di Martina Montenegro
da I luoghi e i misteri dell’arte,
antologia della Seconda edizione del Premio Letterario “Città di Barletta”.
Io sono nata in un giorno di pioggia, questo lo ricordo bene. È, in effetti, il mio primo ricordo.
Il rumore della pioggia riempiva tutta la stanza; fu la prima cosa che sentii. Poi venne il suo respiro, lento, regolare, e solo dopo s’aggiunse il rumore del carboncino sulla tela. Quando, infine, mi disegnò gli occhi, potei vederlo. La vista era ancora confusa per il tratto appena accennato, ma potei distinguere la sua figura trascurata mentre assorta mi disegnava. Quella fu la prima volta che lo vidi e fu la prima cosa che vidi. Le mani, sporche di tempera e carboncino, rivelavano la sua natura di pittore e i suoi occhi quella d’artista. Erano ben piantati su di me, concentrati nell’intento di rendermi perfetta. La barba bruna e incolta gli ricopriva metà del viso, eppure, nonostante questo, non potei far a meno di pensare che fosse bello e io, ingenua, appena misi piede su questo mondo, mi innamorai.
Il mio creatore era un uomo molto distratto. A volte s’addormentava nel suo laboratorio, sul tavolo, dove ogni sera abbozzava sempre qualcosa di nuovo che dalla mia posizione mai riuscivo a spiare; ma così, almeno, dormiva con me e non mi lasciava sola, se non per poco.
Al mattino poi, appena si svegliava, mi guardava socchiudendo un po’ gli occhi, incerto se essere soddisfatto o meno del lavoro compiuto il giorno prima. A quel punto s’avvicinava e mi scrutava ancor più attentamente, prima di decidere se cambiare qualche particolare o lasciarmi come mi aveva trovata al risveglio. A vederlo così, era proprio una figura curiosa, ma mi si stringeva il cuore a quella vista.
Passò così un certo periodo di tempo, un paio di mesi direi, di pace e tranquillità, nel quale mi beavo e mi lasciavo cullare nel solo piacere dato dalla vicinanza al mio pittore.
E vanitosamente mi godevo le sue attenzioni quando, a metà serata, tra un lavoro e l’altro, si dedicava a me. La maniacalità impiegata nel realizzarmi mi lusingava e sentivo che se avessi potuto, in qualche modo, avrei fatto di tutto per essere perfetta, per lui.
Finiti quei mesi però, poco a poco, cominciò a uscire più spesso, sempre più spesso, finché un giorno, con un gesto attento e premuroso che per me sapeva di tradimento, mi coprì con un panno e mi lasciò lì, sola, nel suo studio, per tanto di quel tempo che neppure saprei dire.
Delle volte lo sentivo tornare, far rumore, afferrare qualcosa, ma non riuscivo mai a vederlo, coperta alla sua vista, distante dal suo interesse, e lui usciva sempre molto velocemente.
Abbandonata, ripensavo a quei giorni semplici che avevano composto la mia esistenza e che ora tanto mi mancavano; ripensavo ai suoi gesti, alle sue mani, ai suoi piccoli particolari che ripercorrevo mentalmente per non dimenticarli e così, se mai fosse stato possibile, finii con l’amarlo ancora di più. Io, sua creazione, dipinsi in me l’immagine del mio artista tanto a fondo che, immaginai, chiunque avrebbe potuto vedere un po’ di lui, solo guardandomi.
Non potei crederci quando, in un gran fragore, mentre pare stesse riordinando lo studio, mi ritrovò. Nel rivederlo, nel rivedere quell’uomo che per tanto avevo solo immaginato, sentii la mia anima protendersi verso di lui, nello slancio di quel gesto che gli esseri umani chiamano “abbraccio”. Lui, stupito, mi osservò come fossi un fantasma, venuto chissà da dove, emerso chissà da quale dei suoi ricordi e solamente quando mi riconobbe, preceduto da un’intensa meraviglia negli occhi, mi sorrise.
Da allora, mi spostò di camera in camera, come a non volermi più dimenticare, come se la mia presenza fosse un promemoria, e ogni volta che si soffermava a guardarmi, prima di ricominciare a correre chissà dove e a fare chissà cos’altro, sembrava ripromettersi di finirmi presto.
A me continuarono a mancare i giorni in cui eravamo solo io e lui, ma pur di non tornare sola in quel polveroso studio, me lo feci bastare.
