7 Marzo 2020

I miei quadri

di Cosimo Ugo Paolo Miccoli

da I luoghi e i misteri dell’arte,
antologia della Seconda edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.

Se alle 19.30 si trovava al secondo piano, Cenzino si bloccava. Sentiva il fischio del treno e a stento riusciva a trattenere le lacrime. Più volte l’avevo rincuorato, ma a Ottobre decisi di dirgli la verità: gli orari erano cambiati. Quello che da qualche mese sentivamo non era più l’Eurostar Taranto – Milano, ma di sicuro il regionale per Bari.
Mi guardò perplesso e prima di prendere il fazzoletto dai pantaloni, vicino alla pistola, mi ricordò che non sapevo cosa significasse avere figli lontani da casa, al Nord.
« Vado giù » disse, « faccio il giro. »
I suoi ragazzi neanche li conoscevo, ma me ne aveva parlato così tanto che spesso mi informavo sulle loro condizioni e gli chiedevo stupidamente di salutarmeli. Salti mortali per dar loro una laurea e adesso era rimasto solo con la moglie e la madre.
Un po’ lo capivo, ma al posto suo, se avessi potuto, sarei salito di sicuro su un treno, magari su quello dipinto nel quadro della prima sala, e me ne sarei andato.
Mi preparai come lui alla chiusura. Ero nella sorveglianza della Pinacoteca da due anni con un contratto a tempo determinato. Con lo stipendio non arrivavo a fine mese e l’ambiente di lavoro aumentava l’oppressione: illuminazione sempre uguale, finestre chiuse, temperatura costantemente controllata. L’unica consolazione era che mi sarei conservato bene come le tele che sorvegliavo.
Come loro però ero appeso a un chiodo.
Spensi le luci, dopo un’ultima occhiata dietro le tende, e scesi al pian terreno.
« Tutto bene? »
« Tutto ok, Tonì! » gli tirai al volo le chiavi.
Era il custode comunale e quel lancio ogni sera l’ innervosiva.
« Domattina arrivano due scuole elementari da Foggia » disse con un ghigno. « Vedremo di farli entrare sessanta per volta. »
« Sessanta? Ma… »
« Sta tranquillo, Vito! Tran – quil – lo! » mi bloccò sillabando. « Chiuderemo il primo piano. Ti aiuterà Cenzino. »
Andai via senza ribattere, mentre mi guardava attraverso le sue lenti spesse. Mercoledì non era una buona giornata con quelle maledette visite guidate e Tonino sapeva quanto amassi le scolaresche. I ragazzi non rispettavano la distanza dai quadri e i più piccoli ci mettevano le dita. Mi facevo prendere in giro pur di tenerli buoni.
“Quanti colpi ha la pistola?”, “ Spara davvero?”, “Quanti ne hai uccisi?”. E dire che forse l’avrei presto restituita. Un amico di Brescia mi aveva segnalato una buona occasione di lavoro, anche se mia moglie di trasferirsi proprio non voleva saperne.
In strada sentii il vento che risaliva dal mare. Faceva freddo e imboccai via Cialdini. I soliti ragazzi seduti sulle scale del Monte di Pietà. Ripensai al treno, a come si udisse distintamente dalla pinacoteca. Per fortuna, mi dissi, Cenzino abitava lontano dalla sta­zione.
Da tre settimane avevo notato un visitatore particolare. Veniva tutti i lunedì pomeriggio alle 18.30.
Un ottantenne, minuto di corporatura, con un cappotto di panno e un cappello che teneva sotto il braccio sinistro. Il suo viso era severo, ma lo vedevo sorridere dopo essere rimasto almeno cinque minuti davanti a una tela. Non era il primo dei soggetti strani da quando ero in servizio. La medaglia d’oro spettava a “U’ pezz”, come l’aveva ribattezzato Tonino: un tipo nascostosi per metà pomeriggio dietro una tenda della terza sala. Quell’episodio mi aveva consigliato di controllarle sempre tutte prima della chiusura.
L’omino però era diverso. Sembrava un intenditore.
Uno di quei lunedì s’avvicinò e mi chiese con estremo garbo dove fosse “La Signora Napoletana”.
