere Luogo d’Arte. È la Musica che compie il miracolo, che traduce il mistero in bellezza: finalmente dirompe e invade questi spazi a lungo silenti.
Sono pronto. Nella sinfonia che avvolge e accarezza fregi e decori, putti e cariatidi, bassorilievi, cristalli, velluti, ci sono anch’io con il mio violino e il mio archetto. Divento tutt’uno con lo strumento, ma se soltanto provo a rivolgere lo sguardo altrove, l’impressione è che si sia tutti parte di un momento sublime e irripetibile. Gli orchestrali, i cantanti, il pubblico in platea e sui palchi, tutti protagonisti della rinascita.
La Musica s’innalza e scorre: ogni cosa sembra facile, adesso, al cospetto di questa sinfonia meravigliosa e perfetta. Questo teatro si riaffaccia al mondo e si riscopre luogo dell’anima, che incanta e strugge. Ma anche io oggi rinasco, perché qui riconosco il mio posto, sancisco il mio riscatto. La mia attesa non è stata meno lunga e meno dura. Ma ora basta, che sia la melodia a raccontarsi, a raccontare.
Signore e signori, ecco a voi Beethoven, Nona Sinfonia.
Usciti dal teatro, la signora e il signor Palmisano gli avevano offerto una pizza e poi lo avevano portato in una gelateria poco lontano da lì, dove Kole si era incantato davanti alla girandola di colori delle deliziose vaschette conservate nel bancone. Alla fine aveva indicato alla commessa il cioccolato e il pistacchio e aveva gustato il suo cono con un piacere impagabile, senza curarsi della maglietta che s’imbrattava di goccioloni scuri.
Da quando lo spettacolo era terminato il ragazzino aveva taciuto, ascoltando tuttavia con curiosità le chiacchiere dell’uomo. Scoprì che il dottor Palmisano era un insegnante di pianoforte al Conservatorio di Bari e sua moglie faceva la psicologa: erano oltre i sessanta ma innamorati come due ragazzini, con figli già grandi che ormai vivevano fuori città. « Sono due bravi ragazzi, ma non mi hanno dato la gioia di studiare musica come me. Uno è ingegnere, l’altro pilota di aerei, ma con il pianoforte sono entrambi un disastro! »
Kole non sempre riusciva ad afferrare i paroloni di quel buffo signore che ogni tanto gli accarezzava la testa, però coglieva la gentilezza nei suoi modi e questo gli bastava. Era da tempo che non si sentiva così sereno, sebbene gli restasse un margine di diffidenza che lo induceva a non esporsi, a non svelare la sua verità.
« E tu, suoni? » Mentre rivolgeva a Kole quell’ennesima domanda, il dottor Palmisano scorse nello sguardo di sua moglie l’invito a lasciar tranquillo il ragazzino, che forse aveva qualcuno che lo stava aspettando.
Kole si pulì le labbra con il dorso della mano, quindi puntò i suoi occhietti vividissimi in quelli quieti dell’uomo: « Po… violino. In Albania, con maestra Ana. »
Il dottor Palmisano gli posò un braccio sulla spalla: « Davvero? E qui, non suoni più adesso? »
Kole storse le labbra e fece segno di no col capo. Avrebbe voluto sapergli spiegare quanto gli mancassero gli esercizi con l’archetto, le notti trascorse a studiare gli spartiti, le brevi esibizioni con la scuola e gli applausi del pubblico, specie di mamma Julieta. Ma il ragazzo non aveva le parole e quindi, semplicemente, pianse.
Primo movimento: allegro ma non troppo, un poco maestoso.
Il dottor Palmisano gli aveva detto di tornare a casa, di parlare con la mamma e di farsi trovare proprio lì, davanti alla gelateria, la mattina dopo intorno alle dieci. Avrebbero dovuto risolvere parecchie questioni burocratiche, certo, ma ne sarebbero venuti a capo e poi Kole, se avesse voluto, avrebbe potuto riprendere i suoi studi di musica al Conservatorio.