Era ancora un uomo distratto, tanto da lasciare spesso la televisione accesa quando la mattina presto usciva, forse per andare al lavoro. Io silenziosamente ringraziavo, perché grazie a quella distrazione ingannavo la solitudine e imparavo tutto quel che era fuori e che faceva parte del suo mondo. Mi divertivo, qualche volta, a immaginare che uno dei personaggi nella tv fosse il mio creatore, e fantasticavo così su quella vita che io non conoscevo e che a casa non portava mai.
Altre volte mi lasciava in camera da letto, così che potevo restare qualche notte a guardarlo dormire accanto a me, ritrovando, per il tempo di qualche ora, l’intimità di quei mesi ormai passati.
Se, cosa rara ma accaduta, veniva qualcuno a casa, mi appoggiava a terra, rivolta verso il muro, o mi ricopriva nuovamente con quell’odioso panno. Eppure mi sembrava quasi la gelosia d’un amante quel gesto, quel volermi proteggere dagli sguardi altrui, e ne andavo molto fiera.
Questo ai quadri che aveva ultimato, appesi alle pareti, non lo faceva mai, e mi sentivo una privilegiata.
Ma accadde, sfortunatamente un giorno accadde, che giunse una donna nella nostra casa e lui non si preoccupò di coprirmi.
La scrutai per tutto il tempo che rimase, per la maggior parte appoggiata alla porta in attesa, e forse così attirai il suo sguardo su di me. Dapprima mi guardò con interesse, me che tra tutti i quadri ero una regina sul cavalletto, e mi piacque l’idea che sapesse che ero la sua preferita.
Ma quando iniziò a scrutarmi con un’espressione interrogativa mi irritai non poco.
« Come mai proprio il viso? » chiese al mio pittore appena rientrò nella stanza.
Lui, che nel frattempo aveva già raggiunto la porta ed era pronto ad aprirla, la guardò incuriosito e un po’ confuso, nascondendo abilmente tra le ombre del viso d’aver già capito cosa intendesse.
« Scusami? A cosa ti riferisci? »
E lei, ormai troppo interessata alla risposta, continuò: « La bozza del quadro sul cavalletto è quasi finita, giusto? È curato nei minimi particolari, perfino le pieghe dell’abito non hanno neppure una sbavatura… eppure il viso è ancora confuso, appena abbozzato. Come mai il viso non è ancora finito? »
Ora mi rendo conto che non disse nulla di poco educato, tuttavia sentii quelle parole come un’offesa poiché lese l’immagine che m’ero fatta di me stessa, che da gloriosa e femminile figura, ero divenuta un essere dai tratti indefiniti, inespressivo, vuoto.
Allora attesi anch’io impazientemente la risposta del mio creatore, ma lui si limitò a offrirle un educato sorriso, aprendole la porta e invitandola ad andare, per poi richiudersela alle spalle e lasciarmi da sola.
Così, insieme a loro, scivolò fuori dalla porta quell’idea di me e di noi a cui ero tanto affezionata: l’amore tra un pittore e il suo dipinto più perfetto.
Col tempo, le visite di quella donna si fecero sempre più frequenti e così ebbi la certezza che lavorassero insieme. Non so bene di cosa si occupasse il mio padrone, ma non poteva non essere qualcosa d’artistico. La sua anima d’artista era evidente in ogni gesto, in ogni ruga del suo viso e sembrava avvolgerlo interamente in modo da proteggerlo dal mondo che viveva al di fuori di lui ma, allo stesso tempo, trattenendo la tristezza che pareva inondargli gli occhi in ogni momento. E quella tristezza restava lì, non potendo traboccare, non potendosi disperdere al fine di lasciare in lui solo quella sana quiete distesa, così propria delle altre persone.
La sua sensibilità era come un tumore, un tumore pulsante, sanguinante, che lui scambiava per il suo cuore e stringeva a sé ancora più forte, ancora più dolorosamente. Con tanta forza stringeva il dolore di essere quel che era da ritenerlo l’unico suo modo di esistere.
Dubito che gli altri, tutti gli altri, se ne accorgessero. Lui era quel genere di persona che tutti scambiano per uno di loro e così facendo nessuno è in grado di capire chi sia realmente.
Credo sia un genere di persona pericolosa quella che non sa raggiungere la felicità.