« La signora napoletana? » chiesi a mia volta, non capendo.
« “La Signora Napoletana”, esatto! » ribadì. « Un quadro… mi avevano detto che era qui. »
« Non credo di averlo mai visto » replicai poco sicuro.
« Ma come? Ne sono certo! È un’opera in cui c’è una dama vestita di bianco, su un divano, con… »
Fui illuminato. Il quadro era stato da noi l’anno prima, ma non sapevo dove fosse finito.
« Adesso ricordo! » aggiunsi. « Mi hanno spiegato che non era autentico e perciò il Comune non l’ha acquistato. »
« Non autentico? » sbottò con un’espressione di biasimo. « Posso mettere la mano sul fuoco che si tratta di un De Nittis! »
Precisai che ero lì per sorvegliare, che della pittura e dei dipinti m’ interessava poco e che in fondo per me erano tutti uguali.
L’uomo adesso mi studiava con vero disgusto e quasi accartocciava il cappello tra le mani.
« Se fossi stato un mio studente! » continuò. « Ma non vedi l’amore che c’è in alcuni ? La solitudine in altri? »
“Un mio studente?”. Istintivamente cominciai ad allontanarmi, ma lui non mi mollava.
« Guarda! » mi indicò “Place des Piramydes”, un’opera che per me era poco più di uno scarabocchio. « Aveva capito che la “Vita”, la Storia… abitavano altrove. A Parigi! E quelle figure? Vedi come si muovono veloci? È per questo che andò via! Qui poteva ritrarre un cielo azzurro, una passeggiata sul fiume, ma… »
Fece una piccola pausa e subito riprese. « Sei fortunato ragazzo… tra queste meraviglie! Ho visitato le vecchie sedi, ma ades­so… » roteò la mano destra in un gesto di compiacimento « è il posto giusto! Hai il lavoro più bello del mondo! »
Senza volerlo replicai che la mia situazione era penosa, che la società di vigilanza avrebbe potuto risolvere il mio contratto anche il giorno dopo e che il mio misero stipendio era rimasto tale e quale da due anni. Lì dentro mancava l’aria. Se non mi fossi affacciato ogni mezz’ora sul cortile interno, sarei diventato anche claustrofobico.
« Cosa? » mi interruppe. « Sul cortile? Ma basta affacciarsi su uno di questi capolavori! »
Avevo nelle orecchie le sue parole quando sentii la sveglia del mio orologio. “Le otto! Le tende!”
« Devo andare! Devo chiudere! » esclamai preso dall’ansia. Gli strinsi la mano e mi fiondai al pannello generale.
Tonino mi aspettava in ufficio. Venti e venti minuti: ritardo clamoroso. Posai le chiavi sulla scrivania nel suo stupore.
« E il professore? » chiesi.
« Che professore? » mi domandò Tonino.
« Quell’anziano… con me fino a pochi minuti fa. Non l’hai visto? »
« Certo che l’ho visto! » si tirò sulla fronte gli occhiali. « È andato via! Che credi? Quando entrano, ricordo sempre a che ora si chiude! »
Anche Cenzino mi guardava male: per lui la cena era un rito da ripetere rigorosamente alla stessa ora.
Arrivati alla sua auto, rifiutai il passaggio. Stava già per piegarsi, cercando d’incastrarsi nella sua Fiat Uno, quando lo tirai per la giacca.
« Senti un po’ » dissi, « quell’anziano in pinacoteca mi ha detto che siamo fortunati a far la guardia ai quadri. »
Mi fissò qualche secondo perché non l’avevo detto con ironia. La mia era un’affermazione con cui ricercavo il suo parere. Si limitò a salutarmi senza commentare. Se avevo voglia di prenderlo in giro non era l’ora adatta.
 M 
Tornò il lunedì successivo. Stavo per scusarmi per la volta prima, ma la colpa era sua, disse.