Il ragazzino aveva sgranato gli occhi incredulo, frastornato. La fuga davanti alla pistola di suo zio gli sembrava un evento solo sognato, o una brutta storia che apparteneva alla vita di qualcun altro.
Ai signori Palmisano non aveva svelato tutta la verità, per cui non disse loro neppure che a casa non ci sarebbe tornato, almeno per quella notte, casomai zio Ferdinant lo stesse aspettando per suonargliele di santa ragione e lo chiudesse nel sottano.
Secondo movimento: molto vivace.
« Ti accompagniamo noi dalla mamma » propose la signora, premurosa.
« No, no, non potete con macchina! » obiettò subito il ragazzo. Li salutò con un abbraccio che profumava di buono e di caldo e, quando li vide infilarsi nella loro automobile parcheggiata lungo Corso Cavour, si affrettò a cercare un angolo nascosto nel quale acquattarsi e aspettare che facesse giorno. Non si sarebbe mosso di lì per nessun motivo, non voleva rischiare di perdere la sua grande occasione.
Scovò la rientranza di un portone su via Cognetti, poco lontano dal teatro, e si rannicchiò appoggiandosi contro lo stipite sperando che quella notte autunnale si rivelasse mite. Si addormentò.
Terzo movimento: adagio molto cantabile, andante moderato.
Era quasi l’alba quando un cameriere del Circolo Unione, che aveva sede al primo piano del Politeama, telefonò alla centrale della polizia: stava riordinando la sala dopo una festa di matrimonio terminata poche ore prima e improvvisamente, guardando fuori dalla finestra, aveva notato il buio della notte ingentilito dalle fiamme riflesse nei vetri del palazzo di fronte. Sotto di lui il teatro andava a fuoco.
Quarto movimento: finale – presto. La Musica si prende la sua rivincita.
Finalmente si spengano le sirene dei pompieri che trafissero la città addormentata e mi strapparono al sogno di orchestrale in giro per il mondo. Rallenti tutta quella gente che correva nella notte ardente. Si plachino la frenesia, la follia, il panico e il doloroso stupore. Si ammutoliscano i sibili, e i vetri in frantumi, e la cupola che collassa e crolla riducendosi a scheletro, ragno velenoso. Dorma, adesso, il fuoco che divorò poltrone e tappeti, sedie e legni, stucchi e statue, persino gli strumenti lasciati in teatro dai musicisti per le prove della domenica.
Al mattino tutto era già cenere, e non fu facile dare ordine al caos delle cose e dei pensieri, né rintracciare una luce sebbene flebile in quella nube grigia che aleggiava sulla città: non polveri da combustione, ma il futuro che pareva spegnersi e andare alla deriva.
La Musica tacque, quel giorno, ma ha continuato a scorrere carsica nel cuore della gente, vivendo delle emozioni e delle attese, dell’impegno e delle sfide di tutti noi, finché oggi è riemersa, è tornata a parlarci. La sua forza è coraggio e mistero.
Le mani del Maestro, che danzano nell’aria e nel tempo, ci guidano mentre il coro intona l’ Inno alla gioia di Schiller. Che gioia sia, finalmente, per tutti noi qui seduti e per chi là fuori avrebbe voluto esserci: non spensieratezza fine a se stessa, non mera allegria rumorosa e frivola. Cantiamo la fratellanza, cantiamo l’uomo che si libera dal male, dall’odio e dalla rassegnazione.
È esultanza pura, è libertà. Per mio padre morto che ha difeso la propria. Per mia madre che mi ha regalato la mia. Per la mia gente, che trovi il suo posto. Per tutte le genti senza il loro posto, perché almeno trovino pace. Per questa città che, senza darsene merito, mi ha accolto e poi amato, perché smussi le sue contraddizioni e si scopra aperta e solidale sempre, anche verso se stessa. Per chi mi ha dato una chance, e per me stesso che ho saputo coglierla.
Per la Musica, che resista al fuoco, e che dia fuoco al nostro coraggio.
L’archetto smette di ondeggiare. Scende il silenzio, per un momento impercettibile di attesa e sollievo.
Applausi.