Ma la donna, invece, quella donna che con tanta fiducia lui aveva fatto entrare in casa, non era come gli altri. Sapevo che lei percepiva tutto questo, che lei aveva capito chi era il mio creatore, e temevo incessantemente ed egoisticamente che proprio lei potesse cambiare le cose e, così facendo, portarmelo via.
E io avrei voluto, come figlia della sua anima, continuare a tenerlo stretto in quell’abbraccio di tristezza, pur di preservarlo da un dolore maggiore. Ma non c’era nulla che potessi fare e lasciai che il tempo scorresse e con lui le sue conseguenze.
Poi, fu in un giorno di pioggia, uno simile a quello della mia nascita, che lo fece. Lei bussò alla porta docilmente e già capii che, forse, sarebbe stato meglio che quella porta fosse lasciata chiusa. Lui non potei avvisarlo e, semplicemente, lo guardai accingersi ad aprirle. Quel che subito mi spaventò fu la sua bellezza fragile. I capelli bagnati scivolavano lungo il viso, e ancor più giù, sulle sue spalle, fino al seno; mentre il corpo non sembrava sentire il freddo, il suo sguardo tremava, non so per cosa, paura per quel che sarebbe seguito, immagino. Non dissero nulla, si limitarono a guardarsi. E lui seguì una goccia di pioggia con le dita mentre scendeva dalla fronte, per le guance, giù per il suo collo, prima che lei volasse tra le sue braccia, posandosi sulla sua bocca, in un gesto che sembrava rifiutare qualsiasi fine.
Io rimasi a guardarli tutto il tempo, l’uno aggrappato all’anima dell’altra, per nulla stupita, ascoltando la pioggia che per prima m’accolse. Ripensavo alle parole di quella donna, che mi avevano ricordato d’essere solo un’anima incompleta, su una tela, in un angolo della stanza, mentre loro si uccidevano d’amore e non gli importava.
Allora, completamente consapevole della mia natura, mi distaccai dalla colpa che poi avrei fatto mia, essendo stata l’unica testimone di quell’errore.
Quando, dopo breve, lei decise di trasferirsi da noi, arrivò il momento per il mio padrone di decidere cosa fare di me. Determinato a far ordine in quella casa, ora da condividere, ritenne che il mio posto fosse la camera da letto. Era il cuore della casa e del suo mondo e il mio giusto ruolo era quello di un sogno abbandonato, sul fondo di un angolo del cuore.
Abbandonato sì, ma non per questo da dimenticare, avendo a lungo rappresentato tanto nella sua vita; avendo rappresentato la sua vita.
In tal modo, potei studiare attentamente quella donna. Fondamentalmente, erano molto simili.
Mi chiesi quindi se fosse per questo, se fosse per narcisismo che si erano innamorati.
Specchiatisi nell’immagine che si rimandavano vicendevolmente, erano caduti, profondamente innamorati. Eppure non potevo credere a un tale difetto del mio creatore, nonostante la loro somiglianza fosse innegabile. A causa di quella si attraevano inevitabilmente ma, allo stesso tempo, incapaci di sopportare i difetti che sapevano poter ritrovare nell’altro, si respingevano. Bastò poco perché le cose non andassero più bene.
Era come se, pur avendo messo in comune le loro vite, non fossero in grado di cancellare quel retrogusto di infelicità che avevano in bocca.
Magari, se almeno uno dei due non avesse portato il gene dell’infelicità, all’interno del loro DNA, delle loro vite, e quindi del loro rapporto, forse l’altro avrebbe potuto salvarlo. Tuttavia, quella relazione, inevitabilmente malata, fin dalla radice, si manifestava in tutta la sua imperfezione sotto ogni punto di vista. Era geneticamente insanabile, questa è la verità.
Se solo i confini di questa tela non avessero formato le mie catene, avrei potuto essere io, pura, perché composta solo d’amore nei suoi confronti e dei suoi più sfrenati sogni, a renderlo felice.
E proprio per quel che ero, proprio perché ero parte di lui, lo conoscevo meglio di chiunque altro. Questo posso assicurarvelo.
Posso perfino raccontarvi come lui l’abbia amata.