Quando parlava di quadri non la finiva più, come a scuola. Quella mattina era andato in ospedale dalla moglie. Dopo la pensione aveva assecondato il suo desiderio di tornare a Barletta, la città in cui era cresciuta e in cui purtroppo adesso si era ammalata. Non avevano figli, né parenti. Il calvario era cominciato sei mesi prima con una frattura. Dopo un mese la diagnosi, impietosa: tumore alle ossa. Non camminava più.
« Siamo vecchi, ragazzo » disse con gli occhi improvvisamente lucidi.
Mi raccontò la sua vita. Si chiamava Vittorio. Aveva insegnato storia e filosofia per quarant’anni in un liceo di Torino e lì aveva conosciuto Flora, anche lei professoressa.
Una ragazza diffidente, ma bellissima, intelligente. Per un anno intero l’aveva invitata a teatro. Poi finalmente la dichiarazione in piazza Castello dove la lasciava per salire sul tram. Non si erano più separati.
« Quanto le piaceva quel quadro! » disse per allontanare la mia attenzione dalle mani che si era portato al viso, rigato dalle la­crime.
Sulla parete opposta, quasi nascosto in un angolo c’era il quadro della “Dama sulla seggiola alle corse di Auteuil”.
« “Sembriamo noi due” mi diceva. “Tu sempre composto e io che, non appena ti giri, ne combino qualcuna”. »
Il quadro era un po’ ridicolo. La dama sembrava saltata sulla sedia, mentre il marito con in testa un cilindro nero continuava a guardare la corsa, senza fare una piega.
« Chissà com’è andata » il viso del professore era tornato sereno. « Magari lui si è voltato, l’ha rimproverata… poi per farla sorridere si è tolto il cilindro e ne ha tirato fuori un mazzo di fiori. »
« O forse » dissi, « è più facile che il cavallo per cui tifavano abbia vinto e lei per la gioia gli sia saltata in braccio! »
Non riuscii a non sorridere. Mi tornò in mente mia moglie, un anno prima, quando al San Nicola aveva scoperto la sua anima da ultras e s’era messa in piedi sui seggiolini della tribuna.
Era già tardi. Gli raccontai la storia del “matto” e gli spiegai che, come l’altra volta, il giro d’ispezione mi costringeva a lasciarlo. Accettò però d’aspettarmi all’ingresso.
Lì gli presentai Cenzino, che gli porse la sua grossa mano in cui poco prima aveva un fazzoletto.
« Anche oggi, Cenzì? » domandai. « Ma non c’era lo sciopero? »
Un’occhiataccia mi ricordò che i treni a lunga percorrenza non si fermavano mai.
Sabato mattina, indossata la tuta, passai sotto casa del professore. Lunedì l’avevo accompagnato fin sotto il suo portone, in via Nazareth, sopra il meccanico. Averlo visto entrare in quel vecchio palazzo mi aveva fatto riflettere sul miracolo che per me si ripeteva ogni sera: cenare a casa con Gabriella e la mia Sara di quasi tre anni. Michele e Gianfranco già mi aspettavano per la solita corsa.
Da via Mura del Carmine arrivammo sul litorale. Foschia, sole pallidissimo. Il freddo si faceva sentire, nonostante fossimo molto coperti. Michele pretese un po’ di riscaldamento e ci dirigemmo verso il porto. Palazzo Della Marra e il giallo delle sue pareti si perdevano nel grigio della mattina.
Non mi sembrava vero: lì dentro passavo tutte le mie giornate. Il mare alla nostra sinistra invece era piatto e tutt’uno col cielo.
« Forza! » mi incitò Michele. « Hai bisogno di una spinta? »
« Ma quale spinta! » risposi.
« Al Pronto Soccorso » mi assestò un pugno sulla spalla, « ho già allertato i colleghi. »
Michele era un “amico”, uno di quelli che quando occorreva si faceva in tre. L’unico a sostenermi dopo gli esami andati male all’Università, sebbene alla fine non l’avessi ascoltato. Non era cambiato nulla da quando eravamo ragazzi, anche se lui era diventato un bravo medico e io invece sorvegliavo i quadri. Più di una volta era stato in Pinacoteca, non per guardare i dipinti, ma per osservare il termoigrometro. Un affare diabolico, che registrava temperatura e umidità con un ticchettio insopportabile. Mi sembrava di sentirlo anche mentre correvo.