Infatti, l’ha sempre amata soffrendo per quella voglia. L’amava come fosse neve che si scioglie tra le dita, propria tuttavia di un certo tepore, per nulla gelida, ma dolce, delicata e vagamente malinconica. Fragile era, a parer suo, più d’un paio d’ali immaginarie. Quando la guardava e sentiva la voglia espandersi, mentre una fitta d’eccitazione gli avvolgeva il pube, una di colpa gli conquistava il petto. Pura era, a parer suo, più d’ogni altro essere. Perciò, dopo aver fatto l’amore, con lentezza e dolcezza, faceva sempre scivolare una mano tra le sue cosce; la sistemava lì, come a proteggere una ferita ancora sanguinante. E non c’era lussuria in quel tocco, solo la leggerezza che può avere l’esistenza, come se, avendola usata, facesse ammenda per i propri peccati.
Eppure, nonostante ciò, nonostante la pedante attenzione che aveva nel proteggerla, quand’erano a letto, la toccava come un cieco tocca il mondo, con una vaga, delicata e inconscia paura che ciò verso il quale si propende possa, improvvisamente, ferirlo.
Lo lasciava fare, lei. A lui, lasciava fare tutto. E forse fu proprio in questo suo ostinato tentativo di soddisfarlo in ogni modo che perse di vista il motivo per cui restava ancora con lui. Se ne accorse quand’era troppo tardi, tanto che questa sua nociva volontà era diventata così fitta, da non vedersene più l’origine. E l’amore non si giustifica da sé, non vi è nulla di autofondante nell’amore.
Devo ammettere che ho considerato comunque ammirevole il loro tenace perseverare nel restare assieme, nonostante tutto. Non lo facevano perché le loro orbite di solitudine li convincevano a restare vicini, ma perché quell’amore che pulsava nelle vene, nel corso degli anni, il loro corpo non l’aveva ancora assimilato, né rigettato. Era ancora lì, bruciante e affamato.
Tuttavia, cominciò a depositarsi un’ombra sul fondo del loro rapporto, la presenza di un uomo che io non vidi mai, ma che percepivo nel malcontento del mio pittore. Qualcuno era penetrato tra le crepe del loro rapporto e lì si era sistemato, come un tarlo nel legno, aspettando il momento in cui avrebbero ceduto.
Non era una minaccia reale, e non lo sarebbe mai stata se non l’avessero resa tale. Era facile, a ogni lite, per il mio creatore, rintracciare in quell’uomo ogni causa, ed era comodo per lei pensare che, da qualche parte, vi era un rapporto, una vita, un amore, più facile del loro.
Era da vigliacchi e proprio come tali si distraevano con una sciocchezza per non accorgersi che, in realtà, non c’era nient’altro lì, in quella casa. Solo loro, le loro liti e i loro fallimenti.
Nessuno li stava separando e nessuno li avrebbe mai separati, si stavano semplicemente respingendo. Lei non fu portata via da un altro uomo, non andò così. Lei se ne andò, da sola, sulle sue gambe codarde.
Quel giorno, c’era un gran silenzio in casa. Lui non disse niente mentre l’osservava fare le valigie, e lei non si girò certo a guardarlo. Era arrivato il momento e nessuno aveva il coraggio di tirar fuori la forza per evitarlo. Si sentiva unicamente il fruscio dei vestiti che venivano ripiegati e i tacchi di lei che picchiavano sul pavimento. Infine, lui l’accompagnò alla porta. Non li vidi mai dirsi addio, ma posso immaginare come sia stato. Devono essersi guardati brevemente, non si saranno neppure abbracciati, saranno scivolati l’uno lontano dall’altro, terminando solo allora quel bacio, iniziato in un giorno di pioggia, ormai troppo lontano. E io ne sono convinta, non riconosceranno mai che, sebbene alla vista delle spalle di lei lui abbia richiuso mestamente la porta, le loro anime erano ancora incastrate l’una nell’altra, disperse, come polvere, in ogni angolo della casa.
Il mio pittore riprese a lavorare solo qualche mese dopo, ma in quella casa non ci entrò più nessuno per diversi anni. Il silenzio imperversava per tutte le pallide giornate, come se il tempo fosse inerte, morto sul pavimento, peggio di un fiore appassito.
Se appena un rumore tentava d’intrufolarsi dalla finestra, veniva chiusa all’istante. Solo la pioggia pareva potesse entrare e io la ringraziavo di cuore quando veniva a farmi visita. Infatti, neppure quando tornava dal lavoro, il mio padrone sembrava essere in casa.