Il cielo cominciò a schiarirsi quando eravamo in prossimità del lido Mennea, aperto come sempre.
« Non dici nulla? » mi chiese Gianfranco. « Stai bene? »
« Settimana terribile » risposi, seccato d’aver cominciato a parlare di lavoro.
Michele già rideva. « Non dirmi che ti fai ancora mettere sotto dai ragazzini? »
« Vorrei vedere te! Lì dentro per 800 euro al mese! E non cominciare con la storia che è un buon lavoro! »
Non ero riuscito a controllarmi. Rimase in silenzio. Avrebbe potuto accusarmi che in quel posto c’ero finito da solo e avrebbe avuto ragione. “La solita sparata” sarebbe stata l’ironica replica in un’altra occasione. Ma capì che qualcosa non andava davvero. Decisi di lasciarli e tornai indietro con una scusa.
Il mare era ormai turchese. Si scorgeva finalmente il profilo del promontorio.
Il Gargano. Sempre lì: alcuni giorni invisibile, in altri prepotente e nitido. Come l’idea che ognuno ha di se stesso, pensavo: chiara solo in alcuni momenti. Come la verità su ciò che desideriamo: difficile da vedere e afferrare.
Corsi più veloce. In mente i quadri, la pinacoteca, il trasferimento e poi il professore. Benché fossi sudato ripassai sotto casa sua e decisi di salutarlo.
Sul citofono il suo nome mancava. Chiesi quindi al meccanico se lo conoscesse. “Guerra” era il cognome della signora. Otto squilli e avvertii lo scroscio di una finestra che si apriva al secondo piano.
« Chi siete? » lo sentii domandare.
« Sono Vito, professore! » gridai. « La pinacoteca! »
Dopo una pausa in cui la mia voce parve entrare nella sua testa per essere frullata e rielaborata, lo vidi fare un cenno con la mano e mi indicò di salire. Sei rampe di scale.
« Prego » disse dal fondo del corridoio, « accomodati. »
Aveva indosso una giacca da camera e il pigiama.
Mi scusai per essermi presentato in quel modo, ma disse che gli faceva piacere. Da quando la moglie era ricoverata riceveva solo la signora che gli portava la spesa. Accettai di bere un caffè.
La stanza in cui mi trovavo era arredata con mobili vecchi. Una poltrona di velluto e un tavolo su cui c’era un vaso viola con fiori di plastica. Di fronte una libreria, volumi sistemati un po’ alla rinfusa. Pareti ingiallite. Alle mie spalle una riproduzione de “La Colazione in giardino”, con una cornice povera. Il profumo era molto particolare. Mi ricordava casa della nonna, quando andavo a farle visita da piccolo. Un’essenza di sugo, di cucina. Una fragranza sana, buona, anche se qualcuno l’avrebbe ritenuta un cattivo o­dore.
Il professore arrivò con un vassoio su cui c’erano due tazzine. Ogni passo faceva tintinnare il coperchio della zuccheriera.
« Il profumo che c’è qui mi ricorda casa dei nonni. »
« I ricordi… quanti ricordi! » sospirò. « Siamo circondati dai ricordi, eppure non li apprezziamo. »
« In che senso? » chiesi.
Mi spiegò che recuperarli è “riappropriarsi del Tempo” e che solo con l’arte si può rivivere il passato, “dare valore eterno alla vita, raggiungere la verità”.
« Tutto il giorno tra quei quadri e non ti è chiaro? » mi domandò. « Cos’è un quadro se non un momento rubato al Tempo, un sentimento sottratto all’animo umano? È in quell’attimo, in una pennellata che si supera questa misera esistenza. Devi leggere Proust! »
Rimasi ad ascoltarlo con il caffè che mi riscaldava.
Indicai la riproduzione de “La Colazione in giardino”. « Un De Nittis anche qui? »
« È il quadro preferito di Flora. L’abbiamo portato da Torino. Sarebbe bello metterlo in ospedale. La farebbe star meglio. » Il suo sguardo per mascherare lo sconforto si tuffò nella tazzina che aveva ancora in mano.
La sua visita era diventata il momento più sereno della settimana. Vittorio aveva sempre qualcosa da spiegarmi. Percorremmo non so quante volte le stanze della pinacoteca e alle nostre chiacchierate si univano anche altri visitatori. “La luce per il pittore è quello che è la ragione per il filosofo”, ripeteva.
« Prova a metterti più lontano » mi disse di fronte a “Westminster Bridge”. « A margine dell’altra parete! »
Il quadro da vicino era infatti un vortice di pennellate, di tratti condotti alla rinfusa. Il grigio della parte inferiore però si rav­vivava di colpo nel rosso del tramonto, non appena ci si allontanava.
« Somiglia a un’opera di Monet. La conosci? “Impressioni al levar del sole” » Le uniche impressioni del mattino che mi venivano in mente erano mia moglie con una pinza per capelli, quando mi portava a letto il caffè, o i pianti di Sara per non andare all’asilo.
Cercò di disegnarlo a parole.
« La luce cambia ciò che ci circonda. Nulla è come crediamo. Nulla è fermo. Ed è vero sopratutto all’alba e al tramonto! »
Riuscivo a seguirlo. Quelle “impressioni” non erano in fondo diverse dalle mie di sabato mattina.
La coscienza del pittore, diceva, è tutt’uno con la Natura, “che non è un oggetto da ritrarre, ma una parte dello Spirito, che vive, si trasforma”.
Mi stava vicino. Non feci a meno di notare come fosse divertito dal fatto che non avessi inteso il significato delle ultime parole.
« Hegel, non ti dice nulla, eh? »
« Per me » risposi, « può essere anche un pilota di Formula Uno. »
« Proprio lui usava un’immagine per farsi capire! Paragonava la sua filosofia alla luce! Il pensiero degli altri era la notte, in cui tutte le vacche sono nere o, come sostenevo per far ridere i ragazzi, in cui “tutte le donne sono magre”. »
Quelle strane lezioni erano divertenti, diverse dai noiosi libri che in seguito mi ha prestato. L’arte, la filosofia, la letteratura si intrecciavano nei suoi discorsi e dietro i nomi di quegli autori c’erano i miei stessi dubbi, i miei problemi.
Spesso ci fermavamo nella seconda sala. Sulla parete di sinistra era collocato “Presso il Lago”. Un quadro semplice. È ritratta una donna vestita d’azzurro vicino a uno specchio d’acqua. I suoi occhi si perdono all’orizzonte, fuori dalla tela, sembrano cercare qual­cosa.
« Ma cosa? » mi chiese Vittorio.
Risposi che mi sembrava sola, preoccupata. Mi fece cenno di sì.
« È così, Vito. La “spina nella carne”. Guai ad averla! Non puoi star bene, godere della vita. »
« Che spina? » domandai.
« A dir bene non è chiaro » continuò. « Ne parlava un olandese, Benedetto Spinoza. Se pensava al futuro, alla sua vita, era preda dell’angoscia. »
« Come me? Che non so ancora se trasferirmi… »
« Come te! » mi consolò. « L’ansia è “vertigine di libertà”, diceva Benedetto, è smarrimento davanti ai giorni che ci aspettano, alle loro possibilità infinite. »
Tonino lo faceva entrare senza fargli pagare il biglietto, perché la sua era diventata una presenza fissa a inizio settimana. La sera di ogni lunedì aspettava che finissi di lavorare e che chiudessi la mia “prigione” per tornare insieme a casa. Anzi, mi rimproverava se mi riferivo in quel modo alla pinacoteca. Il Palazzo, sosteneva, era stato dimora di conti e importanti famiglie. Meritava rispetto.
« Non conosci la leggenda? » mi domandò. « Quella di… »
« Quella della guardia sottopagata? Mi dispiace, ma non è una leggenda » lo anticipai.
« Ma no! Eligio… il conte! »
La storia, con cui ancor oggi spaventa Sara, era davvero strana. Il conte aveva avuto la meglio su un drago, ghiotto di uomini e bambini, grazie a un aiuto sovrannaturale.