Ora la viveva come fosse la camera d’un hotel, con il certo riguardo che si ha verso qualcosa di estraneo. Probabilmente, della casa in cui era abituato a vivere, non era rimasto nulla. Il posto era certamente lo stesso, lo dimostrava il fatto che ogni cosa cercasse, sapeva esattamente dove trovarla, ma non era lì che lui aveva vissuto. Gli odori, la luce, i rumori, era tutto così diverso che non lo riconosceva. Dov’era finito l’odore di donna, la luce del comodino sempre accesa e il leggero rumore di piedi nudi sul pavimento del soggiorno? Ah, già. Li aveva visti sul ballatoio, un’ultima volta, poco prima di chiudere la porta e lasciare che così se ne andassero per sempre.
Un giorno trasportò fuori dal laboratorio tutto il suo materiale, le tempere, i carboncini, la gomma pane, e sistemò il tutto nella stanza più grande e luminosa, in soggiorno.
Lì spostò anche me. Sistemò ogni cosa prima di dedicarsi a disegnarmi. In un giorno qualunque, eravamo tornati solo io e lui. Eppure, non era mai stato così; ora disegnava sicuro, come se ripassasse solo i tratti di una bozza che dalla sua mente già vedeva sulla tela.
La gioia di riaverlo mio fu intensa e soddisfacente come mai prima e come mai sarebbe stata da quel momento in poi. Sapevo che, continuando così, m’avrebbe finita a breve. Non andava più neppure a lavoro. Che non ne avesse più uno? Che avesse chiesto intere settimane di ferie? Me lo chiesi senza riuscire però a preoccuparmi di nulla che non fossero i suoi occhi dedicati solo a rendermi perfetta. Cominciavo a nutrire la nascosta speranza che, una volta completata, qualcosa sarebbe cambiato, che avrei potuto, per chissà quale volontà del cielo, divenire la donna che avrebbe potuto renderlo felice. Per questa ragione non mi spaventava l’idea che, una volta ultimato il lavoro, potessi per sempre perdere il suo interesse, anzi, credevo che così anche lui si sarebbe innamorato di me. Ma voi lo sapete, così non fu. E io rimasi per sempre un dipinto, solo una scheggia d’arte su tela.
Seppi che ebbe finito di crearmi il giorno in cui si sedette davanti a me e mi osservò. Non mi vedeva semplicemente, no, mi guardava intensamente, come se stesse scegliendo accuratamente le parole da dirmi. Poi, invece, pianse.
Come una marea di parole che aveva aspettato quel preciso momento prima di traboccare, col viso tra le mani, riversò sul pavimento tutte le sue lacrime. Sentivo di doverlo consolare, sentivo che era tutto lì il motivo della mia esistenza e la mia mente si sforzò nell’impresa di governare un corpo inesistente e convincerlo a muoversi. Avrei allungato una mano, tanto sarebbe bastato. Tentai con tutta me stessa di stendere le dita, solo per accarezzargli il capo.
Scattò il volto talmente all’improvviso e con una tale sorpresa che credetti l’avesse sentita, la mia mano su di lui.
Ma io ero ancora qui, nella tela, e lui ancora lì, chiuso in se stesso. Eravamo ancora noi, stretti nelle nostre rispettive solitudini, nella stessa anima che condividevamo. E lui s’alzò, volgendosi e muovendo i primi passi.
Perderei la mia solitudine, se mi permettessi d’abbracciare la tua.
S’arrestò.
Io non l’avevo detto, nessuno l’aveva detto, ma quelle parole erano lì e timidamente tentavano di posarglisi addosso, di farsi sentire.
Finalmente si voltò a guardarmi, ma con la consapevolezza che in me non ci fosse nulla in più di tempera, una tela e quella restante porzione di cuore che gli era rimasta e del quale non sapeva più che fare.
Il giorno dopo, mi appese a un muro, vicino a tutti gli altri quadri. Non sapevo se essere felice d’aver finalmente un posto tutto mio o storcere il naso al pensiero d’essere, sul quel muro, una delle sue tante opere. Ero tutta presa dallo studiare la mia nuova postazione, a mezzo muro, sopra una bella credenza, in soggiorno, davanti a un’altra parete piena di quadri… no, non erano quadri, era uno specchio, e per la prima volta in quello specchio mi vidi. E immediatamente, inorridii.
Il mio viso, il viso che avevo atteso anni per avere, era lo stesso di quella donna. E lui mi guardava, dolorosamente innamorato, mentre io avrei solamente voluto urlare e graffiare e raschiare via dalla tela quel volto che tanto detestavo. Mi aveva usata, come unico strumento attraverso il quale poter ancora amare quella donna, che in vita sua non avrebbe più rivisto né mai voluto rivedere. Avrei voluto detestarlo per quel che mi aveva fatto, ma non era il mio compito, non ero nata per quello, e accettai, insieme al fatto che nulla sarebbe mai cambiato, che anche il mio amore sarebbe rimasto tale.
Dopo avermi completata, riprese a uscire, ad andare al lavoro e a vivere un po’ di più. Riprese perfino ad accendere la televisione e a lasciarla accesa, come un distratto, quando usciva. La nostra vita insieme riprese come se nulla fosse successo, come se fossimo tornati indietro di anni, e io riuscivo persino a illudermi di questo fintanto che fossi riuscita a evitare il mio riflesso nello specchio.
Io ero con lui quando lo seppe. Gli fui accanto quando il telegiornale mandò la notizia che una donna, durante un’accesa lite, era stata accoltellata dal suo uomo. Ero con lui quando vide la foto di lei in tv. L’aveva scattata lui quella foto e non avrebbe mai immaginato di rivederla lì, in onda, come unica prova di quanto lei fosse stata bella. Avrà pensato che, se l’avesse saputo, avrebbe tentato di renderla, almeno un po’, migliore. Avrebbe tenuto la mano più ferma, avrebbe cercato una luce migliore, perché, se proprio doveva essere quella la foto con cui il mondo l’avrebbe ricordata, che fosse una foto all’altezza della sua bellezza, maledizione. E tutto l’odio che aveva scavato le sue rughe in quegli anni, lo sentì scivolare giù dal suo viso, lungo le guance, sciogliendosi in lacrime. E per la prima volta, solo per un attimo, si sentì disperato; spaventato da quel vuoto che, come s’aspettava, sopraggiunse poco dopo e si espanse, dilagò in lui come una macchia d’inchiostro, coprendo perfino la disperazione. Ma anche solo per quell’attimo, l’avvertì intensa, profonda e corrosiva.
Nel corso degli anni, vendette tutti i suoi dipinti. Li vidi tutti andare via, incartati, coperti, rinchiusi, pronti a essere svenduti. La vuole un po’ d’arte? Prego, tenga. Ma quella vera non ha prezzo, sa? Erano le parole che potevo leggere nel suo sguardo quando ne vendeva uno.
Ebbi il terrore che si volesse sbarazzare perfino di me, ma mi tenne con sé tutta la vita.
Io lo vidi morire. C’eravamo solo noi due. Nessun altro, come avrebbe sempre dovuto essere.
Il mio amore l’abbracciò per tutta la notte finché, al mattino, quei pochi amici non vennero a cercarlo e me lo portarono via. Come un animale silenzioso, si era ritirato per morire in pace, in quel luogo che sorgeva sulle ceneri della sua vecchia casa, rifiutando qualsiasi contatto.
Forse, se si fosse fatto sentire almeno il giorno prima di morire, non sarebbero venuti a cercarlo e me l’avrebbero lasciato un po’ di tempo in più. Ma avrei dovuto prepararmi prima.
Anche se ci sarebbe voluta tutta una vita a dirgli addio.
Ora il mio pittore è un artista stimatissimo e molto amato. Insieme ai suoi quadri, adesso riuniti, io viaggio molto, per portare della sua arte, a chiunque lo voglia, il cuore.
Gli altri dipinti non mi parlano mai e mai mi hanno parlato. Forse perché non hanno l’anima che a me invece è stata data. O forse perché parlano solo a voi, a chi vuole ascoltare la sua storia, e mentre loro portano un altro aspetto della sua vita, cos’hanno visto i suoi occhi, cos’hanno sentito le sue orecchie, io a voi dono cos’ha provato. Io sono quel che è rimasto della sua anima, dei suoi più feroci sogni, delle sue più profonde aspettative, dei suoi pensieri più nascosti. Sono l’amore senza fine, ma che a una fine è condannato, un sogno mai realizzato.
E se vi fermate ad ascoltarmi, in qualunque sala, in qualsiasi museo, vi mostrerò un frammento della sua anima o, se volete, della vostra.