« … in una grotta si avventò su Eligio ormai privo di speranze, ma apparve la Madonna, vestita d’azzurro. “Coraggio, Principe Della Marra!” lo incitò. Solo allora ebbe la forza di reagire e tagliò di netto la testa di quel demonio. »
« E poi? » chiesi.
« Poi basta! Il drago fortunatamente era figlio unico… »
Mi trattenni dal ridere. Cenzino saliva le scale e sbuffava. Le sue chiavi appese alla cintura ne preannunciavano l’arrivo. Un drago salendo le scale avrebbe prodotto un rumore non molto diverso.
Palazzo Della Marra doveva essere chiuso.
A Marzo scomparve. L’attesi per due settimane. Il meccanico sotto casa sua mi disse che lo vedeva sempre più di rado, che ormai stava sempre in ospedale e che forse la signora era peggio­rata.
Chiamai subito Michele e gli chiesi se poteva informarsi riguardo a una certa Flora Guerra, ricoverata da molto tempo. Non ebbe bisogno di controllare. La conosceva. Aveva un mieloma multiplo, poveretta, e ormai a stento riuscivano ad alimentarla. Conosceva anche il marito, un simpatico vecchietto, cui avevano dato la dispensa di dormire con lei da una decina di giorni. Mi recai subito lì. Mi condusse da loro. Vidi un’anziana signora seduta in un letto, con pochi capelli e gli occhi chiari, ancora bellissimi. L’ago di una flebo nel braccio. A un lato il professore che non appena mi riconobbe mi venne incontro, gonfio di lacrime e con in mano il suo cappello.
« Sta… sta molto male, Vito, non sono riuscito neanche ad avvisarti. Non c’è più nulla da… » si interruppe singhiozzando.
Entrai nella camera e finalmente la conobbi. Era molto stanca, ma mi sorrise. « Mio marito mi ha parlato molto di te » disse con un filo di voce. « So che hai fatto compagnia a questo giovane professore » Vittorio le stringeva la mano.
Mi sentivo in imbarazzo, ma riuscii a dire qualcosa.
« Il giovane professore è davvero in gamba! Ha avuto la pazienza di spiegarmi tutti quei quadri, che prima neanche guardavo. Se continuo a lavorare lì è merito suo. »
Flora parve rasserenata dalle mie parole, ma dopo pochi minuti mi sentii nervoso e impaziente, come sempre quando andavo in Ospedale. Li salutai non sapendo cosa fare di fronte al loro dolore, alla loro solitudine di anziani.
Mentre lasciavo Michele nell’ingresso dell’ospedale ebbi però un’idea.
« Si può portare dall’esterno del cibo ai malati? » gli chiesi. « Con un catering? »
Non capendo cosa mi frullasse in testa, Michele esitò un attimo a rispondermi.
« Di norma no » disse, « però posso parlare col primario e… ma cosa vorresti fare? »
Gli spiegai in breve la mia idea e anche lui parve divertito. Mi diede la sua parola. In fondo per un malato anche quel piccolo tentativo poteva aver senso.
La mattina dopo, non appena gli infermieri ebbero terminato il monitoraggio e la terapia, entrai nella camera, sotto gli occhi sorpresi di Vittorio. Scostai le tende. Era una bella giornata di sole. La luce inondò l’intera camera e feci cenno ai ragazzi di entrare. In pochi minuti allestirono un tavolo elegantissimo, con una tovaglia bianca di raso. Tazze e piatti di porcellana, insieme con una teiera, una zuccheriera e delle posate d’argento. A margine del tavolo un vaso di cristallo con due rose e un portavivande anch’esso d’argento che scintillava alla luce della finestra. Flora mi sorrise. Aveva già capito.
« Ecco » dissi, « … il quadro, professore! » Mi abbracciò forte.
Nei mesi successivi Flora cominciò a star meglio. Lei e Vittorio sono diventati per mia moglie e la piccola Sara due nonni acquisiti. Tutti i giorni, quando riguardo i “miei” quadri o m’improvviso a far da guida per un turista, ripenso a quei mesi, all’amicizia inaspettata di un semplice anziano con cui ho scoperto che in una tela può esser dipinta la nostra stessa vita.